martedì 13 agosto 2019

Cindy Sherman / L'istrionica pioniera del selfie

Cindy Sherman


Cindy Sherman

L'istrionica pioniera del selfie

13 AGOSTO 2019, 
GIOVANNA LACEDRA
Camaleontica, trasformista, una vera funambola dell’identità femminile. Cindy Sherman è la più eclettica tra le artiste che hanno fatto del self-portrait il perno della propria ricerca. I suoi autoscatti sostanzialmente centralizzano l’attenzione su due figure, che sono in realtà una sola: l’autore e il soggetto.
Perché di fatto, da più di quarant’anni a questa parte, autore e soggetto sono una sola persona: lei. Lei che di volta in volta, di scatto in scatto muta, si traveste e cambia volto, cambia corpo, cambia genere, cambia realtà. Diventa sempre altro da sé. Un po’ come accade a noi internauti anonimi, mendicanti di visibilità, quando ci prepariamo per scattare un selfie. A noi che oramai dipendiamo dai like dei nostri followers, proporre sempre la stessa immagine risulta infelice. Dobbiamo raccontare di essere molte cose e di farne ancora di più. Dobbiamo, in qualche modo, diventare qualcosa d’altro rispetto a quel che sentiamo di essere. Per accattivare, piacere, sorprendere. Dobbiamo scattare un selfie che catturi l’attenzione. Dunque a volte scegliamo accuratamente il luogo, il contesto, la cornice, controlliamo che sullo sfondo ci sia esattamente ciò che desideriamo si intravveda. Pensiamo alla nostra immagine: i capelli, il trucco, la smorfia, l’espressione. L’imperfezione, se la notiamo il più delle volte non la vogliamo, e allora passiamo in rassegna tutti i filtri che il nostro smartphone, o lo stesso instagram, ci propone, al fine di ottenere un’immagine di noi che vorrebbe spacciarsi per spontanea, ma che in verità è più che mai studiata. Dal set al personaggio. Un po’ come farebbe la Sherman. Un po’ come la Sherman fa da quarant’anni, ma con un intento sempre diverso, specificamente provocatorio, concettuale e critico.

Cindy Sherman

Per ogni autoscatto si trasforma in una donna diversa. La fotografia per lei è sempre stato un mezzo utile a immortalare vere e proprie alterazioni di identità. Ma prima di essere una fotografa è certamente una performer. Ha, del performer, l’attitudine all’istrionismo, questa teatrale abilità scenica che le permette di essere chiunque decida di essere, di diventare ogni volta un personaggio diverso. Ma non attua le sue mutazioni davanti a un pubblico. Usa il medium fotografico per fissare l’azione. Perché a interessarle è il concetto che un’immagine può incarnare; la provocazione, la distorsione e il disorientamento che ne conseguono. E perché queste trasformazioni avvengano nel più impeccabile dei modi, meticolosamente ne studia e cura ogni dettaglio, trasformando se stessa fino a rendersi irriconoscibile. Dietro a un suo autoritratto esiste uno studio approfondito, una grande progettualità, una ricerca certosina di costumi, tessuti, oggetti, parrucche e make up.
C’è da dire, poi, che di recente si è tanto parlato del suo nuovo profilo instagram, aperto da poco più di un anno e con il quale gioca a rivisitare una serie di autoritratti, attraverso quelle che sono oggi le potenzialità del mezzo digitale, quindi utilizzando la grande varietà di filtri e applicazioni che consentono di modificare oltremisura l’immagine originale. Una scelta, questa, al passo coi tempi e perfettamente in linea con il suo modo di lavorare! Ne risulta una gallery debordante di selfie deformati, dalle fisionomie distorte. Ma chi è Cindy Sherman?

Cindy Sherman

Cindy è oggi una donna di 64 anni. Nata nel New Jersey nel 1954, ultimogenita di un ingegnere e un’insegnante. Ha frequentato la State University of New York di Buffalo, e ha intrapreso il suo percorso all’interno delle arti visive prima come pittrice, poi spostandosi sull’uso del proprio corpo. Un po’ come è successo ad altre performer – penso alla stessa Abramovic – a differenza delle quali, però, la Sherman ha preferito la fissità dell’immagine fotografica all’azione stessa. Pare che la sua attitudine al trasformismo sia emersa già nei primi anni dell’università, quando iniziò a frequentare musei e gallerie d’arte, ai cui vernissage si presentava travestita ogni volta da un personaggio diverso. Fu un modo per farsi notare, ma che presto sarebbe diventato il cuore del suo lavoro.
Nel 1976 si trasferì a New York in un attico di Manhattan, dedicandosi completamente alla fotografia e sperimentando le estreme potenzialità dell’artificio. Tra il 1977 e il 1980 realizza una delle sue serie più celebri: Untitled Film Stills / Fermo-immagine senza titolo, che nel 1995 verrà acquistata dal MOMA di New York per oltre un milione di dollari. Si tratta di 69 autoscatti in cui la Sherman ricostruisce fedelmente il set di alcune scene di film hollywoodiani degli anni Cinquanta e Sessanta, però mai riconducibili a uno specifico titolo e a un preciso regista. In alcuni di questi scatti veste i panni della prostituta, in altri quelli della donna in carriera, della squilibrata mentale, della casalinga. Ruoli dell’immaginario collettivo di impostazione maschilista, tutti immortalati in una sorta di fotogrammi fissi. Più che fotografie, queste sembrano essere veri e propri fermo-immagine, in quanto il soggetto – l’artista – non ci guarda, così come un attore non guarderebbe in camera mentre interpreta la sua parte. Le eroine shermaniane qui sono eternate in un bianco e nero che evoca le pellicole del dopoguerra. E le atmosfere, le ambientazioni ci riportano a volte sulla scena di un film horror, altre sulla scena di un noir.

Clown
Cindy Sherman

Il suo lavoro è parso come una sorta di critica, anche piuttosto palese, alla società maschilista, ai media, e alla stessa cinematografia. Un’accusa di abuso e svuotamento dell’immagine femminile, fino a ridurre la donna stessa a nulla più che uno stereotipo. In qualche caso, invece, è avvenuto un ribaltamento: la sua presenza è divenuta marginale e il vero protagonista si è rivelato essere il set. Accade questo in un’opera che forse non è tra le più note ma che certamente risulta molto laboriosa. Si tratta di Untitled n.175 una fotografia del 1987 realizzata per una rivista americana che le chiese di produrre alcuni lavori ispirati al mondo delle fiabe. Ma il mondo delle fiabe non può restare intatto nella sua fantasia. Qualcosa va deformato, distrutto. E in questo scatto, in effetti, di fiabesco c’è ben poco. Tutto appare caotico, sporco, disgustoso. La presenza della Sherman esiste nel riflesso della lente di un paio di occhiali da sole gettati su un pavimento sudicio di vomito. L’atmosfera sa di devastazione: pasticcini al cioccolato sembrano essere esplosi assieme a pezzi di torta della nonna. Un lembo di abito bianco riconduce alla sua presenza. Ma il suo corpo pare giacere senza vita; forse la donna è stata assassinata. La serie degli Untitled ispirati alle fiabe è, di fatto, costituita da immagini decisamente raccapriccianti, a volte strambe altre inquietanti, ma che in ogni caso violano l’ovattata dimensione di racconto a lieto fine.
In tutti i suoi lavori la Sherman mira a decostruire o stravolgere l’impostazione predefinita, confezionata e rassicurante di una certa realtà. Accade con la serie History Portraits del 1989 in cui si trasforma in alcune delle più note icone femminili e, in numero più ridotto, maschili della storia dell’arte. Dal Bacco di Caravaggio alla Madame De Pompadour di Boucher, dalla Fornarina di Raffaello alla Madonna col Bambino di Fouquet, ritratti nobildonne, di amanti o madonne del Rinascimento, del Barocco, del Rococò e del Neoclassicismo, rivivono in un nuovo, artificioso plasticismo.

Clown
Cindy Sherman

Pare che l’idea di questo lavoro sia nata dopo un lungo soggiorno a Roma, durante il quale l’artista ha visitato i più importanti musei della capitale. Cindy decide di posare trasformando se stessa di volta in volta in un personaggio tratto da un celebre dipinto. E se Orlan, per avere i connotati della Monnalisa di Leonardo o della Venere del Botticelli, ricorrerà alla chirurgia estetica inaugurando l’era della Carnal Art, la Sherman farà ricorso a dispositivi protesici. La ricostruzione dell’opera, però, non è di fatto mai fedele all’originale.
Al contrario, l’intento è proprio quello di fornire una iniziale percezione di riconoscimento dell’opera nel fruitore, per poi provocare una sorta di disorientamento. L’artista giunge a questo risultato combinando vari elementi provenienti da fonti iconografiche differenti, ma che portano ad una percezione finale spiazzante. Ciò che ne risulta è la versione grottesca del dipinto al quale si era inizialmente ispirata. L’effetto è destabilizzante, e ha lo scopo di togliere all’osservatore la certezza di un’apparentemente, consolidata immortalità e immutabilità dell’opera d’arte. L’assemblage e la performatività sono, in questo caso, al servizio della dissacrazione.

Cindy Sherman

Con gli anni Duemila il suo lavoro si è pian piano spostato dall’analogico al digitale, e da queste nuove sperimentazioni è nata la serie dei Clowns. Siamo nel 2004 e gli scatti che la ritraggono travestita da pagliaccio, in una dimensione dalla vivida e straniante cromia, sono nati a seguito di una riflessione sugli attacchi terroristici del 2001. La felicità patinata di uno Stato messo in ginocchio, questo le interessava tradurre. La Sherman ha cercato un’icona che fosse emblema di una enigmatica tristezza, malcelata da un’artefatta allegria. Il Clown le è apparso più che calzante: la maschera inquietante che tradisce il lato oscuro della realtà. Come l’artista stessa ha affermato: "Ho scelto i pagliacci per mostrare i complessi abissi emotivi che si nascondono dietro un sorriso dipinto".
Di lei Andy Warhol disse “è brava abbastanza per essere una vera attrice”. Ma quello che la Sherman mette in scena non è uno spettacolo: è il paradosso della nostra contemporaneità. Cindy Sherman vive e lavora a New York.
WSI


Giovanna Lacedra
Nasce nel 1977 a Venosa (PZ). Nel 2000 consegue il diploma di laurea in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 2004 consegue l’abilitazione all’insegnamento presso l’Università di Pisa. Si trasferisce poi a Milano, dove attualmente vive e lavora come docente, artista visiva, performer e autrice. Come performer si è esibita sia in progetti di altri artisti, quali: "La bara del Bastardo" di Daniele Alonge - 2011; "Yummy Good!" di Manuela De Merito - 2011, che in propri
Dal 2011 al 2015 ha portato in scena, con un tour itinerante che ha toccato ben 14 tappe in gallerie, musei e spazi espositivi italiani e in città come Milano, Sassuolo, Cesena, Pescara, Lecce, Napoli, etc… la Performance Confessional "Io Sottraggo. La Triangolazione Cibo-Corpo-Peso", un progetto riguardante la patologia anoressico-bulimica, da lei ideata, scritta e interpretata. A Milano la performance è stata portata in scena anche presso il Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” in occasione della fiera d’arte contemporanea Step09 Art Fair, nel novembre 2011, a Venezia è andata in scena il 9 maggio 2015, in concomitanza con l’apertura della 56 Biennale Internazionale di Arte Contemporanea, e ha fatto parte della V Biennale d’arte di Anzio e Nettuno. La performance è stata introdotta nelle tesi di laurea di alcune studentesse del Dams e della Facoltà di Beni Culturali, per gentile concessione dell’artista. Inoltre, la scuola di Giornalismo “Walter Tobagi” dell’Università Statale di Milano ha realizzato una video-intervista in occasione di Expo2015, pubblicata sulla piattaforma ExpoStories.
Nel settembre 2013 nasce la performance "L'Aspirante", un nuovo progetto che affronta il tema della prevaricazione e della violenza di genere, intellettuale e psicologica, prima che fisica, sbocciato dalla rilettura dell’omonima poesia di Sylvia Plath e dei suoi Diari. Ideata, scritta e interpretata da Giovanna Lacedra e Roberto Milani, la performance è andata in scena tra il 2013 e il 2015 presso le seguenti location: galleria d’Arte Amy-D di Milano, fiera d’arte ArtVerona, per CUNTemporary Art|Feminism|Queer di Londra, Galleria Comunale Ex Pescheria di Cesena, con Patrocinio del Comune e dell’Assessorato Politiche delle Differenze Casa Museo di Ludovico Ariosto a Ferrara, Chiostro di Voltorre a Gavirate (Varese) per la mostra “la neve non ha voce” a cura di Alessandra Redaelli.
Nel maggio 2014 a partire dall’omonima poesia di Vittorio Varano, scrive e porta in scena la performance “Come il mare in un Bicchiere”, con la partecipazione performativa di Irene Lucia Vanelli. La performance viene realizzata tra il 2014 e il 2015 presso: 77Art Gallery di Milano, MAG – Marsiglione Art Gallery di Como, “CORPO | Festival di Arti Performative” di Pescara, V Edizione a cura di Ivan D’Alberto e Sibilla Panerai. Nel giugno 2014 ha portato scritto e portato in scena, prima presso la Casa Museo di Ludovico Ariosto a Ferrara e poi presso l’ArtFarm Pilastro di Bonavigo (Verona), una performance articolata sui versi dell'ultima poesia di Sylvia Plath e su un percorso di 100 acquerelli che la ritraggono come innumerevoli sindoni-tracce, titolata "EDGE | Ultimo Ritr-Atto".
Nell’autunno 2014 scrive e porta in scena una performance sull’infansia abusata, liberamente ispirata al libro “I quaderni delle bambine” della psicologa Maria Rita Parsi. La performance si intitola NONSONOMAISTATAUNABAMBINA. Si esibiscono con lei il fotografo e attore Massimo Festi e la piccola Giulia Fumagalli. I monologhi sono di Giovanna Lacedra, le musiche di Larva Casei. Le tappe sono due: Palazzo Pirola, Gorgonzola (MI) e Galleria Biffi Arte di Piacenza. Entrambi gli eventi fanno parte della rassegna “Femminile Plurale” a cura di Alessandra Redaelli.
Ha partecipato a progetti fotografici di Massimo Prizzon, Pablo Peron, Christian Zucconi, Marco Chiurato, Franco Donaggio, Massimo Festi.

Ha scritto testi critici per artisti come: Elisa Anfuso, Anna Caruso, Paola Mineo, Urban Solid, Daniele Duò, Pep Marchegiani, Alessio Bolognesi, Alessandro Carnevale.

Attualmente è autrice per Wall Street International Magazine, sezione Arte e cura un proprio Blog, titolato Ellepourart e dedicato esclusivamente all'arte fatta dalle donne, includendovi artiste giovani o storicizzate, pittrici, scultrici, fotografe, performer, poetesse...



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