venerdì 31 agosto 2018

Truman Capote / Gli aforismi più noti


Truman Capote, gli aforismi più noti

Oggi ricorre l’anniversario della scomparsa dello scrittore americano Truman Capote. Ecco a voi una selezione dei suoi aforismi più celebri…

25 agosto 2018

MILANO – Truman Capote è stato uno dei più apprezzati scrittori americani. Da molti è stato definito il pioniere delle ‘gossip’, erano molti, infatti, i personaggi dell’alta società che si litigavano la presenza di Truman Capote alle loro feste.  Ancora oggi è ricordato per la pubblicazione del romanzo – verità A sangue freddo”. Oggi, per ricordare le sue taglienti parole, abbiamo selezionato alcune delle sue frasi più celebri.
“Io credo più nelle forbici che nella penna.”
“Si versano più lacrime sulle preghiere esaudite che su quelle inascoltate.”
“È una recessione quando il tuo vicino perde il lavoro; è una depressione quando tu perdi il tuo.”
“Devi molto a chiunque ti abbia mai dato fiducia.”
“Era molto divertente, all’inizio. Smise di esserlo quando scoprii la differenza fra scrivere bene e scrivere male. E poi feci una scoperta ancora più allarmante: la differenza fra un ottimo stile e la vera arte; sottile ma feroce.”
“Il fallimento è il condimento che dà al successo il suo sapore.”
“Non c’è niente di nuovo nel mondo, eccetto la storia che non conosci.”
“Venezia è come mangiare tutta in una volta una scatola di cioccolatini al liquore.”


martedì 28 agosto 2018

Umberto Saba / Dopo la tristezza





Umberto Saba
Dopo la tristezza



Questo pane ha il sapore d’un ricordo,
mangiato in questa povera osteria,
dov’è più abbandonato e ingombro il porto.
E della birra mi godo l’amaro,
seduto del ritorno a mezza via,
in faccia ai monti annuvolati e al faro.
L’anima mia che una sua pena ha vinta,
con occhi nuovi nell’antica sera
guarda una pilota con la moglie incinta;
e un bastimento, di che il vecchio legno
luccica al sole, e con la ciminiera
lunga quanto i due alberi, è un disegno
fanciullesco, che ho fatto or son vent’anni.
E chi mi avrebbe detto la mia vita
così bella, con tanti dolci affanni,
e tanta beatitudine romita!


lunedì 27 agosto 2018

Umberto Saba / Ulisse



Umberto Saba

Ulisse




Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore


domenica 26 agosto 2018

Umberto Saba / Le poesie più belle



Umberto Saba, le poesie più belle


Si ricorda oggi la scomparsa del poeta triestino Umberto Saba. Vogliamo ricordarlo attraverso le sue poesie più famose …

MILANO
25 AGOSTO 2018

Le poesie di Saba sono spesso caratterizzate da un tono umile e colloquiale, e sono state raccolte nel “Canzoniere“, che si presenta come una vera e propria autobiografia poetica d’autore, in cui vengono presentati e trasfigurati liricamente gli episodi importanti della vita del poeta. I componimenti infatti riguardano in modo particolare la sua esperienza quotidiana, la vita in famiglia e gli affetti privati, su cui si innestano riflessioni sulla sofferenza e sulla natura umana, calate sullo sfondo, concreto e personalissimo, della città di Trieste. In occasione del suo anniversario, lo ricordiamo attraverso i suoi versi più amati.
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La mia fanciulla

La mia fanciulla snella e polposetta
è come un arboscello con le poma:
una ne mangi ed un’altra t’alletta.
La mia piccola cara è una bambina.
Teme, se tardi rincasa, legnate,
suo castigo di quando era piccina.
E quando fa quella proibita cosa
si volge, e manda sospettose occhiate,
per veder se la mamma è là nascosa.
La mia piccola cara è troppo audace.
Mette la testa con la grande chioma
fra le mani, e mi guarda a lungo e tace.
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La capra

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
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Sera di febbraio

Sera di febbraio
Spunta la luna.
Nel viale è ancora
giorno, una sera che rapida cala.
Indifferente gioventù s’allaccia;
sbanda a povere mete.
Ed è il pensiero
della morte che, infine, aiuta a vivere
.

Il poeta

Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini;ma quanto,
quanto variate!
L’ore del giorno e le quattro stagioni,
un po’ meno di sole o più di vento,
sono lo svago e l’accompagnamento
sempre diverso per le sue passioni
sempre le stesse;ed il tempo che fa
quando si leva, è il grande avvenimento
del giorno, la sua gioia appena desto.
Sovra ogni aspetto lo rallegra questo
d’avverse luci, le belle giornate
movimentate
come la folla in una lunga istoria,
dove azzurro e tempesta poco dura,
e si alternano messi di sventura
e di vittoria.
Con un rosso di sera fa ritorno,
e con le nubi cangia di colore
la sua felicità,
se non cangia il suo cuore.
Il poeta ha le sue giornate
contate,
come tutti gli uomini;ma quanto,
quanto beate!
.

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Amai trite parole

Amai trite parole che non uno osava.
Mi incantò la rima fiore amore,
la più antica difficile del mondo.
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Trieste

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
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A mia figlia

Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non più che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.
La mia vita mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.
Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
Mamma, e ti gode. E il suo vecchio amore oblia.


sabato 25 agosto 2018

Alda Merini / Un falò






Alda Merini
Un falò

Ho acceso un falò
nelle mie notti di luna
per richiamare gli ospiti
come fanno le prostitute
ai bordi di certe strade,
ma nessuno si é fermato a guardare
e il mio falò si è spento.





venerdì 24 agosto 2018

Josef Koudelka / L’amore per gli zingari


Josef
Koudelka
L’amore per gli zingari

JULY 11, 2012 9:00 AM
by ALESSIA GLAVIANO

Koudelka oggi ha 74 anni, è membro di Magnum dal 1970 e ha vinto tutti i premi possibili immaginabili, è uno dei padri storici della fotografia; parlare con lui è come incontrare Henri Cartier Bresson o Robert Capa.
Nato nel 1938 a Moravia in Cecoslovacchia, inizia a fotografare giovanissimo a 12 anni, studia e diventa ingegnere aeronautico, professione che abbandona nel 1967 per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Crescendo, i soggetti che fotografa sono gli attori in un teatro della sua città e gli amati zingari della vicina Romania.
Nel 1968, quando Josef è trentenne, la Cecoslovacchia sta vivendo la sua primavera, il riformista Alexander Dubcek ha preso il potere e abolito molte delle restrizioni imposte dal blocco sovietico. Poi una notte di agosto, appena rientrato da un viaggio in Romania dove aveva fotografato gli amici zingari, Josef riceve alle 3 del mattino una prima telefonata da un’amica che gli dice che le truppe russe stanno per entrare a Praga. Josef pensa che l’amica sia ubriaca e riaggancia, alla terza telefonata dell’amica sente il rombo degli aerei in cielo, e si precipita in strada, documenta così l’invasione sovietica di Praga con delle immagini che sono diventate una pietra miliare del fotogiornalismo.

Con l’aiuto di Eugene Ostroff, curatore dello Smithsonian Institution e di Anna Farova, una storica della fotografia riesce a far uscire clandestinamente i rullini da Praga e farli arrivare nelle mani di Elliott Erwitt – e quindi Magnum – a New York, le immagini fanno subito il giro del mondo ma per paura di possibili ripercussioni sulla sua famiglia Josef non vuole che fossero a lui creditate, compaiono quindi ovunque come scattate da P. P. – Prague Photographer. Solo nel 1984, dopo quindici anni, quando anche suo padre muore, Koudelka prende il dovuto credito delle foto pubblicamente.
Intanto nel 1969 l’ignoto fotografo di Praga riceve il premio Robert Capa dell’Overseas Press Club e Magnum gli offre una sovvenzione per fotografare gli zingari fuori dalla Cecoslovacchia per tre mesi, poi nel 1970 Erwitt lo aiuta a ottenere asilo politico a Londra, seguiranno diciassette anni di “vagabondaggio”, senza fissa dimora, poi nel 1987 riceve la cittadinanza francese e da allora vive fra la Francia e Praga, dove è potuto ritornare solo nel 1991.


Alla Fondazione Forma di Milano in mostra fino al 16 settembre gli zingari di Josef Koudelka, 109 immagini che compongono anche il libro edito da Contrasto. Una prima mondiale quella da Forma, un libro e una mostra che Koudelka aveva in mente da 43 anni, un primo progetto del libro era stato infatti già pensato dal fotografo negli anni ’70 prima di lasciare la Cecoslovacchia.
Ho intervistato Koudelka prima della conferenza stampa, nella giornata inaugurale della mostra. Le fotografie erano già tutte appese ma il prespaziato con il titolo della mostra bisognava ancora attaccarlo al muro: la prima versione a Koudelka non era piaciuta e la seconda versione era lì fissata temporaneamente con del nastro adesivo, mentre l’artista decideva – con i suoi tempi – se 5 cm più in alto o più in basso, più a destra o a sinistra. Non è stata impresa facile.
I miei dubbi su cosa aspettarmi da un fotografo come lui, che personalità potesse avere un uomo che ha fatto delle scelte di vita così radicali, si sono dissolti ben presto.

Dire che Koudelka è molto attento ai dettagli non sarebbe abbastanza. La sua attenzione anche al più piccolo dei particolari è maniacale. Josef è capace di stare ore in silenzio seduto davanti a un muro della galleria per decidere quale sia la sequenza migliore per le sue fotografie.
Il lavoro in mostra da Forma è uno dei documenti fotografici più importanti del ‘900. Koudelka inizia a fotografare gli zingari nel 1962, quando era addirittura vietato parlarne, e prosegue fino al 1971 documentando la vita delle comunità gitane di Boemia, Moravia, Slovacchia, Romania, Ungheria, Francia e Spagna. Il pregiudizio di allora non era diverso da quello di oggi, gli zingari rubano e uccidono, questo lo avevano detto anche a Josef, ma lui i gitani per la prima volta li incontra da adolescente a un festival di musica folk, e quello che lo colpirà sarà la loro musica ed espressività.
Zingari di Koudelka non è un lavoro politico, ma piuttosto un’analisi della vita, era questo l’obiettivo di Koudelka e la comunità gitana ne costituiva un condensato ideale: le stagioni della vita sono in essa perfettamente rappresentate e le emozioni vissute senza alcuno scrupolo o freno sociale.
Dopo averlo conosciuto capisco meglio questa necessità di fare ordine sempre presente nelle sue immagini, la cura per la composizione, la luce, niente è lasciato al caso. Quello che mi stupisce è che la stessa capacità di composizione del frame è presente nelle fotografie dell’invasione di Praga del ’68, com’è possibile avere questo occhio e questa capacità quando hai solo pochi istanti per scattare e devi anche stare attento a non farti scoprire?
È questo che divide la fotografia, il documento, dall’arte. Forse Koudelka abituato a fotografare gli artisti in palcoscenico era addestrato a comporre la scena, ma questo non basta a spiegare la genialità delle sue immagini, Koudelka non è un fotoreporter, la vita ha voluto che si trovasse a documentare un avvenimento storico e lo ha fatto nell’unico modo che conosceva, con il suo occhio, quello di un poeta che scrive con la luce.
Pensando alle scelte di vita di Koudelka, potrebbe sembrare strana la sua intransigenza arrivati alle sue fotografie: l’amore per gli zingari, le leggenda di un Koudelka che dorme per terra anche negli alberghi e che ha attaccato degli stuzzicadenti per la messa a fuoco alla sua Leica, e poi tre figli da tre donne diverse di tre paesi diversi, nessuna casa, nessun vestito se non quelli che indossa e un cambio, nessun compromesso, mai accettato lavori per i giornali ma solo commissioni governative, una vita vissuta mantenendo se stesso e i suoi figli solo con i premi, le sovvenzioni, la vendita dei libri ma non delle fotografie, che non vende perché lo irrita terribilmente pensare che chiunque possa possederle.
Strano ma forse invece ovvio, come se essendo umanamente impossibile raggiungere nella vita il livello di perfezione ottenibile con le immagini la sua esistenza fosse tutta tesa verso l’esperienza del mondo per poterlo “ordinare” nelle sue immagini. Un caos ordinato. Una totale identificazione con il medium.
Camminiamo insieme nello spazio della mostra, il maestro mi spiega che c’è una differenza fondamentale fra un libro e la mostra che ne espone le stesse fotografie: quando guardi un libro ne giri le pagine, se vai a una mostra invece guardi i muri, non si può pensare di adottare la stessa sequenza che hai nel libro per i muri.
Koudelka ha vissuto con queste fotografie per 43 anni, ne parla come si potrebbe fare dei propri figli, le ama e le rispetta, le stampe sono incredibili, le ha curate tutte una per una così come il libro, che ci tiene a precisare è stato prodotto da uno stampatore tedesco bravissimo di cui non riesco a capire il nome. È molto contento di avere trovato questo stampatore perché i libri che vede adesso in giro sono tutti “piatti”, brutti.
Mi racconta che negli anni ’60 per caso ha comprato un grandangolo da una vedova che vendeva tutto: il grandangolo è risultato l’obiettivo perfetto per i piccoli spazi in cui vivevano gli zingari. Poi, uscito dalla Cecoslovacchia, abbandona il grandangolo perché ormai quella tecnica l’aveva utilizzata e la ripetizione non lo interessa: prende una Leica 35 mm e inizia a girare il mondo.
Zingari di Josef Koudelka
Fondazione Forma per la Fotografia
Milano, Piazza Tito Lucrezio Caro, 1?
Dal 21 giugno al 16 settembre 2012
Tutti i giorni dalle 11 alle 21Giovedì e Venerdì fino alle 23. Chiuso il Lunedì
Per informazioni: 02 58118067
Per leggere il resto clicca qui

Video intervista Alessia Glaviano
Filmed and edited by Marco Morona
Special thanks Fondazione Forma per la Fotografia – Milano.

by Alessia Glaviano
VOGUE



FICCIONES

DE OTROS MUNDOS

DRAGON

RIMBAUD

DANTE



giovedì 23 agosto 2018

Dacia Maraini / La tua faccia non ha nome







Dacia Maraini
La tua faccia non ha nome
la tua voce non ha suono
il tuo treno non ha numero
il tuo viaggio non ha orari
ma io so che verrai
con quella faccia
con quella voce
con quel treno
alla fine del tuo lungo viaggio.





mercoledì 22 agosto 2018

Dacia Maraini / La bambina e il sognatore


Dacia Maraini: la forza dei sogni

Un maestro che ha perso la figlia, adorato dagli allievi. Idealista pronto a combattere. La scrittrice sceglie per la prima volta un protagonista maschile. Con successo


di FRANCESCO CEVASCO

4 novembre 2015 (modifica il 5 novembre 2015 | 16:24)


Dice Dacia: «Per la prima volta ho preso come protagonista di un mio romanzo una figura maschile e questa novità mi mette un poco di agitazione». E non solo protagonista ma anche io narrante... Ma tranquilla, gentile signora Maraini: l’esperimento è riuscito.

Dunque, il maschio del romanzo La bambina e il sognatore (Rizzoli) è un maestro di scuola. Ancor giovane e di bell’aspetto. Si è lasciato un po’ andare perché ha sofferto molto. La figlia di otto anni è morta di leucemia. La moglie, che come lui non ha saputo superare quel dolore insuperabile, lo ha lasciato. Vive lo strazio della solitudine. Solitudine che non si è scelto, ma gli è piombata addosso. Fortuna che ha i suoi alunni. Lo amano perché sa raccontare storie affascinanti. Riesce a trasformare in «storie» anche la geografia, l’astronomia e la matematica. E i ragazzini, quando lui parla, la smettono di smanettare sui telefonini. Ovviamente è un maestro che a volte non rispetta l’arido protocollo della burocrazia scolastica. E per questo ogni tanto si prende «una padellata in testa» dalla preside.

Il maestro è anche «il sognatore» del titolo del romanzo. Sognatore non soltanto perché s’illude che possa esistere un mondo migliore fatto di verità e giustizia. Ma anche perché sogna davvero. Come quella notte in cui «vede» una bambina che assomiglia tanto a sua figlia. Che come lei cammina con «passo da papera». Ma i passi della bambina non portano la piccola alunna a scuola, la stessa scuola dove insegna il maestro sognatore. La portano in un misterioso nulla in cui lei scompare. Il guaio è che, poche ore dopo quel sogno, il sogno si avvera. All’ora in cui la bambina doveva entrare a scuola sparisce come una piccola Alice, la ragazzina delle meraviglie inghiottita da un pozzo profondo.

La coincidenza fa esplodere nel cuore e nella mente del maestro una volontà invincibile: cercare quella bambina sparita. A distrarlo da questo scopo che ridà un senso alla sua vita non basta nemmeno la sua «cattiva coscienza». Il maestro la materializza in un uccellaccio - un ibrido tra un pollo e un rapace calvo e sgraziato - che ogni tanto gli si appiccica a una spalla e gli dà lezioni vita. Come il grillo parlante di Pinocchio, è saccente e antipatico. Non è proprio cattivo, ma è come la maggioranza di noi esseri umani: egoista, cinico, pragmatico. «Che cosa t’intigni a cercare quella bambina che sarà stata sequestrata, stuprata, uccisa e sepolta da un bruto; e nessuno la troverà mai più. Sai quante ne succedono di cose così?!».

Ma il maestro non si arrende. Deve affrontare l’ostilità di tutti: la polizia, gli abitanti della piccola città in cui vive, il prete; persino i genitori della bambina scomparsa sono diffidenti e sospettosi. Solo gli alunni sono suoi complici. E tra loro ci sarà chi parteciperà in maniera importante alle indagini. Perché questo è anche un libro investigativo. Una vera e propria storia nera. Il racconto di un viaggio alla scoperta di uno e più mondi criminali. Dacia Maraini riesce a calarsi nella psiche maschile non soltanto del buon maestro, ma anche in quella di una torbida canaglia che, sentendosi un «prolungamento del caro Marcel», insegue fanciulle in fiore.

Ma La bambina e il sognatore non è soltanto una storia nera. È anche una storia sociale. Dell’Italia di oggi e del mondo che ci circonda. La scuola e i suoi intrecci con i nuovi temi aperti dall’immigrazione. Come quel padre islamico che non vuole che la figlia continui a studiare, perché secondo lui le ragazze che vanno a scuola non saranno mai delle buone madri. O quel «padre», nel senso di prete, che si scandalizza perché il maestro «insegna liberté égalité fraternité , le tre parole magiche della rivoluzione francese poi riprese dal comunismo russo».

E poi, seguendo i fili che annodano la trama del libro, t’imbatti nella crudele realtà delle bambine ridotte a schiave per soddisfare il lurido piacere dei buoni padri di famiglia che diventano turisti del sesso in Cambogia. O nella incredibile gioia - anche per un maschio - di avere un figlio o di desiderarlo, come diceva Pavese: «Quest’uomo vorrebbe lui averlo un bambino e guardarlo giocare». O nell’incredibile dolore di vederlo morire con dei piccoli tubi e rubinetti piantati nel corpo nell’inutile sforzo di vederlo guarire; ma non è così.

Oltre alla bambina, quella sparita e quella portata via dalla leucemia che poi sono la stessa, ci sono altre due figure femminili pirandelliane che segnano la vita del maestro. La moglie che lo ha lasciato, ma che riaffiora nei momenti più imprevisti: sembra irrimediabilmente dura perché provata dall’ingiustizia della vita, ma avrà anche un altro volto. E poi la maschera della preside «leopardata», come la chiama lui. Severa, burocratica, vestita come una squincia con giacche da cowgirl e pantaloni volgari. Ma che sotto la maschera nasconde la tenerezza di conoscere l’infelicità dell’amore.

La bambina e il sognatore è un libro nitido come la scrittura che lo tiene insieme,una scrittura senza acrobazie, ma che non ti dà respiro. Ed è un libro torbido come la storia - le storie - che racconta. Sono le storie con cui la realtà ci accoltella ogni giorno. Ma, intanto - come direbbe l’uccellaccio che fa il nido sulla spalla del maestro - «siamo anestetizzati e non proviamo più dolore; che ci vuoi fare? non puoi fare niente; fatti gli affari tuoi e non cercar guai inutili». Ma, per fortuna, dice Dacia, ci sono ancora persone come il maestro sognatore.