lunedì 31 gennaio 2022

Furukawa Hideo / “La realtà ha un cuore magico”



Furukawa Hideo: “La realtà ha un cuore magico” 

SI PUÒ DISEGNARE UN RITRATTO DELLA REALTÀ CON LA TESTA PIENA DI SOGNI. SI PUÒ IMMERGERE LE MANI NELLA FOLLIA DEL MONDO SENZA SMETTERE DI RACCONTARE STORIE, AVVENTUROSI DESTINI, IMMAGINARI PERCORSI CHE VANNO VERSO L’IMPOSSIBILE. SI PUÒ ESSERE, INSOMMA, AL TEMPO STESSO INNAMORATI DELLA LETTERATURA D’INTRATTENIMENTO, MA SCRIVERE ROMANZI CHE SANNO CONQUISTARE LA PALUDATISSIMA GIURIA DEL PREMIO MISHIMA, IL PIÙ IMPORTANTE RICONOSCIMENTO ASSEGNATO AGLI AUTORI DEL GIAPPONE. SÌ, SI PUÒ, E FURUKAWA HIDEO È LA DIMOSTRAZIONE VIVENTE CHE IL SUO VORTICOSO CROSSOVER NARRATIVO TRA POP E TEMI “ALTI” FUNZIONA ALLA GRANDE.

Figlio di contadini, arrivato alla narrativa dopo una lunga gavetta da autore di teatro, Furukawa Hideo ha conquistato prima fama e popolarità in Giappone. Poi, con due romanzi sorprendenti, è riuscito ad attirare anche l’attenzione dei lettori italiani. Tanto che il Festival Incroci di civiltà lo ha voluto conoscere più da vicino, invitandolo a Venezia nell’ambito della rassegna organizzata dall’Università Ca’ Foscari.

Cinque anni fa, Sellerio ha pubblicato “Belka”, originalissimo romanzo di Furukawa Hideo, tradotto da Gianluca Coci (pagg. 442, euro 16), in cui lo scrittore di Kōriyama racconta un frammento molto particolare della Seconda guerra mondiale. Ovvero il destino di alcuni cani soldato, e il loro inserimento in un mondo devastato dal conflitto dopo la sua fine. Quest’anno, invece, sempre Sellerio ha proposto lo straordinario “Tokyo Soundtrack” (pagg.  761, euro 18), sempre nell’ottima traduzione di Coci, costruito attorno alla storia di due bambini, Touta e Hitsujiko, sopravvissuti a vicende familiari dolorose su un’isola dimenticata che, piano piano, vengono reinseriti nel contesto sociale. Ma, incapaci di trovare un loro centro di gravità permanente, faranno di tutto per inventarsi una strada alternativa. In un mondo che assomiglia molto al nostro, dove non c’è più posto per gli immigrati, per chi non ha soldi e successo.

Ma il fascino più grande dei romanzi di Furukawa Hideo sta proprio nella sua capacità di analizzare attentamente la realtà ammantandola di un’atmosfera onirica. Creando visioni, suggestioni, intuizioni, che sembrano presi di peso dalla letteratura fantastica. E che, in realtà, funzionano benissimo nel loro ruolo di immaginifico mascheramento di raggelanti situazioni quotidiane. Come l’autobus fantasma, che preleva ogni giorno una schiera di figure impalpabili, uscite forse da una dimensione parallela. Ma che, a uno sguardo più attento, si rivelerà abitato soltanto da poveri immigrati sfruttati dalla catena di montaggio del lavoro.

“Mi piacciono i personaggi laterali, perché credo che loro in qualche modo vogliono cambiare la società – spiega Furukawa Hideo, che non si separa mai dal suo cappellino -. Stando al centro delle cose è difficile vedere quello che non funziona, più facile avere una visione lucida stando ai margini”.

Una società inquietante, che se la prende con chi è diverso, più debole?

“In tutto il mondo, e non solo in Europa, la nostra convivenza sociale sta peggiorando soprattutto a causa della situazione economica. Quando la società, e soprattutto l’economia, sono stabili non ci sono grossi problemi a stare insieme. Al contrario, quando iniziano le difficoltà, chi sta al centro del nostro sistema e si trova a esercitare il controllo, il potere, tende a scaricare questa instabilità sulle persone che, al contrario, si trovano ai margini. Quindi, si viene a creare una situazione di estrema fragilità, precarietà, i cui danni maggiori si riversano su chi è più debole. L’arrivo, poi, di migranti dall’esterno, quindi da aree geografiche ancora più povere e instabili, porta ulteriori frizioni all’interno del tessuto sociale. Anche se io credo che questo flusso di persone sia necessario perché porta cambiamenti”.

È una guerra tra poveri?

“Logico che le grandi potenze mondiali come l’America e la Cina, ma anche il Giappone, tendano a chiudersi davanti alla pressione dei popoli che stanno ai margini. Sbagliano, perché non creano quel corridoio di comunicazione con le periferie, con chi è lontano dal centro del potere e dell’economia. È quello che cerco di dire in ‘Tokyo Soundtrack’, raccontando le tensioni sempre più forti che si vanno creando nelle nostre città”.

Un quadro impietoso del nostro mondo che lei racconta con una sorta di realismo magico?

“Sono stato influenzato dal realismo magico. In modo particolare dalla letteratura latino-americana, che possiamo dire abbia inventato il genere. Ovviamente, faccio apposta a ricreare quel modo di raccontare, per far capire al mio lettore quali sono le mie influenze letterarie. Però, a ben guardare, io sono uno scrittore che si limita a osservare e descrivere la realtà. Faccio un esempio: fino a vent’anni fa l’idea di comunicare attraverso gli smartphone era una storia da romanzo fantascientifico. Così io descrivendo alcune cose reali creo delle atmosfere misteriose, strane. Ma, in realtà, drammaticamente attuali”.

L’arrivo di Touta a Tokyo ricorda l’inizio di “America” di Franz Kafka, l’autobus fantasma assomiglia a certe visioni di Dino Buzzati e Federico Fellini. Sono citazioni volute?

“Senza dubbio ci sono scrittori che hanno avuto intuizioni letterarie, artistiche, fondamentali. L’inizio di ‘America’ di Kafka, come certe idee di Buzzati e Fellini, sono ormai dei prototipi. Fanno parte dell’immaginario di tutti. Normale che noi scrittori, che arriviamo dopo di loro, finiamo per essere influenzati da questi punti di riferimento importantissimi. In Giappone, poi, la cultura europea ha lasciato un segno forte anche sugli autori più pop”.

Quanto è stato influenzato dai manga, dagli anime, dalla cultura pop del Giappone?

“Senz’altro, il personaggio che mi ha influenzato di più è stato Osamu Tezuka, quello che in Giappone è stato definito il Dio dei manga. Non ha suggestionato solo altri disegnatori e artisti, ma anche lo scrittore giapponese più popolare nel mondo: Murakami Takashi. Credo che senza il lavoro di Osamu non avremmo avuto un grandissimo regista di cartoni animati come Miyazaki Hayao. Lo amo moltissimo, adoro i suoi film, anche se non posso dire che abbia lasciato il segno sui miei libri”.

Le storie disegnate hanno un grande seguito in Giappone?

“Grandissimo, ci sono persone che leggono praticamente soltanto manga. A me, invece, questa forma di espressione artistica mi interessa solo in parte. Perché credo che uno scrittore deve saper mescolare generi diversi, stili che a volte possono sembrare in contraddizione, e non fermarsi a un solo linguaggio”.

Quanto conta la musica nel suo lavoro?

“Moltissimo. Sono influenzato dai musicisti pop giapponesi più nuovi. Mi piace molto il loro coraggio di allontanarsi dalle influenze che arrivano da fuori, per rielaborare qualcosa di originale. Ci sono ottimi gruppi che lavorano soprattutto su un crossover, una contaminazione di generi che assomiglia molto a quello che sto facendo nei miei libri”.

Scrittori si nasce o si diventa?

“Sono nato in una famiglia di agricoltori. Nella mia casa non c’erano libri, i miei genitori non leggevano. Quando sono andato a scuola, alle elementari e alle medie, ho scoperto l’esistenza della letteratura. Ho iniziato da solo a interessarmi al lavoro degli scrittori. Mi sembrava un’attività talmente lontana e difficile che non avrei mai osato immaginarmi un giorno autore di romanzi”.

E poi?

“Piano piano ho sentito crescere in me il desiderio di scrivere. A 16 anni ho provato con il teatro, mettevo assieme copioni per il palcoscenico abbastanza semplici. Sono andato avanti così fino ai 25 anni. A un certo punto, ho cominciato a capire che mi serviva qualcosa di più, che volevo tentare la via del romanzo. Ho impiegato sei anni per trovare l’ispirazione giusta. Il primo libro l’ho pubblicato 31 anni”.

Agli editori piacevano le sue storie?

“Il primo editore a cui ho fatto leggere il mio romanzo ha espresso subito un grande apprezzamento per il mio stile, per la trama. Però tutti mi dicevano la stessa cosa: i tuoi romanzi sono molto originali, ma stanno a metà strada tra la letteratura pura e quella d’intrattenimento. Mi consigliavano di scegliere una via precisa, altrimenti non sarei riuscito ad andare avanti”.

E lei?

“Ho chiesto che mi spiegassero la differenza. E l’editore mi ha detto che la letteratura pura gode di un grande prestigio, ma l’altra fa vendere più copie. Così ho scelto la letteratura d’intrattenimento. Al mio quarto romanzo ho vinto due premio importanti: uno per la fantascienza, l’altro per il mystery”.

A un certo punto, però, la letteratura pura si è inchinata a lei?

“Ho dovuto aspettare altri cinque anni. Poi è arrivato il Premio Mishima, che vale la consacrazione per uno scrittore giapponese. A quel punto potevo considerarmi un autore di letteratura pura e d’intrattenimento insieme. E ho tirato dritto per la mia strada, mescolando quei due mondi così lontani, soltanto in apparenza”.

<Alessandro Mezzena Lona

ARCANESTORI



sabato 29 gennaio 2022

Scott Fitzgerald, l’autore di The Great Gatsby, dell’età del jazz e delle feste infinite

 


Lo scrittore Scott Fitzgerald nell'illustrazione di Pia Taccone



Scott Fitzgerald, l’autore di The Great Gatsby, dell’età del jazz e delle feste infinite

Colui che ha scritto il miglior romanzo su New York raccontando il sogno americano con le sue mille possibilità, le contraddizioni e la sua tragica fragilità 

Gotham's Writersdi Michele Crescenzo

28 Dic 2021

3 aprile 1920. St. Patrick’s Cathedral, mezzogiorno. Zelda e F. Scott Fitzgerald sono davanti al prete. Lei indossa un abito blu scuro e in mano stringe un mazzo di orchidee. Scott è inquieto. Ha fretta. Clothilde, la terza sorella di Zelda, e suo marito sono in ritardo ma lui, prima che qualcuno se ne rendesse conto, invita il prete a iniziare la cerimonia. Si volta e lancia uno sguardo veloce ai pochi invitati per poi rivolgerlo a Zelda che tra poco diventerà sua moglie. Gli sembra impossibile. Solo un anno e mezzo fa era salito sul davanzale di una finestra dello Yale Club e aveva urlato che stava per saltare giù. Era depresso: viveva senza un soldo in una camera nel West Side di Manhattan, detestava fare il pubblicitario (non aveva trovato lavoro nei giornali), nessuno voleva i suoi racconti e Zelda (come in precedenza anche la sua ex, Ginevra King) aveva interrotto il fidanzamento. Ora invece l’aveva accanto sull’altare e This Side of Paradise (pubblicato da poco) è già un successo.

Per scrivere quel libro era stato costretto a lasciare la grande mela e tornare a St. Paul, dove ci lavorò giorno e notte astenendosi dall’alcol e dalle feste. This Side of Paradise (Di qua dal paradiso Minimum Fax, traduzione di Veronica Raimo) è un resoconto autobiografico dei suoi anni a Princeton e delle sue storie d’amore con Ginevra e Zelda. Il protagonista, Amory Blaine, cerca di ottenere il successo sociale leggendo poesie, discutendo di politica, di religione e di storia. Si innamora diverse volte, e diverse volte ne rimane deluso. Allo scoppio della Prima guerra mondiale viene inviato al fronte e quando ritorna a Princeton si rende conto che la sua giovinezza è terminata con la perdita delle illusioni e con tutti i suoi sogni infranti.

La cerimonia finisce, Zelda lo guarda e sorride. Escono dalla Cattedrale di San Patrizio, da marito e moglie così ebbe inizio, secondo Fernanda Pivano  in La balena bianca e altri miti “la grande leggenda della bellissima coppia, eroina, simbolo e interprete di tutte le prodezze sofisticate dell’età del jazz”.

Scott e Zelda diventano in poco tempo delle celebrità a New York, sia per il successo riscosso dal romanzo che per il loro comportamento anticonformista che scandalizza gli anziani ed esalta i giovani. La loro esistenza è scandita dall’alcol, dai debiti e da una vita tanto folle quanto irresponsabile, tanto che i due vengono descritti dai giornali di New York come gli enfants terribles dell’età del jazz.  This Side of Paradise vende circa 40.000 copie nel primo anno, diventando presto un fenomeno culturale negli Stati Uniti. Le riviste ora accettano i suoi racconti precedentemente rifiutati e il Saturday Evening Post pubblica la sua storia “Bernice Bobs Her Hair” con il suo nome sulla copertina del maggio 1920.

Mentre Scott lavora al suo secondo romanzo Zelda rimane incinta. La bambina viene alla luce nella casa di Scott a Saint Paul, il 26 ottobre 1921 con il nome di Frances, affettuosamente chiamata dai genitori “Scottie”. Un anno dopo, il 4 marzo 1922 viene pubblicato il secondo romanzo dello scrittore, The Beautiful and Damned (Belli e dannati minimum fax, traduzione di Francesco Pacifico) che era uscito a puntate sul Metropolitan Magazine e che affronta il tema della dissoluzione morale e psicologica di una giovane coppia negli Stati Uniti d’America degli anni venti. Il 22 settembre dello stesso anno viene pubblicata una raccolta di racconti dal titolo Tales of the Jazz Age (Racconti dell’età del Jazz, minimum fax, traduzione di Giuseppe Culicchia) che comprendono – per i molti –  i migliori racconti della produzione fitzgeraldiana, tra i quali Il curioso caso di Benjamin Button (da cui è stato tratto l’omonimo film con Cate Blanchett e Brad Pitt), Il diamante grosso come l’Hotel Ritz e Primo Maggio.

Nell’ottobre del 1922 i Fitzgerald affittano una casa a Long Island, una località alla moda, che ispirerà allo scrittore l’ambiente sociale del romanzo The Great Gatsby (Il Grande Gatsby Feltrinelli, traduzione di Franca Cavagnoli).

Tutto quello che lo scrittore ha guadagnato con il successo dei precedenti romanzi viene sperperato in feste, tanto da costringergli a chiedere continui anticipi agli editori e a scrivere a ritmo serrato racconti che vende alle riviste più popolari. Nel 1924, illudendosi di diminuire le spese, la coppia si trasferisce in Francia. Durante il soggiorno estivo a Ville Marie, Scott riprende a scrivere il romanzo The Great Gatsby, ma il lavoro però viene interrotto a causa di una fortissima crisi coniugale: Zelda si infatua di un aviatore della marina francese, Edouard Jozan e trascorre i pomeriggi a nuotare in spiaggia e le serate a ballare al casinò con lui. Dopo sei settimane, chiede addirittura il divorzio. Scott cerca di affrontare Jozan e rinchiude Zelda in casa. Prima che potesse verificarsi qualsiasi scontro, Jozan lascia la Riviera e i Fitzgerald non lo videro mai più. Poco dopo, Zelda va in overdose di sonniferi. Jozan in seguito ha affermato che non si era verificata alcuna infedeltà o romanticismo: “Entrambi avevano bisogno di drammi, se lo sono inventato e forse sono stati vittime della loro immaginazione instabile e malsana”.

In seguito a questo incidente, i Fitzgerald si trasferiscono a Roma, dove Scott apporta le ultime revisioni al manoscritto di Gatsby e, nel febbraio 1925, presenta la versione finale. La trama segue l’ascesa sociale di un uomo che cerca la ricchezza per conquistare la donna che ama. Scott ha attinto molto dalle sue esperienze con il suo primo amore Ginevra King. “L’intera idea di Gatsby”, ha raccontato, “è l’ingiustizia di un povero giovane che non può sposare una ragazza benestante. Questo tema si ripresenta continuamente perché l’ho vissuto”. In questo romanzo, come scrive il biografo Andrew Le Vot “Fitzgerald riflette, meglio che in tutti i suoi scritti autobiografici, il cuore dei problemi che lui e la sua generazione dovettero affrontare: il senso del peccato e della caduta”.

Alla sua uscita il 10 aprile 1925, il romanzo riceve recensioni generalmente favorevoli da parte dei critici letterari contemporanei. Nonostante questa accoglienza, The Great Gatsby è un fallimento commerciale rispetto ai suoi precedenti sforzi. Alla fine dell’anno, il libro ha venduto meno di 23.000 copie. Ci sarebbero voluti decenni prima che il romanzo guadagnasse il plauso e la popolarità attuali.

Dopo l’Italia, i Fitzgerald tornano in Francia, dove stringono amicizia con una comunità di americani espatriati a Parigi che sarebbero stati successivamente identificati con la Lost Generation, tra di loro c’è la scrittrice Gertrude Stein, la libraia Sylvia Beach, il romanziere James Joyce ed Ernest Hemingway (ancora sconosciuto) che stima tantissimo Scott (dichiarò che “il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla”) ma disprezza Zelda e la descrive come “pazza” in A Moveable Feast.

F. Scott Fitzgerald nel 1921 (wikimedia.org)

I Fitzgerald trascorrono anni tra gli Stati Uniti e l’Europa che mettono a dura prova il loro matrimonio. Durante un viaggio in automobile lungo le strade montuose della Grande Corniche, Zelda afferra il volante dell’auto e tenta di uccidere sé stessa, Scott e la loro figlia di nove anni. A seguito di questo tentato omicidio, nel giugno 1930, i medici diagnosticano a Zelda la schizofrenia ed è costretta ad entrare in curata in varie cliniche. Durante questo periodo, Fitzgerald lavora al suo prossimo romanzo, Tender is the night (Tenera è la notte minimum fax, traduzione di Vincenzo Latronico) che attinge molto alle sue recenti esperienze. La storia riguarda, infatti, un giovane americano promettente di nome Dick Diver che sposa una giovane donna malata di mente.

Il romanzo di Fitzgerald viene pubblicato nell’aprile 1934 e riceve recensioni negative. Il romanzo vende poco anche perché durante la Grande Depressione, le opere di Fitzgerald sono considerate elitarie e materialiste. Nel 1933, il giornalista Matthew Josephson per VQR critica le opere di Fitzgerald sottolineando che “molti americani non potevano più permettersi di bere champagne quando volevano o di andare in vacanza a Montparnasse a Parigi”. Come ha ricordato lo scrittore Budd Schulberg nel saggio F. Scott Fitzgerald: The Man and His Work “la mia generazione pensava a F. Scott Fitzgerald come a un’era, piuttosto che a uno scrittore, e quando la crisi economica del 1929 ha cominciato a trasformare gli sceicchi e le modelle in gente disoccupata o sottopagata, noi consapevolmente e un po’ belligerante gli abbiamo voltato le spalle”.

F. Scott Fitzgerald. Photo: Flickr

Con la diminuzione della sua popolarità, Fitzgerald inizia a soffrire finanziariamente. Il costo del suo stile di vita opulento e le spese mediche di Zelda lo mettono in ginocchio e lui si rifugia nell’alcool (dal 1933 al 1937 viene ricoverato otto volte per alcolismo). Il suo amico HL Mencken scrive in un diario del giugno 1934 che “F. Scott Fitzgerald è diventato angosciante. Sta bevendo in modo selvaggio ed è diventato una seccatura. Sua moglie, Zelda, che è pazza da anni, è ormai rinchiusa allo Sheppard-Pratt Hospital».

Nel settembre 1936, il giornalista Michel Mok del New York Post scrive un articolo sull’alcolismo e il fallimento della carriera di Fitzgerald che danneggia così tanto la reputazione di Scott che lo spinge a tentare il suicidio. Nel 1937 accetta un buon lavoro a Hollywood e spende la maggior parte del suo reddito per il trattamento psichiatrico di Zelda per le spese scolastiche di sua figlia Scottie. Allontanandosi dalla moglie, Scott Fitzgerald tenta di ricongiungersi con il suo primo amore Ginevra King. In una lettera pubblicata in Some Sort of Epic Grandeur: The Life of F. Scott Fitzgerald  dichiara alla figlia che “Ginevra è stata la prima ragazza che abbia mai amato e che ha fedelmente evitato di vederla fino a questo momento per mantenere l’illusione perfetta”. Ma l’incontro si rivela un disastro, perché Scott, troppo teso, arriva all’appuntamento ubriaco.

Mesi dopo, inizia una relazione con l’editorialista Sheilah Graham, sua ultima compagna prima della sua morte. Poiché lei non aveva letto nessuno dei suoi romanzi, Scott tenta di comprarne qualcuno ma dopo aver visitato diverse librerie, si rende conto che avevano smesso di venderli. Dalla consapevolezza di essere dimenticato, nasce un nuovo Scott Fitzgerald, disincantato e sfiduciato. Non smette però di scrivere, continua a pubblicare racconti per l’Esquire (tra cui qualcuno ambientato a Hollywood) e inizia The Last Tycoon (L’amore dell’ultimo milionario, edizioni Alet Edizioni, traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini) che vede nel produttore Monroe Stahr un Gatsby più maturo, ma altrettanto idealista. Il romanzo, rimasto incompiuto, uscirà postumo. Fitzgerald raggiunge la sobrietà più di un anno prima della sua morte e Graham descrive il loro ultimo periodo insieme come uno dei momenti più felici della loro relazione. Purtroppo, il 21 dicembre del 1940 muore di arteriosclerosi coronarica occlusiva, all’età di soli 44 anni.

Il funerale avviene in modo semplice, tra le poche persone a prendervi parte ci fu la scrittrice e amica Dorothy Parker, la quale proprio davanti alla bara, citando una frase dal Grande Gatsby, esclama: poor son of a bitch. La moglie Zelda sopravvive al marito otto anni e nel 1948 muore in un incendio divampato nella clinica nella Carolina del Nord dov’era internata da tempo con altre nove donne.

Al momento della sua morte, Fitzgerald crede che la sua vita sia un fallimento. I pochi critici che hanno familiarità con il suo lavoro lo considerano un alcolizzato fallito, l’incarnazione della decadenza dell’era jazz. Il suo necrologio sul New York Times lo ricorda come un brillante romanziere, ma indica anche che il suo lavoro è legato a un’era “quando il gin era la bevanda nazionale e il sesso l’ossessione americana”.

Fernanda Pivano in Mostri degli Anni Venti si mostra contraria all’idea comune che voleva Fitzgerald uno scrittore assolutamente disimpegnato. Nei suoi romanzi c’erano personaggi che avevano raggiunto o che avevano fatto di tutto per raggiungere la ricchezza, e che da quella stessa ricchezza o dal loro desiderio erano stati distrutti. La sua non era certo una letteratura di protesta come quella operaia, ma anche in Fitzgerald c’era  un’accusa contro il veleno del denaro: “Il suo Amory Blaine (This Side of Paradise) decaduto dallo stato di raffinato aristocratico a quello di aspirante arrivista per l’ansia di far carriera, il suo Anthony Patch (The Beautiful and Damned) viziato dal possesso e dal miraggio del denaro fino a intentare un processo per impadronirsi di una eredità che lo abbatte non solo psichicamente ma anche fisicamente fino a ridursi su una sedia a rotelle, il suo Jay Gatz-Gatsby (The Great Gatsby) che pur di conquistare la ragazza amata che lo aveva respinto per la sua povertà diventa un gangster e finisce assassinato in una torbida storia nella quale nessuno ha voglia di immischiarsi o fare luce, il suo Dick Diver (Tender is the Night) che da splendida promessa della psichiatria finisce in miseria per essersi lasciato corrompere dal miraggio di una vita facile e ricca, tutti questi personaggi ripropongono un’identica denuncia, che è poi la denuncia espressa da Fitzgerald stesso con la sua vita, di giovane respinto dalla fidanzata per mancanza di soldi con una ferita che non si sarebbe rimarginata mai più, e di marito che per guadagnare quei soldi sprecò, spesso consapevolmente, il suo talento scrivendo racconti da poco.”

Quando nel 1941 Wilson pubblica il The Last Tycoon (scritto seguendo le indicazioni che Scott stesso aveva predisposto) include il Grande Gatsby all’interno dell’edizione, suscitando nuovo interesse e discussione tra i critici.  Durante la seconda guerra mondiale, il Grande Gatsby guadagna ulteriore popolarità quando il Council on Books in Wartime distribuisce copie gratuite dell’edizione ai soldati americani in servizio all’estero. Nel 1945, oltre 123.000 copie del Grande Gatsby sono state distribuite tra le truppe statunitensi. Nel 1960, trentacinque anni dopo la pubblicazione originale del romanzo, il libro vendeva 100.000 copie all’anno. Questo rinnovato interesse ha portato l’editorialista del New York Times Arthur Mizener a proclamare il romanzo un capolavoro della letteratura americana.

Il libro vengono tratte quattro versioni cinematografiche: la versione muta del 1926la versione del 1949 del regista Elliott Nugent, quella del 1974 con la regia di Jack Clayton interpretato da Robert Redford e Mia Farrow e la quarta versione cinematografica del 2013 a firma del regista Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire e Carey Mulligan.

Non esiste scrittore italiano, americano o di qualsiasi altra nazionalità che non si sia confrontato con Scott Fitzgerald, Matteo Mucci su Minima et Moralia  lo ricorda come colui che cercava solo la perla che si nasconde dietro alle apparenze, Nicola Lagioia nell’introduzione al libro postumo Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato lo racconta come un maniaco della perfezione, Paolo Cognetti nel saggio “A pesca nelle acque più profonde”  confessa che scrive davanti ai ritratti di Fitzgerald e di Hemingway, Nicola Manupelli lo descrive come un autore capace di cercate sempre la bellezza, con fatica e passione, Tiziana Lo Porto ha fatto, invece, un lungo lavoro su Zelda ( con Daniele Marotta ha scritto il graphic novel Super Zelda ) e dichiara che anche “lei è responsabile del notevole successo del suo illustre marito scrittore”. Matteo Ferrario definisce l’autore americano come un nostalgico “preventivo” capace di provare nostalgia di un momento nell’attimo in cui lo sta vivendo e ricorda come girando in piedi sul tettuccio di un taxi a New York dopo il successo del suo primo libro si mise a piangere pensando che non sarebbe più stato così felice. “L’inseguimento di una felicità sfuggevole è una concezione eterna, sempre esistita tra gli uomini e i poeti “ racconta Fernanda Pivano in Mostri degli Anni Venti, “e soltanto un poeta poteva percepirla in un momento in cui tutto pareva essere di felicità. Il mondo, l’ambiente, il costume per Fitzgerald valgono soltanto a scoprire e a far vibrare la più antica e latente condizione umana: la paura del tempo”. Il tempo però Scott Fitzgerald è riuscito a fermarlo attraverso i suoi libri che, come racconta Raymond Chandler in una lettera “sono immortali non per una questione di scrittura carina o di stile chiaro. Hanno una specie di magia sommessa, controllata e squisita, il genere di cose che si ottengono dai buoni quartetti d’archi.

LA VOCE DI NEW YORK



mercoledì 26 gennaio 2022

Valeria Luiselli, l’autrice latina che da New York racconta il viaggio e l’immigrazione

 

Valeria Luiselli

Valeria Luiselli, l’autrice latina che da New York racconta il viaggio e l’immigrazione

Nelle mani della scrittrice messicana il romanzo torna a essere nuovo: elettrico, flessibile, seducente e originale

di Michele Crescenzo

25 Ott 2021

Ellis Island Immigration Museum, oggi. Valeria Luiselli sposta una ciocca di capelli neri e sottili dietro l’orecchio sinistro e osserva il World Migration Globe, una sfera di un metro e mezzo al centro del museo alimentata da due proiettori HD che mostra duecentomila anni di migrazione umana, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo.

Il mappamondo gigante ruota e l’autrice individua la Corea del Sud dove ha trascorso la sua infanzia, l’India dove ha studiato e il Sud Africa dove ha vissuto quando il padre ha aperto la prima ambasciata messicana durante l’apartheid. Poi vede il Messico, dove è nata. I proiettori allargano l’immagine di New York e individua il Bronx, dove vive.

Lei è un’immigrata, ma un’immigrata fortunata.

Valeria Luiselli


Lo sa bene perché ha fatto volontariato come traduttrice per bambini migranti nei tribunali statunitensi, aiutandoli con il questionario di richiesta di asilo e recuperando materiale per raccontare agli avvocati la loro storia di fuga dalle violenze dai paesi latini.

La scrittrice messicana ha deciso di aiutare questi bambini quando si rese conto di come il linguaggio usato per descriverli – clandestini, alieni – li abbia così efficacemente disumanizzati. “Perché nessuno li chiama rifugiati, o anche solo bambini?” racconta al The NewYork Time. “È tutto molto opprimente e doloroso” ricorda al The Guardian  “Per un po’ sono stata incapace di tradurlo sulla pagina. Mi sembrava immorale scriverne in un romanzo ma nello stesso tempo mi sentivo frustrata perché non facevo nulla per aiutarli oltre i tribunali. Pensavo di aver smesso di scrivere invece ho creato Tell Me How It Ends (Dimmi come va a finire, trad. di Monica Pareschi, La Nuova Frontiera) un saggio sui problemi che ho incontrato. Poi, una volta fatto, ho sentito la libertà di tornare al romanzo ed è nato Lost Children Archive”

Lost Children Archive (Archivio dei bambini perduti, trad. di Tommaso Pincio, La Nuova Frontiera,) ha vinto il Rathbones Folio Prize 2020,  International Dublin Literary Award e il premio Fernanda Pivano (Qui il linkdella premiazione). È stato, inoltre, selezionato per il Booker Prize 2019 e il Women’s Prize for Fiction 2019.

Il romanzo inizia con un viaggio, ma non di un migrante immaginario bensì di una coppia sposata infelicemente. La narratrice e suo marito erano entrambi genitori single quando si sono incontrati mentre lavoravano a un progetto che catalogava i suoni di New York. Poi, dopo aver lavorato insieme per qualche mese, ci innamorammo – in modo totale, irrazionale, prevedibile e precipitoso, come una roccia potrebbe innamorarsi di un uccello, senza sapere chi era la roccia e chi l’uccello – e quando arrivò l’estate, decidemmo di andare a vivere insieme.

Suo marito pianifica un nuovo progetto, recarsi nella patria degli Apache in Arizona, lei decide di seguirlo. Durante il viaggio registra i suoni al confine e cerca le figlie scomparse di un amico, due giovanissime sorelle guatemalteche che hanno attraversato il confine con il numero di telefono della loro madre a Long Island cucito sui colletti dei loro vestiti. (Sono apparse anche in Tell Me How It Ends)

Lost Children Archive è una rivisitazione del romanzo on the road americano, con una sostanziale differenza: in questa versione non c’è fuga dalla vita domestica ma il viaggio di quattro persone è stato intrapreso proprio per l’opposto, per salvare un matrimonio.

I bambini sono descritti in modo superbo, la figlia di cinque anni della narratrice e il figlio di dieci anni di suo marito appaiono percettivi, reali e meravigliosamente curiosi e intuitivi. “Immagina la prima persona che abbia mai munto una mucca“, si chiede il ragazzo ad alta voce, a nessuno in particolare. “Che persona strana“.

Il romanzo trabocca di ritagli di giornale e istantanee, storie degli Apache e del Kudzu, frammenti della poesia di Anne Carson, Galway Kinnell e Augusto Monterroso e termina con ventiquattro polaroid. Non è un semplice libro ma un archivio di curiosità, aneddoti e riflessioni di una nuova, fragile, fratturata famiglia, animata dall’energia inquieta della narratrice mentre riflette sul un modo per raccontare la storia dei bambini rifugiati e su come il linguaggio può essere usato come mezzo di violenza e ma anche di ammenda.

“Di ​​solito, mentre scrivo un libro, raccolgo molte cose materiali come ritagli di giornale, foto e appunti – racconta l’autrice al Guernica Magazine – ma con Lost Children Archive, il processo di raccolta è andato fuori controllo. Ho sette scatole in cui ho ricreato l’archivio della famiglia nel libro, perché volevo averlo materialmente presente. Ho anche creato l’archivio fotografico per questo: le immagini del romanzo erano foto che ho scattato in viaggio negli Stati Uniti alcuni anni fa. Ma poi ho fatto altri viaggi e ho fotografato ai fini del romanzo. Non stavo usando le foto per illustrare qualcosa: la finzione guidava la documentazione, come una procedura inversa”.

Nella seconda parte del romanzo, Valeria Luiselli ha fatto qualcosa di audace e innovativo: ha cambiato sia la sua messa a fuoco che il suo narratore. I due bambini scappano ed è il più grande che inizia a narrare la storia. Mamma avrebbe cominciato a pensare a noi come pensava a loro, i bambini perduti. Sempre e con tutto il cuore. E papà avrebbe concentrato l’attenzione sulla ricerca dei nostri echi, invece di tutti gli altri echi che stava inseguendo”. In questo modo, Valeria Luiselli mette il dolore e l’angoscia della scomparsa di un figlio in primo piano, incorporando la sofferenza dei genitori dei piccoli immigrati in quella della protagonista.

Lost Children Archive è il primo romanzo di Valeria Luiselli scritto in inglese. Prima ha sempre usato lo spagnolo, nel 2011 ha pubblicato Los ingrávidos (Volti nella folla, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera,) un insieme di saggi in cui esplora i temi del movimento, del viaggio, della transizione che vanno dalla tomba di Joseph Brodsky, alla bicicletta, agli spazi vuoti di Città del Messico. Nel 2012 Papeles Falsos (Carte false, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera) è il racconto frammentato di una giovane donna che, mentre scrive del marito e ai figli, crea traduzioni apocrife di poesie ed estratti da un racconto autobiografico del (vero) poeta messicano Gilberto Owen (1904-1952).

Nel 2013 pubblica La historia de mis dientes (La storia dei miei denti, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera) che racconta la storia di Gustavo “Highway” Sánchez Sánchez, un banditore d’asta che sostiene di vendere i denti di autori e personaggi storici, e usa i soldi per acquistare i presunti denti di Marilyn Monroe per sostituire ai propri.

Poco prima di Lost Children Archive, Valeria Luiselli scrive Tell Me How It Ends, il saggio ricostruisce sia il lavoro dell’autrice al mondo dei tribunali per l’immigrazione (incluse il racconto di molti dei tanti bambini richiedenti asilo) sia il viaggio in auto della sua famiglia attraverso il sud degli Stati Uniti. Come latinoamericani, attirano domande da parte dei poliziotti, uno dei quali osserva ironicamente: Quindi vieni fin qui per l’ispirazione?.  Valeria Luiselli ricorda che dal 2006, circa 120.000 migranti sono scomparsi durante il loro transito attraverso il Messico e che tra aprile 2014 e agosto 2015, più di 102.000 minori non accompagnati sono stati detenuti al confine statunitense.

Valeria Luiselli continua a guardare il mappamondo gigante all’ Ellis Island Immigration Museum. Si domanda a quale parte del mondo appartiene. Vive a New York ma non è americana, né per nascita (è nata in Messico), né per origine (ha lontane origini italiane) né per educazione (ha studiato in India e Messico), né, in misura significativa, nelle sue influenze letterarie e nel suo stile. Potrebbe essere messicana, ma sono più di undici anni che non vive più in quella nazione. Gli viene in mente il prossimo libro, un saggio sulla violenza contro le donne nelle terre di confine: l’idea è quella di registrare molte storie dall’estrazione mineraria al lavoro forzato, alle fabbriche e ai processi di industrializzazione, alla tecnologia di sorveglianza e alla deportazione. Forse la sua unica patria è la scrittura. Come affermò in un’intervista a Repubblica, “Credo nella forza morale della parola scritta. E mi piace indagare in quella zona di confine tra realtà e fantasia, tra disperazione e speranza”.

LA VOCE DI NEW YORK


martedì 25 gennaio 2022

Grace Paley, la scrittrice scintillante e ribelle, la Cechov di New York City

 

Grace Paley

Grace Paley, la scrittrice scintillante e ribelle, la Cechov di New York City

Femminista ed idealista, una delle voci più originali della narrativa americana, ma l’FBI la dichiarò comunista, pericolosa ed emotivamente instabile

1986, West Village, New York. Una sessantenne alta un metro e mezzo con i capelli bianchi e arruffati, scarpe da ginnastica ai piedi e la gomma da masticare in bocca, sta distribuendo volantini contro l’apartheid lungo la Sesta Avenue. Quella donna si chiama Grace Paley ed è un’attivista politica, ma è soprattutto una scrittrice che ha da poco ricevuto dal governatore di New York un’onorificenza inventata apposta per lei: «Scrittore ufficiale dello stato di New York». Grace Paley aveva un rapporto strettissimo con la sua città, non a caso è stata chiamata “la Cechov di New York City”, “The bard of Jewish New York” e “The consummate New York writer”.  Nel 1985, l’editore del New Yorker David Remnick scrisse sul Washington Post: “I suoi racconti sono una sorta di musica da camera di New York in cui gli strumenti sono le voci della città – più specificamente Greenwich Village, più precisamente 11th Street tra la sesta e la settima”.

Grace Paley (wikipedia)

Grace Paley è riuscita a raccontare questa città in modo nuovo, con un linguaggio schietto e ironico, con storie sulla classe operaia talvolta anche senza trama perché piuttosto che l’azione, l’autrice si concentrava sui dialoghi per stabilire il carattere, riproducendo l’ebraico, l’afroamericano, l’irlandese e altri dialetti con sorprendente accuratezza. Michael Wood, critico della New York Review of Books, ha definito le sue storie “un intero piccolo paese di cittadini danneggiati, fragili e infestati”. Il critico americano William Novak la considerava “una scrittrice di scrittori” che “osserva le regole classiche della scrittura: scrive quello che sa, non si sforza troppo, si allontana da ogni accenno di cliché e racconta una storia semplice e onesta”.

È nata nel Bronx nel dicembre 1922, diciassette anni dopo che i suoi genitori erano immigrati a New York e un anno dopo l’invenzione dell’assorbente (come nota nella sua poesia “Song Stanzas of Private Luck” la trovate qui letta proprio da lei). Suo padre, Isaac, era un medico russo che imparava l’inglese leggendo Dickens ed era, come sua madre, Mary, un socialista impegnato.

La scrittura è stata solo occasionalmente l’occupazione principale dell’autrice.  “Lavoravo part-time come dattilografa alla Columbia”. – racconta l’autrice al Paris Review nel 1992 – “ho avuto i miei figli quando avevo circa ventisei, ventisette anni. Li portavo al parco nel pomeriggio. Grazie a Dio ero abbastanza pigra da trascorrere tutto quel tempo a Washington Square Park. Dico pigra ma ovviamente è stato un po’ estenuante correre dietro a due bambini. Se non avessi trascorso però quel tempo nel parco giochi, non avrei scritto molte di quelle storie”.

La copertina di “The Little Disturbances of Man” di Grace Paley

Con la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti The Little Disturbances of Man (1959) Paley iniziò ad attirare l’attenzione della critica. Le vendite iniziali sono state modeste, ma il libro ha attirato buone recensioni, ad esempio il New Yorker ha valutato la scrittura di Paley come “fresca e vigorosa”. Le dieci storie che compongono il volume si concentrano sugli abitanti di un chiassoso quartiere cittadino dove, per usare le parole di Paley, “rimbombano i montacarichi, sbattono le porte, rompono i piatti; ogni finestra è la bocca di una madre che chiede alla strada di tacere: vai a pattinare da qualche altra parte. Vieni a casa”.

Nel 1974 – dopo circa sei anni – Grace Paley pubblicò la sua seconda raccolta di racconti “Enormous Changes at the Last Minute” (Enormi cambiamenti all’ultimo momento, traduzione di Marisa Caramella, La Tartaruga). In questi anni, oltre al ruolo di moglie e madre, l’autrice si è immersa in diverse attività politiche: è entrata nel movimento delle donne, ha distribuito opuscoli contro la guerra, ha marciato sul Campidoglio e ha viaggiato all’estero per protestare contro il coinvolgimento americano in Vietnam. “Penso che avrei potuto fare di più per la pace”, ha detto a People, “se avessi scritto sulla guerra, però mi è capitato di amare troppo protestare per strada”.

Enormous Changes at the Last Minute presenta la stessa ambientazione del primo libro e molti degli stessi personaggi, ad esempio Faith (l’alter ego dell’autrice) riappare con i suoi ragazzi Richard e Tonto. William Novak ha indicato che questa seconda raccolta è “più ampia… più americana e meno campanilistica”, per Burton Bendow è ” ovvio scoprire dove risiede il suo talento” ha detto in The Nation, “è una voce. Sicuramente non una trama che la terrebbe sulla retta via e ostacolerebbe le sue divagazioni, o una situazione o un punto di vista o anche un personaggio, ma una voce con un suono particolare e particolari giochi di parole”.  I racconti sono frammentari, talvolta privi di azione e hanno tutti dei finali aperti. Nel racconto “Una conversazione con mio padre” (presente in questa seconda raccolta) Paley dà la sua risposta definitiva (e bellissima) su chi le critica proprio i suoi racconti senza finali: non lo faccio per ragioni letterarie, ma perché toglie ogni speranza. Ogni persona reale o inventata merita un finale aperto della vita.

La copertina di “Later the Same Day” di GracePaley

Diversi personaggi delle sue prime due raccolte, in particolare Faith, ricompaiono anche nella terza: Later the Same Day, pubblicata nel 1985, dove la sua tecnica venne definita “irregolare” da Vivian Gornick nel Village Voice: “I suoi racconti sono intermittenti, imprevedibili, spesso infelici e senza completezza; non c’è progressione di rivelazione ma creano un’unità emotiva unica”. Le sue storie, drammi intimi in cucina, riguardavano principalmente la vita delle donne: le loro relazioni, i matrimoni, i figli e la riconciliazione con l’inevitabile delusione della fallibilità umana.

Un altro decennio dopo viene pubblicata la raccolta di tutti i racconti “The Collected Stories” (Tutti i racconti, traduzione di I. Zani, Sur, 2018) che ha ricevuto una nomination per il National Book Award. Sebbene tutti i racconti di Paley ammontassero a soli quarantacinque nel 1994, quando Collected Stories è stato pubblicato, l’autrice è stata comunque considerata una delle scrittrici americane fondamentali del ventesimo secolo. George Saunders, nell’introduzione all’edizione italiana, l’ha definita un’autrice capace di “costruire una superficie verbale scintillante che non punta tanto a rappresentare il mondo in maniera lineare, quanto a ricordarci del suo scintillio”. La scrittrice A.M. Homes che l’ha avuta come insegnate, sul The Guardian ha detto di lei che non era una semplice scrittrice di scrittori, o scrittrice di donne, ma più una forza della natura. “Mi ha insegnato non solo come essere un genitore, un cittadino e una scrittrice – mi ha insegnato a vivere”.

L’autrice ha anche pubblicato diversi volumi di poesie dove è stata più apertamente politica rispetto alla narrativa. Nel 2000 viene pubblicato Begin Again che raccoglie il lavoro di tutte le poesie di Paley creando una sorta di autobiografia in poesia, segnando i suoi giorni come attivista per la pace, attivista femminista, i suoi anni di maternità e la sua esperienza di nonna, del vivere a New York City.

La copertina di “Begin Again” di Grace Paley

La gente ha chiesto spesso a Grace Paley perché ha scritto così poco: tre raccolte di racconti e tre libri di poesia in settant’anni. L’autrice ammette al Paris Review di essere pigra e che questo è il suo principale difetto come scrittrice. Di tanto in tanto ammetterà che, sebbene “non sia carino” da parte sua dirlo, crede di poter ottenere tanto in poche storie quanto i suoi colleghi più prolissi fanno in un romanzo. E sottolinea che ha avuto molte altre cose importanti da fare con il suo tempo, come crescere i figli e partecipare alla politica. “L’arte”, spiega, “è troppo lunga e la vita è troppo breve”.

Grace Paley è stata prima di tutto un’attivista femminista antinucleare, contro la guerra, antirazzista che è riuscita, nel suo tempo libero, a diventare una delle voci veramente originali della narrativa americana del secondo Novecento.

Lei si definiva una “pacifista un po’ combattiva e un po’ anarchica” mentre l’F.B.I. l’ha dichiarata comunista, pericolosa ed emotivamente instabile. Il suo fascicolo è stato tenuto aperto per trent’anni. La sua passione politica può sembrare in linea con quei tempi, ma una volta che il flusso degli anni Sessanta è svanito Grace Paley non ha mollato la presa. Negli anni ottanta, si è recata in El Salvador e in Nicaragua per incontrare le madri degli scomparsi, è stata arrestata durante un sit-in in una centrale nucleare del New Hampshire e ha co-fondato il Comitato delle donne ebraiche per porre fine all’occupazione della Cisgiordania e Gaza. Nel maggio 2007, è andata a Burlington per protestare contro il sostegno del loro membro del Congresso all’aumento dell’Iraq. In questa ultima protesta la Paley aveva ottantaquattro anni ed era sottoposta a chemio per cancro al seno. Tre mesi dopo, è morta. “Il mio dissenso è allegria / una disposizione ingrata”, scrisse nella sua raccolta di poesie “Fidelity” (Fedeltà traduzione di L. Brambilla e P. Cognetti, Minimum Fax, 2011) pubblicata l’anno successivo. Quell’incorreggibile allegria fu con lei fino alla fine. Nessuno al mondo è stata più testardamente convinta che il mondo fosse in pericolo mortale e si è divertita così tanto a cercare di salvarlo da sé stesso.

MICHELE CRESCENZO

Michele Crescenzo legge e scrive, appena può. È nato a Napoli nel’77 dove si è laureato in Sociologia. Vive a Milano dal 2002, dove lavora in una multinazionale americana. La sua quotidianità è alternata da numeri e parole. Da lunghissime call conference internazionali alla stesura di articoli letterari. Scrive recensioni per Satisfiction. Gestisce “Ti ho Rivista” tabloid sul mondo delle riviste indipendenti italiane. Organizza eventi culturali alla libreria milanese Gogol&Company. Cura la column “Gotham's Writers” su La Voce di New York. Nel tempo libero scrive: Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Talking Milano, Lettura la newsletter del corriere della sera).

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