mercoledì 30 marzo 2016

Elogio del sonno / Il dormire quale viaggio iniziatico




Elogio del sonno


Il dormire quale viaggio iniziatico

Di Giacomo Maria Prati
20 MAR 2016 

Vi giuro figlie di Gerusalemme, per le capre selvatiche

e i cervi dei campi non rialzate né tenete in veglia la diletta

fino a che lei stessa non lo voglia



(Cantico dei cantici di Salomone, traduzione di Giacomo Maria Prati)

In principio fu il sonno. Sì perché l’evento decisivo della storia umana e della stessa storia della salvezza divina fu la creazione della donna, e Dio la crea addormentando Adamo. Mai sonno fu più fecondo e speciale! Con un Adamo solitario nell’Eden non possiamo dire che fosse iniziata la storia e la stessa divina creatività sarebbe rimasta inespressa, sprecata.

venerdì 18 marzo 2016

The John Coltrane Stereo and Spiritual Blues

John Coltrane, 1963

Interviste

The John Coltrane Stereo and Spiritual Blues

Il giornalista Ashley Kahn, oltre a collaborare con Mojo, Rolling Stone e il NY Times, è curatore, o estensore, di alcuni dei libri più interessanti fra quelli negli ultimi tempi dedicati alla storia del jazz, nonché delle note di copertina dell’ultima edizione di A Love Supreme. John Coltrane – la sua e nostra magnifica ossessione – è l’argomento delle domande che gli abbiamo rivolto.

Come tu stesso hai scritto nel volume A Love Supreme – Storia del capolavoro di John Coltrane (2002), con l’ultimo Coltrane siamo di fronte a registrazioni che «obbligano» ciascuno di noi a «riflettere sulla propria spiritualità». Però ci sono ancora critici secondo i quali – cito Geoff Dyer – questa fase del lavoro dell’artista sarebbe «catastrofica», e priva di qualsiasi vera risonanza spirituale. Qual è il tuo pensiero al riguardo?

lunedì 14 marzo 2016

Bob Dylan / Shadows In The Night





Recensioni

Bob Dylan

Shadows In The Night

dylanBOB DYLAN
Shadows In The Night
Columbia
****
Quando ho letto che Bob Dylan avrebbe pubblicato un disco di canzoni di Frank Sinatra, ho storto il naso. Dylan e Sinatra sono due cose all’opposto, completamente. Dylan ha attraversato il rock, Sinatra non sapeva che cosa era il rock. Due mondi diversi, due stili completamente differenti che difficilmente avrebbero potuto incontrarsi. E per certi versi questo giudizio non si può cambiare, anche se sia Dylan che Sinatra sono due figure fondamentali nell’ambito della musica americana.
Poi ho ascoltato il disco e l’ho trovato piacevole, ben suonato, distante mille miglia dalla musica di Sinatra: Dylan non ha coverizzato Sinatra, lo ha destrutturato, lo ha risuonato, lo ha reinventato. Niente archi né fiati (ci sono in realtà dei fiati in tre canzoni, ma sono usati in modo molto soft, che quasi non si sentono), solo un tappeto di chitarre e la voce del nostro.
Neil Young nel suo recente lavoro Storytone, in almeno due/tre canzoni, usa la big band come faceva Sinatra negli anni cinquanta, quando Nelson Riddle o Billy May dirigevano l’orchestra: Dylan non fa nulla di tutto questo. Niente ritmo, batteria al minimo storico, molta steel guitar, chitarre aperte e la sua voce: non è orribile come mi ha detto la Baez, ma modulata e leggermente roca. Dylan fa il balladeer, non fa il crooner, ed il risultato è un disco intenso, profondo, anche commovente. Un disco che cresce, lentamente, ma cresce.
Dylan lo voleva fare da molto tempo un disco come questo, da quando, sembra, aveva sentito Stardustdi Willie Nelson: aveva voglia di entrare nel grande songbook Americano, di entrare nella musica che, probabilmente, aveva ascoltato da giovane. E, come dice sempre la Baez, Dylan fa quello che vuole, ci mancherebbe, e qui si è divertito a mettere in musica, alla sua maniera, delle canzoni che aveva desiderato fare da tempo. Dylan ha scelto di rifare dieci canzoni, ma sembra ne siano state incise almeno 23 (lo dice Al Schmitt, l’ingegnere del suono che ha curato Shadows in The Night), suonando dal vivo in studio ed incidendole, il più delle volte, in presa diretta. Anzi, sembra abbia mantenuto sul disco l’ordine con cui le ha incise. Una rilettura libera, profonda, densa, dove alcuni classici, ma anche alcuni brani poco noti della discografia di Sinatra, hanno trovato nuova vita in un ambito completamente diverso. Una rilettura coraggiosa dove Dylan usa sopratutto la voce, lasciando dietro di sé una strumentazione parca: poi, in tutto il disco, c’è una sorta di pacatezza, di contenuta energia che non esce mai allo scoperto ma che si allarga a macchia d’olio su ogni canzone.
I’m A Fool To Want You, la più lunga del disco (quasi cinque minuti) inizia lenta, discorsiva, con la steel guitar (Donnie Herron) in gran spolvero. La voce è sorprendente, bella, con la steel che avvolge il brano con un’aura quasi country, mentre le altre chitarre (Charlie Sexton e Stu Kimball) ricamano sul fondo. The Night We Called It A Day inizia lenta, vagamente più legata a Sinatra della precedente, e vede i fiati avvolgere la voce nel finale, ma in modo molto soffice, quasi impalpabile. La canzone, leggermente monocorde, non ha cambi di tempo, lasciando un ritmo languido sino alla fine. La band, oltre a Herron, è formata da Tony Garnier, Charlie Sexton, Stu Kimball e George Receli.
Stay With Me, che Dylan ha già suonato dal vivo (anzi ha chiuso alcuni concerti con questa, sostituendola a Blowin’ In The Wind), è una delle più riuscite del disco. Intro di steel guitar, ballata lenta che Dylan canta bene, convinto e convincente: la canzone, che ha una sua tensione, ha una tenuta esemplare.
Autumn Leaves,una classico assoluto: prima di Frank lo avevano interpretato in molti, e fu un successo mondiale già con il titolo Les Feuilles Mortes (Foglie morte). Brano composto nel 1945 da Joseph Kosma su un testo di Jacques Prevert, è diventato un successo, in prima battuta, grazie a Edith Piaf e Yves Montand. Dylan la disossa e la spersonalizza, sillaba le parole, quasi volesse renderla sua.
Why Try To Change Me Now: intro lento, molto lento, con la voce che diventa protagonista assoluta. Herron sempre in primo piano. Some Enchanted Evening è molto romantica, crea suggestioni ma il problema questa volta sta proprio nella voce di Dylan, che mi sembra meno a suo agio, rispetto ad altre canzoni. In questo caso è pigra, quasi assonnata. Full Moon & Empty Arms è quella che già conosciamo, essendo stata messa on line da diverso tempo. Una steel languida apre le danze, poi la voce del leader la accarezza, ma con qualche ruga in più, mentre la melodia, fluida e morbida al tempo stesso, la fa da padrone. Where Are You? (che è anche il titolo di un album di Frank, Capitol 1957) è sempre molto lenta, ma la voce è un po’ più roca. Non cambia il filo conduttore del disco, andamento lento, pochi strumenti, voce su tutto. What I’ll Do ha una performance vocale migliore, quasi da interprete classico.
Il poeta che fa l’interprete, chi l’avrebbe mai detto? D’altronde, dopo il disco di Natale, gli si può concedere anche questo: solo che in questo caso si è impegnato a fondo, cercando di dare il meglio di sé, ed ha centrato appieno il suo obbiettivo. L’album si chiude con un altro classico: That Lucky Old Sun.Una delle canzoni che hanno segnato la carriera di Sinatra. E non a caso: la melodia di base è tra le più belle del disco e la canzone stessa alla fine è un trionfo per Bob, che canta bene, misurando le sillabe, lasciando andare la sua voce, in modo curato, quasi perfetto, come raramente gli era capitato nel corso della carriera. Un disco atteso in modo spasmodico dai fans e non solo, che farà gridare al miracolo, oppure troverà detrattori su tutta la linea. Noi non siamo certo tra questi ultimi.