sabato 3 dicembre 2022

Pier Paolo Pasolini / Un marxista a New York / Intervista di Oriana Fallaci

Pier Paolo Pasolini


PIER PAOLO PASOLINI: UN MARXISTA A NEW YORK – INTERVISTA DI ORIANA FALLACI

È a New York da dieci giorni, è venuto per il festival cinematografico, vi davano due dei suoi film. Sono proprio cu­riosa di saper se l’America piace a questo marxista con­vinto, a questo cristiano arrabbiato, insomma a Pasolini.

di Oriana Fallaci

March 8, 2017

Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti, sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle au­tomobili. Pullover nocciola, con la tasca di cuoio all’al­tezza del cuore, pantaloni di velluto a coste nocciola, un po’ stretti, scarpe di camoscio con la gomma sotto. Non dimostra davvero i quarantaquattr’anni che ha. Per ritro­varli, quei quarantaquattr’anni, deve andare verso la fine­stra dove la luce si abbatte spietata sul viso e schiaffeggia quegli occhi lucidi, dolorosi, quelle guance scarne, ap­passite, la pelle tesa agli zigomi fino a rivelare il suo te­schio, Per la stanchezza, suppongo. La notte scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, i suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torna che è l’alba: con le palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpre­sa d’essere vivo. Siamo in molti a pensare che se non la smette ce lo troviamo con una pallottola in cuore o con la gola tagliata: ma è pazzo a girare così per New York? È a New York da dieci giorni, è venuto per il festival cinematografico, vi davano due dei suoi film. Sono proprio cu­riosa di saper se l’America piace a questo marxista con­vinto, a questo cristiano arrabbiato, insomma a Pasolini.

Intervista di Oriana Fallaci

Dieci giorni son pochi per dare un giudizio, è ben vero, ma Orson Welles una volta m’ha detto che per capire un paese ci vogliono dieci giorni o dieci anni: all’undicesimo giorno ti abitui e non vedi più nulla. All’undicesimo gior­no, domani, riparte. L’ho pregato per questo di venire da me a bere un drink. «Whisky?» gli chiedo. «Birra? Co­gnac?» «Coca-cola», risponde. La finestra s’apre lungo una strada di grattacieli, uno accanto all’altro, uno dopo l’altro, dall’East River allo Hudson. Ti gira la testa a guar­darli, ti senti in trappola come una bestia che ha sete di verde. O di silenzio. Entra, dal vetro socchiuso, l’inferno: brontolar di motori, squillare di clacson, martellare di perforatrici, sirene. La città ha acceso i termosifoni e la polvere nera ti si attacca perfino alle ciglia, rendendoti cieco. Piove, è una di quelle giornate in cui tutto ti irrita, ti nega entusiasmo. Ma lui beve con gusto la sua Coca-cola e d’un tratto esclama:

«Vorrei aver diciott’anni per vivere tutta una vita quaggiù».

«Quaggiù?! A New York?»

«È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esser venuto qui molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci, Non mi era mai successo conoscendo un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzar­mi, L’Africa è come una droga che prendi per non am­mazzarti, una evasione. New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni. Lo capii appena arrivato. Arrivai da Montreal, con il treno. Scesi a un’enorme sta­zione affogata nel buio, una sotterranea. Non c’eran fac­chini e la mia valigia pesava. Eppure andavo come se fosse leggera. Mi muovevo verso una luce accecante, in fondo al tunnel c’era una luce accecante, e quando fui fuori la città mi aggredì come un’apparizione. Gerusa­lemme che appare agli occhi del Crociato. Non mi senti­vo straniero, imparai subito a girare le strade neanche ci fossi nato: eppure non la riconoscevo. Perché nessuno ha mai rappresentato New York. Non l’ha rappresenta­ta la letteratura: a parte le vignette di Arcibaldo e Petro­nilla, su New York esistono solo le poesie di Ginsberg. Non l’ha rappresentata la pittura: non esistono quadri di New York. Non l’ha rappresentata il cinema perché… Non lo so, Forse non è cinematografabile. Da lontano è come le Dolomiti, troppo fotogenica, troppo meravigliosa, e dà fastidio. Da vicino, da dentro, non si vede: l’obiettivo non riesce a contenere l’inizio e la fine di un grattacielo. Ma non è solo la sua bellezza fisica che con­ta. È la sua gioventù. È una città di giovani, la città meno crepuscolare che abbia mai visto. E quanto sono elegan­ti, i giovani, qui.»

«Eleganti?!»

«Hanno un gusto favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da po­co prezzo, quei colori incredibili. Non si vestono mica, si mettono in maschera: come quando da piccola ti met­tevi la palandrana della nonna. E così mascherati se ne vanno, orgogliosi, coscienti della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua. Ti vien voglia di imitarli e magari li imiti perché dove puoi vestirti così? A Roma? A Milano? A Parigi? Io là ho sempre paura che la gente si volti, mi guardi. Qui non ho alcun com­plesso, posso andarmene vestito come voglio, senza che nessuno si volti e mi guardi. Qui invece nessuno ti turba con la sua curiosità. Ieri sulla Quarantacinquesima ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto: l’ha fissato e poi l’ha scaraventato con una ta­le violenza che il pacchetto s’è rotto. Chissà che c’era dentro. Dopo s’è appoggiato al muro, ha messo la testa sull’avambraccio, è scivolato piano piano per terra ed è rimasto lì a piangere. Anzi a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, neanche per offrirgli un bicchier d’acqua, un aiuto. La sera avanti, poco lontano dal Me­tropolitan, ho visto un vecchio disteso sul marciapiede: coperto da un plaid. Accanto gli stava un ragazzo, bello, elegante come dici tu: scarpe di cuoio perfetto, calzini leggeri, pantaloni ben tagliati, un pullover favoloso. Il vecchio stringeva sul petto la mano del giovane e il suo volto era bianco, già levigato dalla morte. La gente pas­sava e non si fermava, qualcuno rideva. Ma è male que­sto? O non è male il nostro fermarsi a curiosare? Non è detto che il loro silenzio sia mancanza di pietà, forse è una forma superiore di pietà. La pietà di non avvicinar­si, non curiosare…»

L’America è proprio una donna fatale, seduce chiun­que. Non ho ancora conosciuto un comunista che sbar­cando quaggiù non abbia perso la testa. Arrivano colmi di ostilità, preconcetti, magari disprezzo, e subito cadon colpiti dalla Rivelazione, la Grazia. Tutto gli va bene, gli piace: ripartono innamorati, con le lacrime agli occhi. Sì o no, Pasolini? Lui scuote le spalle, sdegnoso.

«Io sono un marxista indipendente, non ho mai chie­sto l’iscrizione al partito, e dell’America sono innamora­to fin da ragazzo. Perché, non lo so bene. La letteratura americana, tanto per fare un esempio, non mi è mai pia­ciuta. Non mi piace Hemingway, né Steinbeck, pochissi­mo Faulkner; da Melville salto ad Alien Ginsberg. L’establishment americano non ha mai potuto conciliarsi, ovvio, con il mio credo marxista. E allora? Il cinema, forse. Tutta la mia gioventù è stata affascinata dai film americani, cioè da un’America violenta, brutale. Ma non è questa America che ho ritrovato: è un’America giovane, disperata, idealista. V’è in loro un gran pragmatismo e allo stesso tempo un tale idealismo. Non sono mai cinici, scettici, come lo siamo noi. Non sono mai qualun­quisti, realisti: vivono sempre nel sogno e devono idealizzare ogni cosa. Anche i ricchi, anche quelli che hanno nelle mani il potere. Il vero momento rivoluzionario di tutta la Terra non è in Cina, non è in Russia: è in Ameri­ca. Mi spiego? Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest, e avverti che la rivoluzione è fallita: il socialismo ha mes­so al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è pa­drone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxi­sta, oggi, possa scoprire. Ho conosciuto i giovani dello Sncc, sai gli studenti che vanno nel sud a organizzare i negri. Fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in loro la stessa assolutezza per cui Cristo diceva al giovane ric­co: “Per venire con me devi abbandonar tutto, chi ama il padre e la madre odia me”. Non sono comunisti né anticomunisti, sono mistici della democrazia: la loro ri­voluzione consiste nel portare la democrazia alle estre­me e quasi folli conseguenze. M’è venuta un’idea, cono­scendoli: ambientare in America il mio film su san Paolo. Voglio trasferire l’intera azione da Roma a New York, situandola ai tempi nostri ma senza cambiar nulla. Mi spiego? Restando fedelissimo alle sue lettere. New York ha molte analogie con l’antica Roma di cui parla san Paolo. La corruzione, le clientele, il problema dei negri, dei drogati. E a tutto questo san Paolo dava una risposta santa, cioè scandalosa, come gli Sncc…»

Alle sette ha un appuntamento con Herbert Blau, il direttore teatrale del Lincoln Center, che lo ha invitato a cena. Non si trovano taxi a quest’ora e così andiamo a piedi. Cade una pioggia sottile, esasperante. Ma lui cam­mina senza sentirla, o apprezzandola forse, e ripete vedi le case di Arcibaldo e Petronilla, in fondo è come tornare fanciulli. Gli è quasi sparita dagli occhi quella tristez­za gonfia di mille amarezze.

«L’aspetto più importante di questa città è la miseria.»

«Miseria?! A New York?!»

«Sì. Lo stesso tipo di miseria, o povertà, che si trova nelle ex colonie divenute indipendenti da poco. Lo stes­so tipo di povertà che trovi a Calcutta, a Bombay, a Ca­sablanca. Mi spiego? Non una miseria economica, la mi­seria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco, psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provviso­rietà. Le strade male asfaltate che quando piove si riempion di gore. I muri neri o marroni, costruiti in fretta per esser buttati giù in fretta. E mai un angolo tirato a lucido, destinato a durare. C’è anche Park Avenue, sia­mo d’accordo, ci sono gli splendidi grattacieli di vetro: ma quelle son le piramidi. Esser qui oggi è come trovar­si in Egitto quando gli schiavi costruivano le piramidi. Sai, non è mica detto che gli schiavi in Egitto vivessero male. Magari erano allegri, nella disperazione, e la sera andavano a spasso, bevevano… Non c’entra. L’aspetto importante resta questa miseria da ex colonia, da sotto­proletariato.»

«Sottoproletariato? A New York?»

«Sicuro. V’è in tutti le stigmate della medesima origi­ne sottoproletaria: a colpo d’occhio non la vedi mica la differenza di classe. Come a Mosca quando cammini pensando che son tutti uguali. Naturalmente la differen­za esiste ma non se ne rendono conto, non ce ne rendia­mo conto. E lo sai perché? Perché non v’è in loro la co­scienza di classe. Per uno che vien dall’Italia lo smarrimento è più fondo che in Africa, in India. Voglio dire che entri a Calcutta, a Karthum, ed entri nel cuore di una razza, di un contesto sociale: la classe operaia, borghese, piccolo-borghese, e ciascuna con la sua co­scienza di esistere. Entri a New York e cosa trovi? Un fuoco d’artificio di razze assimilate e rese analoghe dallo stesso sistema, dal medesimo fondo: il sottoproletariato. Guarda l’operaio americano, questa mescolanza mo­struosa e affascinante di sottoproletariato e di piccola borghesia. Non esiste l’operaio in quanto tale perché non esiste in lui la coscienza della classe operaia. Una voragine. Ma ovunque ti affacci, in America, in un’ani­ma come in una strada come in un ambiente, ti affacci su una voragine. Quasi tu ti sporgessi da un grattacielo. Ciò è bene, ciò è male? Non so, mi sento confuso. In Europa mi sembrerebbe negativo, qui no. Ammiro il momento rivoluzionario americano, ovvio che il mio cuore è per il povero negro o il povero calabrese, e con­temporaneamente provo rispetto per l’establishment, il sistema americano… Devo tornare, devo approfondire.»

Il ristorante dove incontriamo Herbert Blau è famoso per le aragoste alla griglia. Cena? Aragoste? Pasolini esce come un sonnambulo dal dedalo delle sue confu­sioni e ordina un bicchiere di latte, una macedonia di frutta ma senza le arance. È afflitto da un’ulcera, do­vrebbe farsi operare, si nutre come un bebé. Parlando di teatro, progetti, Blau lo fissa un po’ sbalordito: questo rivoluzionario che si nutre come un bebé. Si saluteranno presto, reciprocamente annoiati. Conclusa la cena Blau lo ha accompagnato dentro il Lincoln Center, a vedere le prove di una commedia in costume. Ma a Pasolini non importa nulla delle commedie in costume, dell’ap­parato elettronico che sposta in pochi secondi le scene, gira il palcoscenico, alza la platea: nel suo mondo non c’è posto per simili meraviglie. Come non c’è posto per i grattacieli di vetro, Park Avenue, un razzo che parte, il trapianto chirurgico di un cuore vivo: l’America bella, pulita, comoda che piace a chi spera nel Paradiso. Come Rimbaud (o certi martiri) lui vuol sempre tornare all’in­ferno, ai quartieri dove si rischia un colpo di rivoltella nel cuore, incontri tragici e magari perversi, la punizio­ne, il Greenwich Village come glielo descrisse Elsa Mo­rante, Harlem come l’ha visto ieri sera ed è stata una bellissima sera. Gli presentarono un sindacalista negro, di estrema sinistra, sai quelli che non accettano il siste­ma della non-violenza propagandato da Martin Luther King, e son pronti ad uccidere. Il sindacalista lo portò a casa di un operaio caduto dal quarantaseiesimo al quarantaduesimo piano dove restò appeso miracolosamente ad un filo. L’operaio era un vecchio negro, disteso in un letto e rideva felice, felice, ed era così commovente. D’un tratto mi saluta, impaziente, una stretta leggera di mano, e se ne va tutto solo nel buio.

Oggi parte ed ha molte cose da fare: anzitutto posar per un tale che ha molto insistito e gli pare si chiami Avalon. «Dick Avedon?» «Sì, qualcosa del genere.» «Non sai chi è Dick Avedon?» «No, chi è?» «Forse il più grande fotografo che esista in America, senza dub­bio uno dei più grandi nel mondo.» «Ah, sì?» Avedon lo ha pregato di venire al suo studio verso le undici ma lui è giunto in ritardo perché sulle scale c’era un vagabondo ubriaco dall’alba, e un vagabondo ubriaco dall’alba vale cento fotografie di Avedon.

L’ascoltava con pazienza materna, dolcezza, prima di lasciarlo gli ha dato non so quanti dollari, e certo ora guarda con meno interesse la immensa istantanea che copre una intera parete dello studio Avedon: Charlie Chaplin ritratto come un demonio, gli indici e i mignoli ritti sopra le tempie a mo’ di corna o forconi. «La scattai l’ultimo giorno che passò negli Stati Uniti», spiega Avedon, «poche ore prima che gli partisse la nave diretta in Europa. Venne qui e…» Ma a Pasolini preme più la sto­ria di altre fotografie: questo ragazzo negro, ad esempio, che morì di botte per essere stato aggredito dal Ku Klux Klan. O questo mulatto che al Parlamento fu eletto due volte ma non riuscì mai ad entrarci perché è contro la guerra in Vietnam. O questo Allen Ginsberg che posa nudo, coperto solo della sua barba e i suoi peli, e lo in­duce a una altra dichiarazione d’amore: «Gli intellettua­li americani, capisci. Magari son pieni di contraddizioni; incontri un allievo di Morris che ha dato la laurea sulla poesia del Petrarca, discute di semeiotica e poi incontri due studentesse che ignoran perfino Apollinaire o Rinbaud. Quali sono i poeti che preferisce, ti chiedono. Rimbaud, rispondi, Apollinaire, Machado, Kavafis. Ti guardano cieche. Che Kavafis non lo conoscano, passi. Per Machado è già grave, per Apollinaire è assurdo, per Rimbaud addirittura scandaloso. Però hanno un tale ri­spetto per la cultura! Un rispetto pieno di timore, umiltà: è una gran dote. Considera gli italiani: sono sem­pre padroni del sapere, anche quando sono ignoranti. Non c’è mai un attimo di timidezza, negli italiani, verso il sapere. Un tipo come Umberto Eco, ad esempio. Co­nosce tutto lo scibile e te lo vomita in faccia con l’aria più indifferente: è come se tu ascoltassi un robot. Un americano erudito come Umberto Eco è un uomo umi­le, invece, non si considera mai padrone della sua sa­pienza, è quasi spaventato dalla sua cultura. Ciò è giu­sto, mi piace…». E intanto Avedon scatta foto che suppongo destinate alle frivole lettrici di «Vogue». Che scena, vale quella del Village.

Al Village ci va subito dopo per comprare i pantaloni e i giubbotti che trova così eleganti e che a Roma non in­dosserà mai: ossessionato com’è dal complesso d’esser riconosciuto, criticato, guardato. Lo attrae soprattutto una certa camicia che è la copia esatta di quelle in uso nelle prigioni. Sul taschino sinistro c’è scritto: «Prigione di Stato, galeotto Numero 3678». La sta provando, se­dotto, quando all’angolo della Decima Avenue scorge una dimostrazione in favore della guerra nel Vietnam.

Uomini e donne passano cupi con grandi cartelli dove è scarabocchiato: «Bombardate Hanoi»; qualcuno ha un distintivo che dice: «Ammazzateli tutti, quei rossi». Ed ecco che un’automobile arriva, ne scendono due giova­notti e una ragazza bionda in calzoni. La ragazza ha una chitarra. Si appoggia al cofano dell’automobile, mentre i due giovanotti le si mettono ai lati, e incomincia a suo­nare qualcosa di triste. Poi, insieme, tutti e tre attaccano una canzone di protesta. Continueranno finché gli altri continueranno a sfilare coi loro cartelli: e non una rissa, non un insulto, un gesto di ostilità. Pasolini resta fermo a fissarli, con la sua camicia da galeotto, i suoi occhi so­no umidi, buoni, quando sussurra: «Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo star qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispia­ce partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambi­no di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via».

È l’istantanea di un marxista a New York.

L’Europeo, 13 ottobre 1966

SCRAPSFROMTHELOFT



mercoledì 23 novembre 2022

Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e quell'amore passionale in Casablanca

 

bergman e bogart nel film casablanca
GETTY IMAGES

Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e quell'amore passionale in Casablanca


Storia di una delle storie d'amore fittizie più belle del cinema.


 23/11/2022


Se Casablanca è ancora saldo sul podio dei film più acclamati di tutti i tempi, è con le interpretazioni di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman che nasce una delle coppie più iconiche del cinema. Rispettivamente nei panni del burbero Rick Blaine e dell’eterea Ilsa Lund, il duo Bogart-Bergman viene reclutato in un secondo momento: inizialmente un’indiscrezione dell’Hollywood Reporter attribuisce i ruoli di protagonisti a Ronald Reagan e Ann Sheridan, e se così fosse stato la storia del cinema sarebbe diversa. Se Reagan viene “scartato” perché richiamato alle armi, alla Sheridan - che aveva già recitato con Bogart in Strada Maestra e che nel 1942 aveva all’attivo una cinquantina di film - il registra Michael Curtiz preferisce la più fresca e meno conosciuta Ingrid Bergman. La chimica tra i due buca lo schermo: entrambi hanno una doppia anima, all’apparenza algida ma intimamente vulcanica, e portano in sé un segreto condiviso, il grande amore che hanno vissuto anni prima a Parigi - dove, se no? -, che nessuno di loro è riuscito a scordare, nonostante Rick abbia una girandola di aspiranti fidanzate e Ilsa sia ormai una donna sposata. Sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, dunque, si consuma un’altra duplice guerra: quella tra i protagonisti per ritrovarsi, e quella interiore di ciascuno di loro per dirsi addio un’ultima volta. Tratto da un’opera teatrale mai rappresentata, Everybody comes to Rick’s, la versione cinematografica rafforza i personaggi di Rick e Ilsa rispetto all’opera originale, tanto da divenire più una storia d’amore che di guerra. Questo si deve non solo a una scelta della Warner Bros. che teme i mille cavilli della censura politica, ma, evidentemente, anche al magnetismo di Bogart e Bergman, che in qualche modo plasmano su di sé l’evoluzione della trama. L’ultima parte del film, infatti, è scritta giorno per giorno e si arriva quasi a fine riprese senza avere ancora un finale certo.

bergman e bogart nel film casablanca
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Pare che Bergman infine abbia chiesto allo sceneggiatore Howard Koch: “Quale uomo dovrei amare di più, alla fine? Rick o mio marito?”. E lui, “Non so, cerca di amarli entrambi allo stesso modo”. Ovviamente il suggerimento resta inatteso, perché Ilsa è perdutamente innamorata di Rick e lascerebbe ripartire il marito da solo verso la salvezza. Ma è proprio davanti al pericolo che il cinico Rick-Bogart esprime la qualità del proprio amore, preferendo mettere in salvo Ilsa anche se questo significa perderla - c’è anche un tema morale, ai tempi: né la censura né il pubblico avrebbero simpatizzato per una donna che abbandona il marito per un altro -. La storia d’amore tra Rick e Ilsa, dunque, risulta travolgente pur restando perfettamente candida. La sensualità tra i protagonisti appartiene al loro passato ma allungherà sempre le sue ombre sulle loro vite, ed è forse questa la magia di una storia d’amore che né il tempo né la guerra possono spezzare.

Candidato a otto premi Oscar, ne ottiene tre: miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura. Nonostante la mancata candidatura per Bergman, da questo momento la sua carriera decolla e tra i suoi film successivi troviamo Per chi suona la campana (1943) Io ti salverò (1945), Notorious - L'amante perduta (1946), diretta in tutti e tre da Alfred Hitchcock, e Angoscia (1944), che finalmente le assicura il suo primo Oscar come migliore attrice. Quanto a Humphrey Bogart, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista per Casablanca, deve aspettare il 1952 per vincerlo con La Regina d’Africa di John Huston. E’ forse anche grazie al successo di Casablanca, comunque, che Bogart viene scritturato per Acque del Sud, di Howard Hawks, per il ruolo che era stato offerto a Cary Grant prima che a lui. Fortunatamente alla fine la spunta Bogart, che sul set incontra un’attrice ai primi passi, la splendida Lauren Bacall, e tra i due nascerà una della più belle storie d’amore di Hollywood. Che l’amore fittizio tra Rick e Ilsa gli abbia portato fortuna?

BAZAAR





domenica 20 novembre 2022

Vita e amori di Sibilla Aleramo, donna emblema del femminismo del Novecento italiano

 

Sibilla Aleramo


Vita e amori di Sibilla Aleramo, donna emblema del femminismo del Novecento italiano

Madre, amante, autrice, protagonista: la storia di una donna.


Rina Faccio, meglio nota come Sibilla Aleramo, ebbe una vita turbolenta. Le sue esperienze diventarono presto storia, denuncia, poesia, narrazione. La scrittrice e poetessa italiana, nata nel 1876, è infatti ricordata ancora oggi come una delle primissime penne femministe del Novecento. Il suo primo lascito si trova all'interno sua opera più celebre, Una donna, capolavoro autobiografico in cui la scrittrice incluse molti altri aspetti fondamentali della sua vita, come le imposizioni sociali legate alla figura della donna, le relazioni coniugali costrittive, violente, frustranti e quelle familiari in relazione all'idea della donna-madre, considerata da lei troppo opprimente. Non manca poi il trauma subito in gioventù, la violenza sessuale subita da parte di un dipendente del padre, una vicenda che intrappolò la giovane scrittrice in un matrimonio riparatore.



Già agli inizi del Novecento, la Aleramo diventa uno degli emblemi del femminismo, uno spirito libero che abbandona marito e a malincuore anche il figlio Walter, per seguire la sua passione più grandi: quella della letteratura.

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È l'inizio del XX secolo quando la Aleramo scappa da Milano a Roma per scrivere di racconti, pubblicare articoli, collaborare con giornali femministi, politici, culturali, e partecipare a campagne femministe. In lei vi è forza e determinazione, ma anche dolore e sofferenza, che la conducono anche verso un tentato suicidio. Dopo una soffocante relazione con l'ex marito, Sibilla Aleramo intraprende una storia con il capo redattore di Nuova Antologia, Giovanni Cena, con cui condivide la passione per la letteratura e gli impegni legati al sociale. Quando l'amore con Cena termina, iniziano per lei una serie di legami con diversi intellettuali, tra cui Vincenzo Cardarelli e Salvatore Quasimodo, il folle amore con Dino Campana, tossico, tempestoso, brevissimo ma profondo, finito a causa dell'internamento e della malattia di lui; ci sono anche storie con donne, come quella che ebbe con Lina Poletti, grandissima scrittrice italiana. Ben presto, questi amori diventano protagonisti delle prose e le poesie della Aleramo.


Le influenze che entrano in armonia e si mescolano con la vita della Aleramo sono diverse: incontra artisti del movimento Futurista, stringe un forte rapporto con D'Annunzio e poi sia avvicina alle ideologie politiche, prima del Fascismo, poi a quelle del Partito Comunista. A distanza di oggi, impossibile pensare a lei senza sottolineare quella che fu la sua figura, così eclettica e incisiva, quella di una donna, moglie, madre, amante, autrice e protagonista, che lascia in eredità un patrimonio letterario ancora rivoluzionario e dirompente.

BAZAAR



martedì 1 novembre 2022

Triunfo Arciniegas / La misura dell’inferno






TRIUNFO ARCINIEGAS
NOTICIAS DE LA NIEBLA 9
Versión al italiano de Gabriel Impaglione




La misura dell’inferno
Pare che siano in cielo. Mi circondano, gli angeli. Voglio dire, assillato da una lussuria che nessuno condivide, perseguito gli angeli belli, dalle lunghe gambe, ventri tersi e i seni all’aria. Ridono di me quando spiego loro le mie intenzioni.

El tamaño del infierno
Al parecer, estoy en el cielo. Me rodean los ángeles. Quiero decir, acosado por una lujuria que nadie comparte, persigo a los ángeles, bellos, de largas piernas, vientre terso y senos al aire. Se ríen de mí cuando les explico mis intenciones.


venerdì 28 ottobre 2022

Durante la Guerra Fredda, gli intellettuali latinoamericani hanno trovato rifugio nella Praga comunista

 

Lo scrittore brasiliano Jorge Amado, suo figlio (il quarto a partire da sinistra) e il giornalista e drammaturgo ceco Jan Drda (il primo a partire da sinistra), a Dobříš, in un castello della Repubblica Ceca utilizzato come residenza per scrittori cechi e internazionali, in 1950. Foto tratta dall'archivio di Paloma Amado, usata dietro autorizzazione.

Durante la Guerra Fredda, gli intellettuali latinoamericani hanno trovato rifugio nella Praga comunista

Prima della COVID-19, Praga veniva visitata ogni anno da milioni di turisti in cerca di birra a basso costo e architettura mozzafiato [en]. Però, negli anni 50, la capitale dell'allora Cecoslovacchia attraeva una platea di viaggiatori molto diversa: gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo, curiosi di vedere com'era la vita sotto il regime socialista.

Molti di quei turisti politici arrivavano dall'America Latina, includendo giganti letterari come Jorge Amado [it, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] e Gabriel García Márquez. Questo passato condiviso, dimenticato da tempo, sta tornando lentamente ad essere riscoperto e rivalutato in Repubblica Ceca. 

Mentre si svolgeva la Guerra Fredda, sia l'Occidente che l'Unione Sovietica erano impegnati in intense attività propagandistiche per dimostrare la superiorità dei propri sistemi politici e socio-economici, solitamente rivolgendosi a destinatari in Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina. Ed entrambe le parti ritenevano l'arte un mezzo efficace per trasmettere il messaggio.

Nell'URSS, la Società di tutte le Unioni per le Relazioni Culturali con i Paesi Esteri, oppure VOKS [en], che sta per la sua abbreviazione in russo, aveva la missione di invitare pubblici intellettuali e scrittori da tutto il mondo non solo in Unione Sovietica, ma anche in altri paesi socialisti, riguardo ai quali questi venivano incoraggiati a scrivere

La Cecoslovacchia, una nazione che si è unita al Blocco Orientale nel 1948 dopo che il suo Partito Comunista aveva orchestrato un colpo di stato, rappresentava una delle possibili destinazioni. Oltre a Jorge Amado e Gabriel García Márquez, il paese accolse scrittori da Argentina (Raúl González Tuñón), Brasile (Graciliano Ramos), Cile (Ricardo Latcham, Pablo Neruda), Cuba (Nicolás Guillén) e Messico (Efraín Huerta, Luis Suárez). Alcuni viaggiavano soli, altri facevano parte di delegazioni più numerose.

Dunque Praga diventò in quei tempi un polo culturale di sinistra, radunando sia gli scrittori progressisti  nascenti che quelli affermati, come il turco Nazım Hikmet e il sovietico Ilya Ehrenburg.

Pablo Neruda, in effetti, potrebbe aver tratto il suo nome d'arte dallo scrittore, poeta e giornalista ceco del XIX secolo Jan Neruda (il poeta cileno era nato come Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto). Lui non lo ammise mai, ma le foto che lo ritraggono mentre passeggia per via Neruda a Praga, o in posa davanti a ristoranti e pub con il nome “Neruda”, offrono terreno fertile per la speculazione.

Michal Zourek, foto usata dietro autorizzazione.

Global Voices ha parlato con Michal Zourek, un accademico ceco che si è concentrato sullo studio dei legami tra il Blocco Orientale e l'America Latina. Zourek, autore del libro pubblicato nel 2018 “Československo očima latinskoamerických intelektuálů 1947-1959” (“La Cecoslovacchia attraverso gli occhi degli intellettuali latino-americani dal 1947 to 1959″, che è stato pubblicato anche in spagnolo), spiega cos'ha motivato questi intellettuali ad accettare un invito del genere [cs]: 


 In America Latina c'erano svariati di regimi autoritari che reprimevano in massa i diritti umani, sostenendo che c'era bisogno di eliminare le forze sovversive di sinistra. Questo è il motivo per cui gli artisti latino-americani a favore dell'ideologia comunista ricevevano sostegno materiale e morale dall'Europa dell'est. Per quanto riguarda le testimonianze dei loro viaggi, i testi scritti negli anni '40 e '50 sono generalmente ricchi di entusiasmo. È evidente che certi aspetti [delle società socialiste] hanno fatto una buona impressione a quegli intellettuali provenienti da paesi in via di sviluppo, in particolare lo stato della scena culturale nell'Est Europa. Ci sono molte menzioni riguardo all'alta qualità di opere teatrali, scuole, infrastrutture e biblioteche comunali, e riguardo all'alto livello di educazione della popolazione.

Zourek prosegue spiegando come Praga e Mosca rappresentassero un luogo sicuro per far sì che quegli intellettuali potessero mettersi in contatto tra loro e incontrarsi. “Non era raro che famosi intellettuali provenienti dall'America Latina si incontrassero per la prima volta nell'Est Europa” afferma Zourek. “Nei loro paesi d'origine questo non era possibile, perché i governi autoritari e anti-comunisti del posto semplicemente non lo permettevano”.

L'Europa dell'Est, sostiene Zourek, ha giocato un ruolo fondamentale nella letteratura latino-americana — se non fosse stato per il movimento internazionale comunista, probabilmente la mitica generazione di scrittori degli anni '60 non sarebbe stata così influente, tantomeno in Occidente. “Fu pubblicato un numero elevatissimo di copie delle opere degli autori in questione [in ceco, polacco o russo], numero molto più alto rispetto alle copie pubblicate nella loro lingua madre. Tutto questo accadde dietro la Cortina di Ferro”, ha affermato.

Busto di Pablo Neruda nel centro di Praga. Foto di Kenyh tratta da Wikipedia, utilizzato dietro licenza CC BY-SA  3.0.

Una terra promessa?

Quando visitavano Praga o altri luoghi in Cecoslovacchia, gli intellettuali di sinistra, che erano soprattutto uomini, venivano trattati come dei VIP: risiedevano in hotel di lusso, non sostenevano alcuna spesa e avevano libero accesso a guide bilingue, ricevevano remunerazioni per i loro scritti e infine facevano tradurre le loro opere in ceco e slovacco.

Coloro ai quali venivano messe a disposizione delle residenze per scrivere alloggiavano per lunghi periodi di tempo, in particolare, nel castello di Dobříš [cs], sede dell'unione degli scrittori cecoslovacchi dagli anni '40 agli anni '90. Alcuni sono rimasti nel castello anche più a lungo, in quanto avevano ottenuto asilo politico.

Come ci spiega Zourek [cs]:


Questi scrittori si facevano pagare le spese di viaggio e durante il loro itinerario, studiato nei minimi dettagli, veniva offerto loro di vedere soltanto gli aspetti più ideali della vita locale. In cambio, gli ospiti stranieri avrebbero diffuso le loro impressioni positive tramite diari di viaggio, articoli e convegni. Questo fenomeno del “turismo politico” è stato l'elemento chiave della propaganda Sovietica, una strategia ben pianificata, che iniziò subito dopo la rivoluzione russa del 1917. Un ruolo di primo piano fu assegnato agli intellettuali che l'Unione Sovietica voleva avere al proprio fianco, per poterli usare in seguito nello scontro ideologico con l'Occidente.

Jorge Amado (a sinistra) e Nicolás Guillén (a destra) sulla strada per la Cina in una stazione ferroviaria dell'URSS, gennaio 1952. Foto dall'archivio di Paloma Amado, usata dietro autorizzazione.

Un'eccezione interessante in questa visione e descrizione idealizzata è Gabriel García Márquez, Il premio Nobel Colombiano laureato in letteratura che visitò la Germania dell'Est, La Cecoslovacchia, la Polonia, l'Ungheria e l'URSS nel 1955 e nel 1957. Fece questo viaggio in parte da solo e, quando veniva invitato ufficialmente, trovava modi per aggirare il programma ufficiale, in modo tale da poter raccogliere informazioni per conto proprio. Nel suo libro, “De viaje por Europa del Este” [en] (“Viaggio attraverso l'Europa dell'Est”), Márquez fornisce una descrizione ch presenta molte più sfumature. Il primo capitolo del libro descrive la Germania dell'Est con termini poco lusinghieri, come nella scena in cui Márquez entra in un ristorante per fare colazione: “quello che le persone mangiavano a colazione era l'equivalente di un pasto intero nel resto dell'Europa [Occidentale] ed era molto più economico. Quelle persone, però, apparivano distrutte e amareggiate, mentre mangiavano porzioni enormi di carne e uova fritte senza alcuna gioia”. In un altro capitolo su Mosca, lo scrittore parla del taboo del culto della personalità di Stalin, citando la sua guida russa che dice: “Se Stalin fosse ancora vivo [morì nel 1953], saremmo vissuti nel Terzo Mondo. Stalin fu la figura più sanguinaria, rancorosa ed egocentrica nella storia russa.”

Gabriel García Márquez (primo a partire da sinistra) nella Piazza Rossa a Mosca, agosto 1957. Foto dall'archivio di Michal Zourek, usata dietro autorizzazione.

Un patrimonio riscoperto per il popolo ceco

In Cecoslovacchia, il comunismo terminò nell'autunno del 1989, e negli stati successori, ovvero Slovacchia e Repubblica Ceca, il passato socialista è solitamente ricordato come un periodo oscuro di violazione dei diritti umani, restrizioni di viaggio e obbedienza forzata verso Mosca.

Tale punto di vista determina l'approccio degli storici cechi e slovacchi verso gli intellettuali di sinistra che visitarono il paese durante quel periodo. Come Zourek, che ha studiato in Repubblica Ceca e in Argentina, osserva [cs]:


Durante i miei studi all'università, ho più volte sentito menzionare il fatto che Pablo Neruda e Jorge Amado fossero vissuti in Cecoslovacchia, ma non pensavo che questo fosse un fenomeno così importante e che entrambi i paesi avessero un legame del genere anche prima della Rivoluzione Cubana [1959]. Questo è forse dovuto al disprezzo con cui ci si riferisce a quegli autori [in Repubblica Ceca e Slovacchia]: molti li considerano idealisti, oppure i soliti idioti che, con le loro visite, sostenevano regimi impegnati in violenze e persecuzioni. La questione è certamente molto più complessa.

Mentre quegli autori sono stati a lungo celebrati nei loro paesi d'origine in America Latina, soltanto adesso la loro eredità sta risalendo in superficie nella storia della Repubblica Ceca. Il diario di viaggio di Marquez è stato tradotto in ceco per la prima volta ne 2018 (“Devadesát dnů za železnou oponou“) [cs], mentre gli altri rimangono in gran parte sconosciuti.

Zourek condivide la sua esperienza personale per spiegare perché il processo di rivalutazione è così difficile [cs]:


Subito dopo la scuola secondaria, ho visitato il Cile, dove l'università era piena di bandiere sovietiche, ritratti di Lenin, dove nelle librerie si vendevano le opere di Marx ed Engels. Pensavo che quell'ideologia fosse morta, e non riuscivo a capire come qualcuno potesse ammirare quelle idee criminali che limitavano la libertà di espressione, che impedivano alle persone di frequentare l'università, di realizzare i propri sogni. Questa posizione antagonista tra i due paesi nei confronti del comunismo è dovuta in gran parte alla diversa esperienza storica. Questo è il motivo per cui io penso che quando diamo un giudizio sul comunismo, dobbiamo separare noi stessi dalla nostra storia ed esperienza personale, che spesso non ci permette di vedere questo fenomeno transnazionale in tutte le sue diversità. Sfortunatamente, questa diversificazione ancora non si sta verificando per molti storici cechi. Non penso sia una sorpresa che le persone nei paesi in via di sviluppo siano più interessate alle politiche della Cecoslovacchia comunista che ai loro compagni in Repubblica Ceca. Questo è iniziato a cambiare leggermente negli ultimi anni e penso che sia grazie alla graduale rivalutazione del periodo comunista da parte del popolo ceco. Credo che negli anni a venire vedremo una serie di opere che dimostrano che la Cecoslovacchia comunista fece cose degne di nota nei paesi in via di sviluppo, che vennero per lo più abbandonate dopo il 1989, per esempio quelle nell'ambito della cultura.

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