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lunedì 15 luglio 2024

Trump, le 3 foto straordinarie che raccontano l'attentato / il proiettile in volo, il sangue, il pugno e la bandiera

 

Donald Trump


Trump, le 3 foto straordinarie che raccontano 

l'attentato: il proiettile in volo, il sangue, il pugno e la bandiera


di Paolo Giordano

15 luglio 2024


Quel proiettile in volo accanto al viso che poi si riempie di sangue e paura Pugno e bandiera, scatti da guerra civile


Foto da uno sparo

Un talento va senza dubbio riconosciuto a Donald J. Trump. Quello di saper generare, perfino suo malgrado, un numero di immagini iconiche, e di tale qualità, da non avere paragoni nel resto del mondo, forse nemmeno nella storia. 

Che lo faccia ispirando altri all’azione (lo sciamano di QAnon a Capitol Hill), tramite scene evocate (i documenti sull’arsenale atomico nascosti a Mar-a-Lago), come spaccone o come vittima, il risultato è una produzione di immaginario ineguagliabile. Altro che intelligenza artificiale. Ma l’attentato di Butler ha portato la sua iconografia un passo oltre. 

Nella notte italiana in cui è successo, ero andato a dormire a un orario insolito, molto presto, così ho appreso tutto al mattino. A quel punto il racconto era già cristallizzato in tre fotografie, che nelle scorse ore ci sono state proposte così ripetutamente da essere già permeate in qualche strato del subconscio collettivo. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che si tratta di tre fotografie straordinarie di circostanze straordinarie, e che considerate in sequenza formano una sintesi completa dell’attentato. 

L'attentato a Donald Trump in diretta | Il NYT: «Una foto ha immortalato la traiettoria del proiettile». Melania: «L'attentatore di mio marito è un mostro»

Il prima. Nessuno di noi ci avrebbe creduto. Se ci avessero detto, senza ancora averla vista, che esisteva un’immagine del proiettile in volo accanto alla testa di Trump, non ci avremmo creduto. Invece esiste. Doug Mills ha vinto due Pulitzer nella sua carriera e, oltre a diverse campagne presidenziali, ha fotografato molto sport, situazioni cinetiche quindi, in cui deve aver imparato a ottenere il massimo nitore nella velocità. Ma questa volta non si tratta solo di esperienza o di bravura: c’è un elemento imponderabile di grazia concessa, verrebbe da dire di predestinazione, nella foto che ha scattato. E c’è l’apporto di una tecnologia che anni fa non sarebbe stata alla portata delle sue mani. Doug Mills stesso e il New York Times per cui lavora dovevano essere increduli, se hanno sentito la necessità di consultare un esperto di balistica per assicurarsi che la fotografia del proiettile fosse tecnicamente «possibile». 

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Viene fuori, dalla fisica del moto rettilineo uniforme, che lo è: se la pallottola sparata dall’AR-15 viaggiava a circa mille metri al secondo, un tempo di scatto di un ottomillesimo di secondo ha permesso di seguire il proiettile per un percorso di circa dodici centimetri. Più miracolosamente ancora: di fotografare lo spostamento d’aria lungo quel tratto. Dell’omicidio Kennedy abbiamo una sequenza sgranata che ha alimentato decenni di letteratura, film, complotti; l’11 settembre abbiamo visto un aereo entrare nella seconda Torre in diretta mondiale. Di Butler (ma non sto confrontando la portata degli eventi) abbiamo il proiettile in volo. Non è solo la testimonianza di come le lenti puntate su ogni angolo della realtà si siano moltiplicate a dismisura, ma di come la risoluzione con la quale la realtà viene scrutata sia aumentata fino a rendere visibile anche l’invisibile. 

Trump a terra dopo l'attentato

Il durante. Ma la fotografia più bella è quella di Anna Moneymaker. Perché è la più segreta, la più intima, è lo scatto dello sgomento e della paura. Se Trump è già uscito da questo tentato omicidio come l’uomo capace di alzare il pugno e di incitare il suo popolo mentre il suo sangue è ancora fresco — «Fight! Fight!» —, l’uomo capace di cogliere l’occasione politica subito dopo lo sparo con una prontezza simile a quella dei fotografi che stiamo celebrando, lo scatto di Moneymaker coglie il momento in cui Trump è semplicemente un uomo a terra, spaventato e anziano, con le sopracciglia in controluce e la pelle delle mani arricciata. Trump nell’istante del terrore animale, lo stesso che proverebbe chiunque di noi. Il cappellino MAGA sembra quasi un oggetto di preghiera nella foto di Moneymaker. Magari Trump vincerà sul serio alla fine, ma il suo sguardo in questa foto dice il contrario, è quello di un uomo che vede il proprio destino dissolversi. 

Foto da uno sparo

Il dopo. Anche le fotografie — come ogni forma di racconto — sono efficaci soprattutto in ragione di ciò che escludono. Non di quanto contengono. E lo scatto di Evan Vucci, destinato a restare il più celebre, esclude pressoché tutto: esclude la folla, le gradinate alle spalle di Trump, il podio. Sfruttando, con una maestria quasi impossibile da qualificare, la prospettiva in cui si trovava rispetto al palco rialzato, Vucci ripulisce la scena dal chiasso e mette al suo posto la campitura piatta, omogenea del cielo. L’immagine risultante è quasi in tricromia: rosso, bianco e diversi toni del blu — guarda caso i colori della bandiera americana, gli stessi che aveva dipinti in faccia il vichingo di Capitol Hill. Qui il rosso vivo, oltre alle strisce della bandiera, viene riservato solo all’orecchio sanguinante di Trump e alle striature da lottatore sul suo viso. Toro scatenato. Ho già trovato in rete alcune analisi tecniche sulla struttura compositiva dell’immagine, con tanto di griglia per mostrare la disposizione perfetta dei volti delle guardie di sicurezza, la gestione dei volumi eccetera. Anche i riferimenti a dipinti solenni e ad altre foto iconiche della storia si sprecano. Tutto molto interessante. Ma io non sono un appassionato di fotografia. E ho la sensazione insistente che quello di Evan Vucci sia uno scatto magistrale che farà male al mondo. Sì, la perfezione formale di queste tre fotografie mi opprime. Non perché colgono necessariamente l’attimo decisivo in cui Donald J. Trump vince le elezioni, come hanno già vaticinato in molti (a me sembra che sia tutto un po’ più complicato di così, o forse mantengo solo una fiducia irragionevole nelle persone). Le fotografie mi opprimono per la prontezza dei fotografi che le hanno scattate. Perché ci si aspetterebbe una prontezza simile, e degli scatti come questi, dai fotografi di guerra, quando i sensi sono attivati al massimo e l’allerta è tale proprio per cogliere un proiettile in volo, un target schienato, lo sventolare della bandiera sull’avamposto conquistato. 


Da un evento di campagna elettorale in estate mi aspetto sonnolenza e stordimento, anche da parte dei professionisti. Invece sembra che l’eventualità dello scenario di guerra abbia intriso anche le elezioni democratiche, almeno negli Stati Uniti. Da ieri non smetto di pensare a Civil War. Suppongo di non essere il solo. Le protagoniste del film di Alex Garland sono due fotografe di guerra, una di carriera e una aspirante, che cercano di raggiungere Washington DC nel pieno di una nuova guerra civile americana. Gli echi dell’assalto al Campidoglio sono evidenti nella storia, ma adesso sono evidenti anche i presagi dell’attentato di Butler. Come racconta il film, spesso la guerra, prima di divenire tale, esiste già sotto forma di clima, anzi di qualcosa di ancora più sfuggente e individuale: la nostra predisposizione a reagire in ogni situazione di calma apparente come pronti all’attacco. 

lunedì 25 gennaio 2021

Barack Obama / Una terra promessa / Memoria atlantica

 


I Migliori Libri

Memoria atlantica

L’Unione europea e i suoi leader visti da Barack Obama

Nel suo libro Una terra promessa (Garzanti), l’ex presidente degli Stati Uniti racconta i retroscena del suo primo mandato e il rapporto con i capi di Stato e di governo europei: lo «studiatamente informale» David Cameron l’affidabile Angela Merkel, le esagerazioni retoriche di Nicolas Sarkozy. Ma neanche una parola su Silvio Berlusconi


Di Futura D'Aprile
30 Novembre 2020

Lapresse

In questi giorni sono usciti molti estratti di Una terra promessa (Garzanti), il libro di memorie di Barack Obama: l’infanzia, l’arrivo alla Casa Bianca, gli anni del primo mandato. Poco pero si è detto di come esca fuori l’Unione europea e i suoi leader di allora, nelle memorie dell’ex presidente degli Stati Uniti. Il primo partner europeo che Obama descrive è l’allora premier britannico Gordon Brown. Il leader laburista è presentato come un uomo ponderato e responsabile, privo però delle brillanti doti politiche del suo predecessore Tony Blair. Tra l’altro, ricorda Obama, il suo mandato sarebbe durato ben poco: Brown infatti fu ben presto sostituito da David Cameron, politico «giovanile e studiatamente informale (…) e alleato disponibile su tutta una serie di questioni internazionali».

Ma i leader su cui Obama si dilunga maggiormente e che hanno rappresentato per lui dei punti di riferimento nella gestione dei rapporti con l’Ue sono la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy. Una scelta ovviamente non casuale: per il presidente americano la capacità dell’Unione di agire come entità singola dipendeva fondamentalmente dalla disponibilità alla collaborazione dei leader di Francia e Germania. L’asse franco-tedesco, quindi, era per Obama il vero motore dell’Europa. Merkel e Sarkozy per l’allora presidente Usa, però, non presentano lo stesso grado di affidabilità. Il confronto portato avanti a più riprese da Obama tra i due leader premia la cancelliera tedesca, mentre non mancano gli affondi contro il presidente francese tanto in ambito europeo quanto internazionale. Merkel, in diversi punti del libro, è descritta come una politica affidabile, dotata di capacità organizzative, acume strategico e incrollabile pazienza, il cui «aspetto imperturbabile rifletteva la sua sensibilità analitica e concreta». Obama però è critico nei confronti delle posizioni conservatrici della cancelliera e delle politiche di austerity da lei sostenute in risposta alla crisi economica del 2008.

Se il ritratto che Obama fa di Angela Merkel è decisamente positivo, lo stesso non si può dire per quello di Nicolas Sarkozy. Il presidente francese «era tutto esternazioni emotive ed esagerazioni retoriche» anche se la sua mancanza di coerenza ideologica, prosegue Obama, «era compensata dal suo coraggio, dal suo fascino e dalla sua energia maniacale». Ma ecco arrivare una nuova stoccata contro il presidente francese, descritto con «le mani sempre in movimento, il petto in fuori come un gallo da combattimento, il traduttore personale sempre di fianco» e desideroso di trovarsi sempre al centro dell’azione per potersi prendere il merito «di qualsiasi cosa valesse la pena intestarsi». Sarkzoy inoltre si era rivelato poco utile anche nel controbilanciare la posizione conservatrice di Merkel e non era in grado, secondo Obama, non solo di allestire un piano chiaro per tutta l’Europa, ma nemmeno per la sola Francia. Il rapporto con il presidente francese subì inoltre un peggioramento a seguito dell’intervento in Libia, promosso da Francia e Regno Unito, ma che secondo Obama arrivò ad un punto di svolta solo grazie al coinvolgimento americano, accolto come un sollievo dai leader francese e britannico. «Ero irritato che Sarkozy e Cameron mi avessero messo alle strette, in parte per risolvere i loro problemi politici interni (…) Sapevo anche che, a meno che non ne assumessimo noi la guida, il piano europeo non sarebbe andato da nessuna parte».


Barack Obama


L’Unione europea tra Obama e Trump
Oltre a descrivere i maggiori leader europei, il presidente degli Stati Uniti si sofferma anche sul progetto dell’Unione e sull’importanza della cooperazione a livello internazionale. Per Obama, l’Ue «aveva avuto un successo tutto sommato considerevole: rinunciando sotto alcuni aspetti alla loro sovranità nazionale, gli Stati membri avevano goduto di una pace e di un benessere condiviso come mai nessun altro popolo nella storia».

Ma la crisi economica aveva inasprito le differenze tra gli Stati membri, permettendo la rinascita dei nazionalismi, il rafforzamento dei partiti di estrema destra e facendo crescere lo scetticismo verso i processi di integrazione, soprattutto nell’Est. Le politiche punitive in risposta alla crisi sostenute soprattutto dalla Germania avevano aumentato la distanza tra i diversi Stati membri e dimostrato quanto fosse ancora difficile per l’Ue pensarsi come un soggetto unico e coeso. 

«Obama era critico verso alcuni atteggiamenti e alcuni leader dell’Ue, ma non era ostile al processo di integrazione né all’alleanza con gli europei in ambito atlantico», spiega a Linkiesta Gianpiero Gramaglia, esperto di relazioni transatlantiche dell’Istituto affari internazionali. «Donald Trump invece si è dimostrato ostile verso l’Unione – così come verso tutti gli organismi multilaterali e multinazionali». 

Il presidente uscente, continua Gramaglia, ha sempre privilegiato il dialogo bilaterale rispetto a quello con le istituzioni europee. Un atteggiamento che ha applicato anche nei confronti della Nato, mettendo in discussione persino il principio di mutua difesa, elemento fondante dell’Alleanza atlantica. «Questi atteggiamenti non c’erano sotto la presidenza Obama e non ci saranno con l’amministrazione di Joe Biden. Certo, l’Ue non era centrale nelle preoccupazioni di Obama, che guardava più a Cina e Russia, ma i modi e i toni delle relazioni tra Usa e Ue erano molto più distesi e amichevoli di quelli che si sono avuti con Trump».  

Le tensioni però non sono mancate nemmeno negli anni precedenti l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, spiega però Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa dell’Unicatt. «Fra l’altro, molte delle questioni che Trump ha enfatizzato, spesso in modo del tutto irrituale, erano già state sollevate proprio dall’amministrazione Obama. Il problema di fondo è che – già in questi anni – lo scollamento degli interessi fra Europa e Stati Uniti emerso dopo la fine della Guerra fredda si era fatto evidente». 

Nemmeno gli anni dell’amministrazione Obama, quindi, sono stati un periodo di vera convergenza. Anzi, continua Pastori, forse proprio a causa delle attese sollevate dalla sua elezione dopo gli otto anni difficili del mandato di George W. Bush, il bilancio finale è apparso a diversi osservatori più deludente di quanto non si stato effettivamente.


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