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mercoledì 18 settembre 2024

Bari e New York / verso città “giuste, verdi e sane”






Lo skyline di una città che unisce la modernità dei grattacieli alla sostenibilità e vivibilità di un grande spazio verde

Bari e New York: verso città “giuste, verdi e sane”

L'equità come guida per il futuro urbano

10 MARZO 2024, 

Premessa: In un’intervista a Ricky Burdett, noto urbanista britannico presente alla Biennale di Architettura 2023, risalta che l'attuale realtà urbana sia lontana dalla visione di città ideali. Molte delle città in crescita oggi sono carenti dal punto di vista verde, promuovono disuguaglianze sociali e minacciano la salute dei loro abitanti.

Il Council on Urban Initiatives è stato creato per affrontare questa sfida complessa riunendo attori provenienti da diverse aree disciplinari e settori, allo scopo di sviluppare un approccio olistico alla gestione urbana. L'obiettivo principale è di fornire una visione tridimensionale delle città, considerando aspetti sociali, ambientali ed economici. In questo contesto, Burdett sottolinea che non esiste un modello di città ideale preconfezionato; piuttosto, il compito principale è quello di porre domande, promuovere la ricerca e incoraggiare l'innovazione nel campo dell'urbanistica. Questo approccio riflette un impegno costante per la riflessione critica e la ricerca di soluzioni innovative al fine di costruire città più eque, verdi e sane per il futuro.

Ricky Burdett e il suo lavoro con il Council on Urban Initiatives cercano di promuovere città “giuste, verdi e sane”. Questo richiede un approccio interdisciplinare che comprenda aspetti sociali, ambientali ed economici per creare città che siano inclusive, sostenibili e favorevoli alla salute.

A Venezia, il 31 agosto, Burdett è montato sul palco del Teatro Piccolo Arsenale per moderare il simposio Governare, progettare ed educare per il futuro delle città, con Mariana Mazzucato e Lesley Lokko. L’appuntamento fa parte della programmazione di Carnival, iniziativa nata in seno alla Biennale Architettura 2023 per approfondirne i temi, con tavole rotonde, proiezioni, talk, performance.

Il Council on Urban Initiatives è una piattaforma di ricerca e di advocacy nata nel 2021 che sostiene gli attori internazionali, nazionali e locali a realizzare un cambiamento trasformativo verso un futuro urbano verde, giusto e sano. Organizzato da UN-Habitat, dall'UCL Institute for Innovation and Public Purpose (IIPP) e da LSE Cities, il Consiglio è composto da sindaci, accademici e professionisti ed è copresieduto da Ricky Burdett e Mariana Mazzucato.

Burdett è convinto che le città debbano essere costruite pensando al verde e alla natura come parte integrante della loro struttura. Il suo lavoro si basa sull'idea che il verde non debba essere un semplice accessorio, ma un elemento fondamentale nella progettazione urbana. Secondo Burdett, le città devono essere sostenibili dal punto di vista ambientale, socialmente inclusive ed economicamente vivibili.

Mariana Mazzucato è docente di Economia dell'innovazione e del valore pubblico presso l'University College di Londra, dove è direttrice e fondatrice dell'UCL, Institute for Innovation and Public Purpose. Il suo lavoro mette in discussione il pensiero ortodosso sul ruolo dello Stato e del settore privato nel guidare l'innovazione; su come il valore economico venga creato, misurato e condiviso; e su come le politiche che modellano il mercato possano essere progettate in modo "orientato alla missione" per risolvere le grandi sfide dell'umanità. È vincitrice di premi internazionali, tra cui il John von Neumann Award 2020 e il Leontief Prize 2018 per l'avanzamento delle frontiere del pensiero economico.

Uno dei concetti chiave del lavoro di Mazzucato è che lo Stato dovrebbe svolgere un ruolo attivo e imprenditoriale nell'innovazione economica, investendo in progetti di ricerca e sviluppo ad alto rischio che il settore privato potrebbe essere riluttante a sostenere. Ha sostenuto che la collaborazione tra il settore pubblico e privato è essenziale per affrontare sfide complesse come il cambiamento climatico, la salute pubblica e l'innovazione tecnologica.

In uno dei suoi articoli pubblicati sul suo sito web, The inclusive entrepreneurial state: collective wealth creation and distribution - marzo 2023, affronta il tema della distribuzione della ricchezza generata da un'economia e come questa dovrebbe essere distribuita. Le argomentazioni, sia di natura morale che economica, su chi debba avere diritto a cosa, cercano spesso di collegare le ricompense alle contribuzioni, per motivi di equità ed efficienza. Tuttavia, la quantificazione di queste contribuzioni dipende dalla teorizzazione stessa di esse. Di conseguenza, teorie diverse su come si crea il valore possono essere utilizzate per giustificare distribuzioni molto diverse di reddito e ricchezza.

E molto importante questo articolo per capire che la contribuzione alla creazione di valore da parte dello Stato, cioè le diverse componenti del settore pubblico, è stata teorizzata in modo problematico. L’autrice afferma che sottostimare il contributo dello Stato ha comportato un sovrastimare il contributo di altri attori, con conseguenze sulla distribuzione complessiva di reddito e ricchezza. Ha inoltre significato che non sia stato realizzato appieno il potenziale dello Stato nel promuovere sia la crescita basata sull'innovazione che quella inclusiva. Tuttavia, con un nuovo approccio alle politiche e, in generale, al ruolo del settore pubblico nell'economia, ciò potrebbe essere possibile.

Il nostro mondo è in costante evoluzione, e con esso, le nostre città. Il rapido sviluppo urbano delle ultime decadi ha portato a un aumento della densità abitativa e all'espansione delle aree urbane, con conseguenze significative sulla qualità della vita. In questo contesto, emergono voci di architetti e urbanisti che sognano città "giuste, verdi e sane", spingendoci a ripensare il modo in cui progettiamo e viviamo i centri urbani. Ma come si può trasformare questa visione in realtà quando non esiste un modello di città ideale? La risposta sta nell'innovazione e nella collaborazione. Molti architetti e urbanisti stanno sperimentando nuovi approcci per rendere le città più verdi e vivibili. E non è un fenomeno limitato a una specifica regione; è un movimento globale. In Italia il "Parco Centrale", a Bari, progetto G124, a cura del gruppo di lavoro fondato nel 2013 da Renzo Piano ne è un esempio visionario e trainante.

Questo progetto ha trasformato un'ex area industriale in un parco pubblico di 1.2 milioni di metri quadrati, ricco di alberi, laghi artificiali e percorsi pedonali. È diventato un luogo di incontro per la comunità locale, dimostrando che le città possono essere ripensate per includere la natura. Il G124 è nato con l'obiettivo di migliorare le periferie urbane, sfruttando l'energia e il coinvolgimento dei residenti. Per il 2022, sono stati selezionati tre luoghi simbolo in diverse città italiane, tra cui Bari, al fine di trasformarli in spazi vitali e socialmente attivi.

Nel quartiere San Paolo di Bari, l'area scelta per il progetto è uno spazio aperto vicino a via Altamura. Questo intervento si integra con la strategia di rigenerazione del quartiere San Paolo, puntando a creare spazi per la socializzazione e a rafforzare i legami di comunità.

Il protocollo di intesa sottolinea la collaborazione tra il Politecnico di Bari e il Comune di Bari e avvia il coinvolgimento attivo delle comunità locali nel processo di trasformazione di questo spazio urbano. Il progetto G124 prevede anche il coinvolgimento di quattro giovani laureati, finanziati dallo stipendio di Renzo Piano, che lavoreranno a stretto contatto con la comunità per definire le linee guida dell'intervento. L'obiettivo principale è trasformare questi spazi vuoti in piazze vitali, promuovendo nel contempo azioni di rinverdimento e demineralizzazione. Questa missione si basa sull'idea di coinvolgere attivamente la comunità e di far emergere l'energia locale già presente, creando nuovi spazi di vita apprezzati e curati dalla comunità stessa. La trasformazione dei luoghi fisici è quindi accompagnata da una crescita delle relazioni umane e della coesione sociale.

Il progetto G124 si concentra non solo sulla trasformazione fisica degli spazi, ma anche sulla creazione di una comunità più coesa e consapevole dei beni comuni. Questo approccio mira a dare nuova vita ai luoghi attraverso il coinvolgimento attivo dei residenti e la produzione di nuova bellezza che stimoli il desiderio di prendersi cura dell'ambiente circostante.

A livello internazionale, il "High Line" di New York è un altro esempio riuscito di recupero urbano verde a favore della città. Questa ex ferrovia elevata è stata trasformata in un parco pubblico lineare, con giardini, sentieri e spazi per l'arte pubblica. Ha non solo rigenerato un'area urbana trascurata ma ha anche ispirato progetti simili in altre città.

L'architettura visionaria dello studio Diller Scofidio + Renfro ha trasformato una dismessa linea ferroviaria in un vibrante spazio verde nel cuore di New York. La High Line, inaugurata inizialmente nel 2009 e successivamente ampliata, è un parco pubblico unico situato su un'ex ferrovia sopraelevata, che si estende per circa 2,5 chilometri attraverso la città. Questo progetto ha rivoluzionato la prospettiva dei cittadini newyorkesi sulla loro metropoli, trasformando un'infrastruttura ferroviaria inutilizzata destinata alla demolizione in un'oasi urbana amata da milioni di visitatori ogni anno.

La High Line è diventata un simbolo di rinascita urbana, grazie all'ingegnosa visione di trasformare uno spazio abbandonato in un'opportunità di rinnovamento. La su storia affonda le radici negli anni '30 quando fu costruita come ferrovia industriale, ma alla fine fu abbandonata a causa dell'evoluzione dei mezzi di trasporto. Nel 2003, nonostante le sfide finanziarie, il progetto di trasformare questa ferrovia in un parco prendeva forma. L'aumento previsto dei prezzi delle case nella zona circostante avrebbe dovuto coprire i costi del progetto, consentendo alla città di procedere con la sua realizzazione.

La High Line è un esempio straordinario di come la visione, la collaborazione e il coinvolgimento della comunità possano trasformare un'infrastruttura urbana dismessa in un luogo di bellezza, cultura e vitalità, dimostrando che anche gli spazi dimenticati possono essere rigenerati per il bene di tutti i cittadini. L'architettura verde non riguarda solo i parchi o le aree pubbliche. Gli edifici stessi stanno diventando sempre più sostenibili. L'uso di materiali ecologici, la progettazione bioclimatica e l'adozione di tecnologie innovative stanno cambiando il volto delle città. Ad esempio, il "One Angel Square" di Manchester, progettato da 3DReid, è uno degli edifici più sostenibili al mondo, con un'ampia copertura fotovoltaica e un sistema di ventilazione naturale. Angel Square è stata progettata per ridurre del 50% il consumo energetico rispetto all'attuale complesso di Manchester di The Co-operative e dell'80% le emissioni di carbonio. Ciò comporterà una riduzione dei costi operativi fino al 30%.

Ma la sfida rimane: come possiamo rendere queste iniziative la norma e non l'eccezione? La risposta sta nella collaborazione tra governi, comunità locali, architetti e urbanisti. È necessario un impegno condiviso per ridefinire il futuro delle nostre città. In questo processo, l'architettura e l'urbanistica devono svolgere un ruolo guida per stimolare la partecipazione della comunità, divertendo, coinvolgendo, emozionando o terrificando.

Nel mondo dell'architettura e dell'urbanistica, questo approccio dimostra un crescente movimento di pensiero che va oltre il concetto di città "verde" per abbracciare un ideale più ampio: città "giuste, sane e verdi". Questo approccio mette al centro l'equità, che integra i tre valori in un'unica visione del futuro urbano.

Città Giuste: L'idea di una città "giusta" abbraccia il senso di comunità e la tolleranza verso il multiculturalismo. Architetti come Francis Keré, originario del Burkina Faso o, il teorico Christopher Alexander, hanno enfatizzato il ruolo dell'architettura nella creazione di spazi inclusivi. Per Keré, le strutture architettoniche dovrebbero riflettere le tradizioni locali e promuovere la partecipazione della comunità nella progettazione. Questo approccio è cruciale in un mondo sempre più diversificato, dove la convivenza pacifica delle culture è fondamentale per il futuro delle città.

Città Sane: Il concetto di città "sana" si basa su criteri economici e sociali. L'economista Amartya Sen ha sottolineato l'importanza di misurare la prosperità di una città non solo attraverso il PIL, ma anche considerando aspetti come l'accesso all'istruzione, alla sanità e l'uguaglianza di opportunità. In questo contesto, città come Amburgo in Germania hanno adottato approcci innovativi. Affittando piccoli pezzi di terra ai residenti, la città ha promosso l'agricoltura urbana e il co-housing, creando spazi in cui le persone possono vivere insieme e coltivare il senso di comunità.

Città Verdi: Le città "verdi" sono progettate in modo sostenibile, prendendo ispirazione dalla natura stessa. Nella scuola di Boston, il MEDIA LAB del MIT ha sostenuto l'uso di principi biomimetici già dagli anni 70, imitando i processi naturali sta immaginando città efficienti, autorigeneranti e adatte al clima. Questo approccio è visibile in progetti di costruzione che imitano gli ecosistemi naturali per il raffreddamento, l'illuminazione e la gestione delle acque piovane.

Tuttavia, la sfida principale è rendere queste città "giuste, sane e verdi", accessibili a tutti. Qui entra in gioco la teoria dell'economista camerunese Achille Mbembe sull'"economia animista". Mbembe sostiene che, in un mondo con risorse limitate, dobbiamo abbracciare una visione più condivisa delle risorse, considerandole come beni comuni. Questo concetto si riflette nell'idea che "c'è spazio per tutti" nelle città del futuro. Significa che l'equità deve guidare l'allocazione delle risorse e la progettazione degli spazi, garantendo che nessuno venga escluso dalla visione di città "giuste, sane e verdi".

In conclusione, il futuro urbano non può essere limitato alla creazione di città verdi. Dobbiamo aspirare a città che siano giuste per tutte le comunità, sane per tutti i residenti e verdi per tutto il pianeta. Questa visione richiede un cambiamento radicale nella progettazione urbana e una nuova mentalità basata sull'equità e la condivisione. Solo allora potremo costruire città in cui "c'è spazio per tutti" e in cui il futuro sia sostenibile per le generazioni a venire.


Amartya Syen, l'economista premio Nobel che ha sottolineato l'importanza di misurare la prosperità di una città considerando l'accesso all'istruzione, alla sanità e l'uguaglianza di opportunità
High Line, New York, Stati Uniti d'America. Un esempio di riuscito recupero urbano verde a favore della città
Renzo Piano, il celebre architetto italiano fondatore del gruppo di lavoro del progetto "Parco Centrale" di Bari
High Line, New York, Stati Uniti d'America. . Questa ex ferrovia elevata è stata trasformata in un parco pubblico lineare, con giardini, sentieri e spazi per l'arte pubblica
Diébédo Francis Kéré, l'architetto originario del Burkina Faso che ha enfatizzato  il ruolo dell'architettura nella creazione di spazi inclusivi
High Line, New York, Stati Uniti d'America. Un esempio straordinario di come anche gli spazi dimenticati possono essere rigenerati per il bene di tutti i cittadini
  1. Amartya Syen, l'economista premio Nobel che ha sottolineato l'importanza di misurare la prosperità di una città considerando l'accesso all'istruzione, alla sanità e l'uguaglianza di opportunità
  2. High Line, New York, Stati Uniti d'America. Un esempio di riuscito recupero urbano verde a favore della città
  3. Renzo Piano, il celebre architetto italiano fondatore del gruppo di lavoro del progetto "Parco Centrale" di Bari
  1. High Line, New York, Stati Uniti d'America. . Questa ex ferrovia elevata è stata trasformata in un parco pubblico lineare, con giardini, sentieri e spazi per l'arte pubblica
  2. Diébédo Francis Kéré, l'architetto originario del Burkina Faso che ha enfatizzato il ruolo dell'architettura nella creazione di spazi inclusivi
  3. High Line, New York, Stati Uniti d'America. Un esempio straordinario di come anche gli spazi dimenticati possono essere rigenerati per il bene di tutti i cittadini




MEER




giovedì 17 marzo 2022

Hanya Yanagihara, la scrittrice che non ama New York ma non riesce a starci lontana

 


Hanya Yanagihara nell'illustrazione di Pia Taccone


Hanya Yanagihara, la scrittrice che non ama New York ma non riesce a starci lontana

L’autrice hawaiana che ha sconvolto il mondo con “A Little Life” trasformando una storia di abusi in un bestseller internazionale

Gotham's Writersdi Michele Crescenzo
29 Nov 2021

New York, oggi. Hanya Yanagihara chiude la porta alle sue spalle. Sospira. Finalmente a casa. Finalmente al sicuro da quell’incubo di nome New York. Si toglie l’impermeabile, le scarpe e cammina scalza nel suo grande appartamento a Manhattan. Si muove lenta sui pavimenti neri e lucidi. Supera il busto in gesso di Ho Chi Minh da Saigon, la mucca d’argento di Mumbai, una vecchia campana di ottone del Bhutan, una testa di ferro proveniente dall’isola indonesiana di Flores, il cervo in bronzo giapponese dell’era Showa e si ferma davanti alla sua libreria bifacciale che contiene più di dodicimila titoli. Ogni libro è ordinato alfabeticamente per autore. “Chiunque disponga i propri romanzi per colore non si preoccupa veramente di cosa c’è dentro”, racconta al The Guardian. L’autrice non si circonda solo di libri e souvenir da viaggi ma anche di fotografie e dipinti che coprono quasi ogni centimetro di parete e persino il pavimento. “Chiunque acquisti opere d’arte per abbinarle al proprio divano non sta effettivamente guardando l’arte; è irrispettoso. L’arte viene prima di tutto e, se ci tieni, è tuo compito adattarla” afferma l’autrice nella stessa intervista.

Hanya Yanagihara allunga la mano nella libreria e afferra il suo romanzo d’esordio The People in the Trees (Il popolo degli alberi Feltrinelli, traduzione di Francesco Pacifico)  che è stato acclamato come uno dei migliori romanzi del 2013 (anche se in Italia è stato pubblicato solo nel 2020). L’ha scritto mentre lavorava come giornalista pubblicista per diverse agenzie newyorkesi e – dal 2007 – per la rivista di viaggi Condé Nast Traveler.

Il romanzo è ispirato alla figura controversa di Carleton Gajdusek che aveva vinto il Premio Nobel nel 1976 per il suo lavoro sulla malattia di kuru. Una persona colta, con una mente ampia ed eclettica, ma per quanto rinomato fosse per i suoi successi professionali, lo era altrettanto per aver adottato decine di bambini della Papua Nuova Guinea. Negli anni Novanta, Gajdusek è stato oggetto di un’indagine dell’FBI ed è stato accusato di aver molestato alcuni dei suoi figli. Fu mandato in prigione e, dopo il suo rilascio, visse il resto dei suoi anni nel nord Europa. “La storia di Gajdusek mi ha affascinato” – ha raccontato a Vogue  “Era una mente indiscutibilmente brillante che faceva anche cose terribili. Se chiamiamo qualcuno un genio, e poi diventa un mostro, è ancora un genio? Come valutiamo la grandezza di qualcuno?”

The People in the Trees è ambientato negli anni 50, dove il dott. Perina si unisce a una spedizione antropologica diretta all’immaginario stato insulare della Micronesia U’ivu. Lì incontra una tribù perduta di “sognatori” – individui eccezionalmente longevi. Più tardi, scopre che il segreto della longevità dei sognatori è la carne di una tartaruga chiamata opa’ivu’eke, che viene ingerita al 60° compleanno di un U’ivuan. Perina riporta di nascosto un campione di tartaruga in America, pubblica le sue scoperte e raggiunge una fama immediata.

Hanya Yanagihara di Sam Levy (wikipedia.org)

Nella seconda parte si raccontano gli effetti collaterali della scoperta e la distruzione dell’isola Edenica. Il lettore assiste ad una vera e propria violenza dello stato immaginario della Micronesia U’ivu sia culturalmente che ecologicamente.

“Una delle cose che volevo fare con questo romanzo era scrivere una storia delle Hawaii, da dove vengo, e degli effetti della colonizzazione lì.” – racconta l’autrice a

Vogue “Non voglio dire che tutta l’occidentalizzazione è sempre cattiva. Ma penso che ci siano modelli delle conseguenze della colonizzazione che vedi echeggiare nelle culture e nelle comunità di tutto il mondo. Quello che accade su Ivu’ivu nel mio romanzo è una versione molto più grottesca ed estrema di ciò che alcuni potrebbero dire sia accaduto alle Hawaii.”

Hanya Yanagihara afferra il secondo romanzo “A Little Life” (Una vita come tante, Sellerio Editore, traduzione di Luca Briasco) che nonostante le difficili tematiche trattate (violenze su minori, autolesionismo) e la lunghezza del romanzo (oltre novecento pagine) è diventato un best seller in tutto il mondo.

Il libro inizia come la storia di quattro amici del college che si trasferiscono a New York: c’è Willem, un affascinante aspirante attore svedese-americano del Wyoming, Malcolm, un aspirante architetto di razza mista dell’Upper East Side, J. B., un aspirante artista haitiano-americano in sovrappeso di Brooklyn e Jude, un giovane avvocato bello, brillante, di razza e origine indeterminate. “New York era popolata da ambiziosi“, osserva JB. “Spesso era l’unica cosa che tutti qui avevano in comune… Ambizione e ateismo”.

Le prime pagine descrivono la vita degli quattro amici ma il romanzo prosegue rapidamente nella storia di Jude, concentrandosi sui suoi episodi di autolesionismo e sulle loro origini. Il primo vero indizio di ciò che aspetta al lettore arriva dopo una sessantina di pagine quando Jude sveglia Willem, il suo compagno di stanza, dicendo: “C’è stato un incidente, Willem; Scusami.” Jude ha il braccio insanguinato avvolto in un asciugamano. È evasivo sulla causa della ferita e insiste sul fatto che non vuole andare in ospedale, chiedendo invece che Willem lo porti da un amico comune di nome Andy, che è un medico. Alla fine della visita, dopo aver ricucito la ferita di Jude, Andy dice a Willem: “Lo sai che si taglia, vero?

Il taglio diventa una costanza. Ogni cinquanta pagine circa, abbiamo una scena in cui Jude mutila la propria carne con una lametta. È descritto con una franchezza che potrebbe far venire la nausea ad alcuni lettori: “Da tempo ha esaurito la pelle bianca sugli avambracci e ora ripassa i vecchi tagli, usando il filo del rasoio per segare il tessuto cicatrizzato e raggrinzito. Quando i nuovi tagli guariscono, lo fanno in solchi verrucosi, ed è disgustato e costernato e affascinato allo stesso tempo da come si è gravemente deformato.” Il taglio è sia un sintomo che un meccanismo di controllo del profondo abuso che Jude ha subito negli anni prima del suo arrivo all’università. La precisa natura di quella sofferenza è accuratamente spiegata da Yanagihara in una serie di flashback, ognuno più raccapricciante dei precedenti. Le rappresentazioni di abusi e sofferenze fisiche che si trovano in “A Little Life” sono rare nella narrativa letteraria tradizionale. I romanzi che trattano questi argomenti spesso svaniscono quando inizia la violenza. L’abuso in “Lolita” di Nabokov, ad esempio, è in gran parte fuori campo. È più probabile che si trovino rappresentazioni esplicite di violenze nella narrativa di genere come “Lisey’s Story” di Stephen King o “Girl with the Dragon Tattoo” di Steig Larsson ma la rappresentazione di Yanagihara dell’abuso di Jude non sembra mai eccessiva o sensazionalistica. Non è inserita per dare al lettore uno shock, come a volte accade nelle opere di horror o crime fiction. La sofferenza di Jude è così ampiamente documentata perché è il fondamento del suo carattere.

“A Little Life” è scritto in modo semplice, diretto per quanto oscuro e inquietante, possiede dentro una bellezza difficilmente descrivibile a chi non ha letto il romanzo.

Yanagihara afferra le bozze del suo terzo romanzo To Paradise che verrà pubblicato l’anno prossimo e  che racconterà tre storie in tre secoli diversi. Yanagihara in un intervista a The Cut ha dichiarato che “la sua speranza è che i lettori vedano riflesse nelle sue pagine alcune delle domande che tutti ci siamo posti sulla premessa degli Stati Uniti, soprattutto in passato.”  To Paradise si aprirà nel 1893, a New York e racconterà la storia d’amore di un fragile giovane rampollo di una famiglia e un’affascinante insegnante di musica”. Con la seconda storia andiamo avanti velocemente a Manhattan del 1993, in una città sopraffatta dall’epidemia di AIDS dove Yanagihara segue la vita di un giovane uomo hawaiano che vive con il suo ricco partner anziano, al quale deve nascondere il suo passato traumatico. L’ultima puntata del libro sembra la più agghiacciante: siamo nell’America nel 2093 in un futuro dilaniato e governato da un regime totalitario.

In To Paradise ci sono temi che Yanagihara ha toccato nei suoi lavori precedenti: il trauma, la nazionalità e la giustizia. Argomenti che l’autrice unisce attraverso tre storie in quella che promette di essere “una sinfonia avvincente e geniale”.

Yanagihara lascia i suoi libri e attraversa il suo appartamento (lo chiama “il mio rifugio”) per affacciarsi alla finestra e buttare uno sguardo a New York. “La odio, ogni anno di più. Odio le scarse infrastrutture, il cibo troppo caro e mediocre, il sistema della metropolitana, il traffico”, ha detto al The Guardian. “Il motivo per cui rimango qui è l’emozione di incontrare costantemente persone più intelligenti e più interessanti di me. La possibilità di partecipare ad eventi che non riuscirei nemmeno ad immaginare. Rimango qui perché senza questa città non sarei la scrittrice che sono.”


LA VOCE DI NEW YORK



martedì 1 febbraio 2022

Paul Auster, lo scrittore simbolo di Brooklyn che insegue le coincidenze della vita

 


Paul Auster nell'illustrazione di Pia Taccone


Paul Auster, lo scrittore simbolo di Brooklyn che insegue le coincidenze della vita

Intellettuale elegante, ma accessibile e scrittore d'avanguardia che abbraccia un pubblico mainstream. Con Lou Reed e Woody Allen, è uno dei simboli di NY

Gotham's Writersdi Michele Crescenzo


23 Mag 2021
Con i suoi vestiti neri e la sua esperienza nella poesia francese, il suo amore per Samuel Beckett e le incursioni nel cinema indipendente, Auster ha pubblicato diciotto romanzi più diversi libri di poesia, saggistica e opere cinematografiche. Vive in un bell'edificio in pietra calcarea di inizio secolo, il tipo di casa a schiera che rende Park Slope uno dei migliori quartieri di Brooklyn

Paul Auster

1980, Brooklyn. Paul Auster è seduto alla scrivania sotto due lampade accese. Le tende delle finestre sono chiuse giorno e notte. Preferisce scrivere sulla sua Olympia accanto alle decorazioni sulle tele che al muro di mattoni davanti casa. Sospira. Sono ormai diversi anni che è tornato dalla Francia e ha pubblicato solo una raccolta di poesie. In Europa ha lavorato con la scrittrice Lydia Davis come critico e traduttore, hanno avuto la convinzione che la loro povertà fosse romantica fino a quando la situazione non è diventata disperata. Sono tornati negli Stati Uniti con nove dollari ma questo non ha evitato di sposarsi nel 1974 e di divorziare nel 1977.

Squilla il telefono, la voce di un uomo con un forte accento spagnolo chiede se quella fosse l’agenzia Pinkerton. Paul Auster dice di no e attacca. Lo stesso uomo richiama il giorno dopo e chiede di nuovo della stessa agenzia investigativa. Lui ribadisce che ha sbagliato numero ma subito dopo inizia a immaginare cosa sarebbe successo se avesse impersonificato un investigatore privato e si fosse offerto di occuparsi di un caso. Inizia, così, a scrivere la storia di uno scrittore solitario di nome Quinn che, in tre notti diverse, riceve una telefonata da un uomo che cerca “Paul Auster. Dell’agenzia investigativa Auster”.

Le prime due volte, Quinn dice semplicemente all’uomo che ha composto il numero sbagliato, ma la terza notte finge di essere Paul Auster, investigatore privato. Quello che segue è “City of Glass” la prima parte di The New York Trilogy (La trilogia di New York, Rizzoli, 1987 – Einaudi, 1996 trad. di Massimo Bocchiola) una antologia di tre romanzi brevi pubblicati dal 1985 al 1986 che hanno fanno conoscere Auster come un autore originale che oscilla tra tradizione e innovazione.  Trilogia di New York è ambientato in una città allucinata, in cui tutto si confonde e sfuma. La prima parte, ‘City of Glass’, è un thriller poliziesco e psicologico. “Ghosts” – la seconda storia – è l’inquietante storia di un uomo costretto a pedinare sé stesso. La parte conclusiva, “The Locked Room”, è l’autobiografia di un autore letterario scomparso. Jan Kjærstad, scrittore e critico norvegese, l’ha descritto come un “cristallo che rifrange la luce in colori che raramente sono stati visti prima”. L’Enciclopedia Treccani ha definito l’opera come una parodia postmoderna del romanzo poliziesco, la trilogia scardina le convenzioni del genere, mescolando echi della grande tradizione americana (N. Hawthorne, H. D. Thoreau, E. A. Poe, H. Melville) a suggestioni del nouveau roman, per costruire un universo, sia narrativo sia urbano, dominato dal caso.

Il romanzo ebbe un successo europeo prima che statunitense. Quando uscì in Inghilterra nel novembre 1987, la prima tiratura di cinquemila copie andò esaurita in una settimana ed è stato subito osannato in Francia. È stato meno celebrato nel suo paese d’origine, anche se la situazione è cambiata quando, a metà degli anni novanta, ha realizzato, con Wayne Wang, il film “Smoke”. Si cominciò allora a prestare maggiore attenzione ai suoi delicati e ponderati lavori come The Music of Chance (La musica del caso, Guanda, 1990 – Einaudi, 2009, trad. di Massimo Birattari) Leviatano (Leviatano, Guanda, 1995 – Einaudi, 2003, trad. di Eva Kampmann) e Mr. Vertigo (Mr. Vertigo, 1994 trad. di Susanna Basso)

Con i suoi vestiti neri e la sua esperienza nella poesia francese, il suo amore per Samuel Beckett e le incursioni nel cinema indipendente, Auster è diventato presto un intellettuale elegante ma accessibile, un tipo di scrittore d’avanguardia che abbraccia un pubblico mainstream. Insieme a Lou Reed e Woody Allen, è oggi uno dei simboli di New York, così tanto che hanno proposto a lui e alla seconda moglie – la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt – di girare uno spot pubblicitario per Gap ma lui ha rifiutato. “Non mi piace la pubblicità”, ha spiegato al the Guardian.

“Il risultato del suo lavoro è quello di costruire un’architettura narrativa tradizionale con interni decisamente moderni” dice Don DeLillo, autore newyorkese e grande di Paul Auster, talmente tanto che quest’ultimo gli ha dedicato “Leviathan”. Tra i due c’è una reciproca influenza letteraria, in “Mao II“, ad esempio, uno scrittore solitario afferma “anni fa pensavo che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Ora i fabbricanti di bombe e gli uomini armati hanno conquistato quel territorio”; questa osservazione potrebbe essere il motto segreto di “Leviathan”, il libro inizia infatti con la notizia che un uomo di nome Benjamin Sachs, un romanziere, è stato fatto a pezzi da una bomba che stava assemblando.

Diversi sono i temi ricorrenti usati dall’autore americano (su wikipedia c’è perfino una lista) come l’ambientazione a Brooklyn, la presenza di uno scrittore ossessivo come personaggio centrale e l’assenza del padre ma quello più ricorrente nella sua vita come nelle sue opere è sicuramente “la coincidenza”. Questo tema è presente sia nei romanzi Moon Palace (Einaudi, 2007, trad. di Mario Biondi) The Music of Chance  e Leviathan che nella sua vita, tanto che Paul Auster ha raccolto nel libro Experiment In Truth (Esperimento di verità Einaudi, 2001, trad. di Massimo Bocchiola) e The Red Notebook (Il taccuino rosso, Einaudi 2013, trad. di Magiù Viardo) alcuni racconti dove il caso ha condizionato eventi realmente accaduti. Le storie riguardano incredibili coincidenze (avvenute sia all’autore che a suoi amici) che sbalordiscono il lettore. “Il caso fa parte della nostra realtà: siamo continuamente plasmati dalle forze della coincidenza, l’imprevisto si verifica con una regolarità quasi paralizzante in tutto le nostre vite” afferma Paul Auster in un’intervista su jstor.

Quando Paul Auster aveva cinquant’anni, e dopo aver sofferto alcuni periodi di cattiva salute, scrisse una serie di libri incentrati sul rapporto con la morte e i suoi fantasmi come Timbuktu (Einaudi, 1999, trad. di Massimo Bocchiola) The Book of Illusions, (Il libro delle illusioni, Einaudi, 2003, trad. di Massimo Bocchiola) e Oracle Night (La notte dell’oracolo, Einaudi, 2004, trad. di Massimo Bocchiola)

Durante i suoi sessanta anni, invece, Auster ha scritto del suo passato, sia nei suoi romanzi come Invisible (Einaudi, 2009, trad. di Massimo Bocchiola) che racconta la storia di uno studente della Columbia alla fine degli anni ’60 (Auster studiava lì propri in quel periodo) sia attraverso due saggi come Winter Journal (Diario d’inverno, Einaudi, 2012, trad. di Massimo Bocchiola) e Report from the Interior (Notizie dall’interno, Einaudi, 2013, trad. di Monica Pareschi) dove rievoca le sensazioni e gli avvenimenti della sua infanzia.

“Penso che quei due libri abbiano gettato le basi per il mio ultimo romanzo 4321(Einaudi, 2017, trad. di Cristiana Mennella)” dice al the Guardian e racconta nella stessa intervista che quando aveva invece quattordici anni, un ragazzo a pochi centimetri da lui fu ucciso colpito da un fulmine. “È qualcosa che non ho mai superato”, afferma “eravamo al campo estivo colti da una tempesta elettrica nel bosco. Qualcuno ha detto che dovevamo raggiungere una radura e dovevamo strisciare, in fila indiana, sotto una recinzione di filo spinato. Un fulmine colpì la recinzione mentre il ragazzo immediatamente avanti a me la stava oltrepassando. La mia testa era proprio vicino ai suoi piedi. Non mi resi conto che il ragazzo era morto sul colpo così l’ho trascinato nella radura”.

Se il fulmine fosse caduto solo pochi secondi dopo, sarebbe stato lui a morire. “Sono sempre stato ossessionato da quello che è successo, dalla sua totale casualità”, dice. “Penso che sia stato il giorno più importante della mia vita.” Un incidente simile si verifica nell’ultimo romanzo di Auster, 4321. Archie Ferguson, un tredicenne pieno di promesse, affascinato da The Catcher in the Rye di J.D. Salinger e dai suoi primi baci, corre sotto un albero durante una tempesta al campo estivo. Quando un fulmine lo colpisce e viene ucciso da un ramo che cade. Ma questo è il destino di solo uno dei quattro Archie Ferguson nel romanzo. La narrativa di Auster ha sempre esplorato i momenti in cui le vite, grazie al caso e alle circostanze, prendono direzioni diverse, e nel 4321 questa idea viene presentata nella sua forma più pura. Il romanzo inizia con la nascita di Ferguson il 3 marzo 1947 da Stanley, che gestisce un negozio di elettrodomestici a Newark, New Jersey, e Rose, che lavora per un fotografo. Quelle che seguono sono quattro versioni della storia di Ferguson. I quattro Archie hanno lo stesso punto di partenza (gli stessi genitori, gli stessi corpi e lo stesso materiale genetico) ma, mentre attraversano l’infanzia e l’adolescenza, prendono strade divergenti. Ogni Ferguson vive in una diversa città del New Jersey e ha una diversa configurazione di famiglia e amici. Man mano che le loro storie si svolgono in capitoli a rotazione, diventano persone sempre più distinte: si sente l’influenza del denaro, o la sua mancanza; divorzio; formazione scolastica; e tutti gli altri fattori che determinano le prime vite. Auster presenta quattro ritratti dettagliati dell’intensità della giovinezza – di imbarazzo e frustrazione, ma anche di passione per i libri, i film, lo sport, la politica e il sesso. Tutti gli Archie sono pieni di intelligenza e tutti sono aspiranti scrittori. Tutti si innamorano dell’accattivante Amy Schneiderman, anche se ogni relazione si svolge in modo diverso. Un Ferguson ha un incidente d’auto e perde le dita, uno è bisessuale, un altro ha un amico che muore improvvisamente.  Paul Auster lo descrive come il “romanzo più realistico che abbia scritto”. Ha iniziato a scrivere 4321 all’età di 66 anni, l’età in cui suo padre è morto improvvisamente. Il pensiero che anche lui potesse morire lo fece lavorare in fretta, finendo il romanzo di 866 pagine in tre anni e mezzo invece dei cinque previsti.

Paul Auster oggi ha pubblicato diciotto romanzi più diversi libri di poesia, saggistica e opere cinematografiche come SmokeBlue in the Face e Lulu on the Bridge. Vive in un bell’edificio in pietra calcarea di inizio secolo, il tipo di casa a schiera che rende Park Slope uno dei migliori quartieri di Brooklyn. L’appartamento è al terzo piano ed ha finiture in legno e soffitti alti. L’autore ama sedersi sulla sua poltrona a raccontare storie agli amici o parenti. Racconta spesso che ha iniziato a fare lo scrittore il giorno in cui, all’età di otto anni, incontrò il suo eroe del baseball Willie Mays a una partita dei New York Giants e, raccogliendo tutto il suo coraggio, gli chiese un autografo. Ma né suo padre né sua madre avevano una matita, e alla fine il giocatore scrollò le spalle e se ne andò. Auster era disperato e da quel giorno – così ha dichiarato al Columbia Magazine  – non uscì più di casa senza una matita: “Se hai una matita in tasca, c’è una buona probabilità che un giorno inizierai ad usarla.” Ma la storia che preferisce è su una chiamata avuta dopo il successo di Trilogia di New York, quando al telefono una voce con un forte accento spagnolo ha chiesto del signor Quinn. “Ho pensato che fosse una specie di scherzo” racconta al New York Time  “Niente affatto – l’uomo era serio. Così ho preso il mio taccuino. Poteva trasformarsi in una buona storia”

LA VOCE DI NEW YORK