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giovedì 26 ottobre 2017

IT, il festival del teatro indipendente / Il teatro danza e le opere totali


IT, il festival del teatro indipendente

Il teatro danza e le opere totali

2 LUGLIO 2014, 
FRANCO ROMANÒ
La Fabbrica del vapore, a Milano, è un vasto complesso di palazzine industriali, basse e lunghe, distribuite a rettangolo intorno a un ampio cortile interno. Furono costruite alla fine del diciannovesimo secolo ed erano la sede dalla Ditta Carminati, che produceva materiale per la costruzione di ferrovie e tranvie. Il processo di deindustrializzazione ha fatto di quest'area uno dei tanti non luoghi che si formano all'interno delle grandi città europee, vere e proprie voragini aperte nel tessuto urbano, spesso riempite dalla speculazione edilizia. Non in questo caso, fortunatamente, perché l'area è stata bonificata ed è diventata la sede di un progetto giovani che ha visto il coinvolgimento di istituzioni pubbliche e private, divenendo un luogo di produzione artistica, di allestimento di mostre e altro.
È in questo complesso di edifici che si è svolta la seconda edizione di Itfestival, nei giorni 2,3 e 4 maggio scorsi. La rassegna ha confermato che nel teatro italiano, oltre che nel cinema, qualcosa di buono continua a muoversi, a crearsi e a ricrearsi e che vi è un fermento di giovani, un proliferare di compagnie e iniziative che si muovono in controtendenza rispetto ad altri settori artistici. L'idea nacque, come recita l'opuscolo di presentazione del programma di quest'anno, “da un gruppo di artisti e organizzatori che ha avuto la voglia di provare a dare visibilità al mondo dell'underground teatrale milanese.”
Gestito dall'associazione IT che sta per Indipendent Theatre il festival ha visto la partecipazione di 100 compagnie per un coinvolgimento di 450 persone che hanno dato vita a una tre giorni molto intensa di spettacoli che si avvicendavano dalle ore 18 fino a mezzanotte. Le serate si concludevano sempre con un confronto finale cui partecipavano autori, critici e pubblico: una specie di microfono aperto che costituiva pure un momento di critica estemporanea e di confronto, sempre assai stimolanti. Gli spettacoli erano distribuiti in molte sale, il biglietto di 5 euro copriva l'intera programmazione di una serata.
Gli elementi maggiormente caratterizzanti sono stati a mio avviso tre, di cui il primo e cioè il coinvolgimento di operatori e addetti al lavoro, era presente anche nella prima edizione. Diversamente dal secondo e cioè un originale modo di fare critica teatrale; infine, la scelta di mettere in scena lavori che non andassero oltre i venti minuti. La presenza degli operatori ha sgomberato il campo da un rischio: quello di una passerella che desse visibilità al lavoro artistico delle compagne, ma senza nessuno sbocco possibile, oltre la rassegna stessa. Per gli artisti coinvolti, invece, è stato un momento di primo confronto con il pubblico, ma anche di possibilità di uscire dal circuito dell'underground. La scelta di corti teatrali, obbligata per allargare il numero delle presenze e delle proposte, ha una tradizione di tutto rispetto (si pensi alle fulminanti commedie in poche battute dei Achille Campanile) e viene rilanciata oggi sempre di più, anche ragioni di bilancio.
Infine la critica, coinvolta anche in passato, ma cui quest'anno si chiedeva di lavorare su due piani diversi. Una prima recensione dello spettacolo appena visto, di non più di cento parole, veniva inviata subito, per mezzo di cellulari, alla redazione, che provvedeva a inserirla nel sito della rassegna. Tale scritto orientava il pubblico che non aveva ancora visto la rappresentazione, in attesa della replica. A fine serata, i critici venivano invitati a produrre, entro il mezzogiorno successivo, due recensioni più ampie (2000 battute), dedicate ai due lavori che avevano maggiormente apprezzato. Pubblico e operatori che vogliano ancora oggi visitare il sito di IT trovano un ampio ventaglio di riflessioni critiche e possono farsi un'idea della rassegna.

Dal teatro danza al teatro di parola, fino all'opera totale

La scelta compiuta dagli organizzatori non ha privilegiato alcuna poetica teatrale, ma lasciato spazio a ogni genere. Tuttavia, un'analisi dettagliata del programma, mi induce a considerazioni intorno ad alcune tendenze. Prima di tutto la forte presenza di un teatro di parola, in alcuni casi di classici del secondo '900 come Il calapranzi di Pinter e Le serve di Jean Genet, oppure ispirati da testi letterari come Animal Farm di Orwell o addirittura dalla poesia di Andrea Zanzotto e Amelia Rosselli. Per chi scrive è una buona notizia che anche compagnie giovani si rivolgano a questo genere di teatro, spesso con esiti felici; in particolare alcuni lavori comici al femminile, capaci di drammatizzare la condizione sociale delle donne, oppure di mettere alla berlina pregiudizi e cliché, ma anche di prendersi in giro (Barbie è mortaTra mozziconi e reggiseni).
Tutto ciò che non aveva al centro la parola lo dividerei in due grandi categorie: teatro danza e opere totali. Chiarisco subito che l'uso di questi due termini è mio e non degli organizzatori che usano invece la parola inglese body per indicare i lavori teatrali con una forte presenza del movimento corporeo, mentre il secondo termine non compare in alcuna forma. Eppure, non saprei come definire diversamente lavori in cui l'interazione fra espressioni artistiche diverse come musica, video, danza e addirittura il computer, talvolta con esiti notevoli come per We BulliDarkroomMi e ti, era il dato stilistico saliente.
I temi più fortemente presenti, al netto di alcuni lavori onirici e visionari, come Arie di carta, giravano intorno alle difficili relazioni fra i generi, il degrado della vita sociale osservato e indagato spesso con le lenti del grottesco. Il linguaggio dei testi privilegiava la presa diretta, il registro colloquiale più comune oppure rifaceva il verso agli stereotipi televisivi o a quelli frequenti nelle comunicazioni nel social network. Il corto circuito fra realtà virtuale e reale è stato particolarmente felice in alcuni casi, come il già citato We Bulli. La cronaca è stata un'altra fonte ispiratrice per molti lavori, mentre la crisi economica e morale italiana entrava di striscio in alcune rappresentazioni, ma soltanto Darkroom (fra gli spettacoli che ho potuto seguire) mi è parso convincente nel trattarne tutti gli aspetti, mescolando abilmente reale e surreale.
Il tipo di rassegna non si prestava a invenzioni registiche di particolare interesse: gli spazi utilizzati erano più adatti in generale a una mise en scene piuttosto che a una rappresentazione vera e proprio e il rapido avvicendarsi delle compagnie non consentiva l'allestimento di macchine teatrali complesse. Eppure, in alcuni casi come in Mi e ti e alcuni altri lavori già citati, tale vincolo non è parso un limite, ma una risorsa. Non è un caso che si tratta di testi pensati ad hoc per il festival, oppure preesistenti, ma scritti e pensati per una durata di venti minuti. Sono apparsi meno convincenti in generale quei lavori che erano una via di mezzo fra il promo di una rappresentazione più ampia, oppure la riduzione a venti minuti di spettacoli più lunghi. Infine gli interpreti. La natura del festival non permetteva a chi si occupava di critica di vedere se non una porzione limitata di spettacoli, ma a meno di essere stato particolarmente fortunato, le prestazioni fornite degli attori sono state l'aspetto più convincente perché assai omogeneo nel livello, dell'intera rassegna.


Un bilancio complessivo

Il Festival è stato un indubbio successo, testimoniato anche dall'attribuzione del Premio-Hystrio-Provincia di Milano, proprio a IT Festival e alla Compagnia Teatrale FavolaFolle. Chiedo a Maddalena Giovannelli, che ha coordinato il lavoro della redazione critica, qualche lume in più sui programmi futuri:

“Mi pare che l'idea di continuare ci sia senz'altro!” risponde prontamente Giovannelli e conclude: “si tratta solo di riflettere sulle modalità: ma per questo immagino ci sarà uno spazio di riflessione da settembre.”
Naturalmente, come tutto, si può migliorare e ben venga una riflessione comune. Per chi si è occupato di critica, per esempio, non è stato facile confrontarsi con lavori così diversi in una stessa serata, dal momento che valutare uno spettacolo completo, pur nel limite dei venti minuti, è assai diverso che esprimersi su un promo, oppure su lavori che erano più vicini al cabaret che al teatro, o video che presentavano degli spettacoli piuttosto che rappresentarli. Forse, un'attenzione maggiore a questo aspetto va presa in considerazione; anche un giorno in più di festival, senza però alzare il numero delle rappresentazioni, potrebbe aiutare a seguire meglio il tutto. Il valore del festival, tuttavia, va anche messo in relazione con lo stato del teatro e in generale del modo in cui viene trattata la produzione culturale nell'Italia odierna.
Questo tema è stato largamente trattato nei dibattiti serali. Il festival, come ha più volte sottolineato Arianna Bianchi, fra le responsabili dell'intero progetto, è nato anche dall'esigenza di “fare rete” in una situazione di difficoltà che è comune non solo a compagnie teatrali, ma anche a orchestre e artisti singoli. È su questo che si sofferma la riflessione di Bianchi, che infatti così prosegue:

“Proseguiamo l'anno prossimo con l'idea di fare meglio, con la speranza di avere al nostro fianco un sostegno comunale più solido e con la voglia di creare un evento ancor più coinvolgente tanto sotto il profilo della proposta artistica, quanto dal punto di vista dell'impatto sulla città (e in ottica Expo, il tema del rapporto con Milano e con la cittadinanza diviene particolarmente sensibile). A dire la verità, i lavori alla prossima edizione sono già cominciati, e con entusiasmo! E bisogna ammettere che la recente vittoria del Premio Hystrio ha contribuito ha consolidare il buonumore e la spinta all'operosità!
L'accenno al sostegno comunale è un passaggio chiave. Guardando alla situazione nel suo complesso, abbiamo da un lato le grandi istituzioni che sono una specie di area blindata, un bunker che arranca anch'esso sotto il peso di tagli di spesa e mancanza di investimenti, ma che anche in tempi migliori non sempre ha svolto il ruolo di filtro necessario a favorire l'ingresso di compagnie giovani e testi contemporanei; dall'altro un proliferare caotico, magmatico, fatto di attori che escono da accademie e scuole, compagnie che nascono e cercano di farsi largo fra le mille difficoltà. Quello che manca è un livello intermedio fra la grande istituzione e tutto questo. Il festival è un pezzo di tale cammino che però deve prevederne altri.


Ciò che serve non è sempre e solo il denaro, gli investimenti possono essere di altra natura: per esempio, mettere a disposizione spazi inutilizzati e degradati senza oneri generali per un lasso di tempo ragionevole, in cambio del loro risanamento, lasciando poi a chi lo fa di autogestirsi e rendersi autonomo anche da un punto di vista economico. In altri paesi europei tutto questo è largamente praticato. Anche i privati però possono avere un ruolo se per esempio verranno introdotte norme chiare sulla defiscalizzazione degli investimenti in campo culturale: così come sarebbe opportuno capire che finanziare con cifre anche modeste un gruppo di giovani che vuole fare e ha i titoli per farlo, è più conveniente a lungo termine, che spendere cifre ingenti per una solo grande evento prestigioso. Alcune iniziative più spontanee tuttavia, sono altrettanto apprezzabili: per esempio la diffusione di concerti e spettacoli che si tengono in spazi domestici.
Infine, il ruolo degli artisti che non possono sempre accontentarsi della cosiddetta visibilità. Il principio che l'artista come qualunque altro lavoratore della cultura debba essere pagato, va difeso anche da loro, da un lato; dall'altro, diventare imprenditori di se stessi, o meglio autonomi gestori della propria creatività, è altrettanto necessario.



venerdì 25 agosto 2017

Il Minotauro e la scimmia / Pablo Picasso e il teatro

Picasso
(1972)

Il Minotauro e la scimmia

Pablo Picasso e il teatro

2 MARZO 2014, 

Questa pièce teatrale è stata scritta da Franco Romanò, scrittore e critico letterario e poeta. L’opera si occupa del legame tra l’uomo Picasso e la sua pittura, e ripercorre alcuni momenti cruciali della sua biografia, a cominciare dalla nascita fino ad esplorare l’ossessiva presenza della morte che accompagna tutta la sua esistenza. Mette in luce il rapporto violento, sofferto e distorto che il pittore ha con le forme e con i corpi femminili, capace di creare con la stessa forza con cui distrugge. L'autoritratto dipinto tre giorni prima della morte diviene nel testo teatrale la drammatica sintesi della sua vita e della sua arte. (Patrizia Boi)
Il Minotauro e la scimmia

Buio, un uomo è rinchiuso dentro una gabbia: il pubblico vede solo le sue mani e le sue braccia che escono dalla gabbia, tutto il resto del suo corpo non lo si vede quasi, la gabbia non è proprio del tutto schermata ma impedisce comunque di vederne il volto. Davanti alla gabbia c'è un tavolo. La scena si illumina: siamo nell'atelier di un pittore. L'uomo maneggia i colori, sposta cornici che sono sul tavolo. Sul muro di fronte alla gabbia, ci sono dei quadri ricoperti da un telo, altri sono distesi sul tavolo. In sala, visibile dal pubblico, c'è una giovane donna che svolge le funzioni di aiutante. Mentre continua a lavorare al banco l'uomo in gabbia comincia a parlare.
Dal labirinto non si esce… Ho sezionato e scomposto ogni tipo di oggetto per cercarne la forma e ho trovato l'infinità delle forme, la loro natura mutante. Il brutto, mi aggrediva da ogni lato, il grigio, la ripetizione: era questa la pittura quando nacqui, una grigia rappresentazione di volti e paesaggi inanimati... Mio padre lo rifiutai subito, non potevo mettere il nome di un altro pittore sui miei quadri e poi fu Maria Picasso y Lopez, di lontane origini liguri, a mettermi la matita nelle mani. Poi venne lo studio, la monotonia, il vuoto… lo stampo, il calco su cui ci facevano passare ore e ore in accademia… la sezione aurea, le proporzioni. Imparai quasi annoiandomi, ripetevo tutto quello che mi mettevano davanti, facevo copie di ogni cosa... poi mi stancai anche di quello.
Smette di parlare e si morde nervosamente le unghie. Da questo momento i suoi gesti si ripetono con monotonia: quando tace si morde le unghie, mentre quando parla si torce le mani.
Fossi stato un compositore... la materia avrei potuto soltanto immaginarla e invece... invece no, la materia ti perseguita sempre, il quadro, anche quando è finito continua a guardarti, è uno specchio che ti insegue anche nel sonno. Per questo non ne potevo più dell'accademia. Casa c'è dietro quello che vedi... questo cominciai a domandarmi: ero giovane allora, lo sguardo perso nel vuoto, come quello di un ragazzo qualunque... mi vedevo così almeno.
Smette di parlare, mentre la giovane donna scopre il suo autoritratto da ragazzo poco più che adolescente; poi ne scopre subito un secondo. La riproduzione di una qualsiasi fra le opere del cubismo analitico, purché ci sia la chitarra.
Cominciai a esplorare le forme, lo vedete qui (l'uomo in gabbia tende le mani nella direzione dei quadri appena scoperti.) Non mi bastava l'oggetto che mi veniva incontro, mentre io lo guardavo lui era anche il suo lato nascosto, la sua anima interiore. La musica che esce da una chitarra, per esempio, dove si trova quando lo strumento è gettato lì su un tavolo come se fosse una natura morta. No, deve esserci la musica anche dentro la chitarra e non solo nelle dita di chi suona e allora, ecco... iniziai a scomporle le forme; poi le rimontai di nuovo, secondo la mia voglia, come un dio demente che si diverte a ricostruire il mondo a proprio piacimento e lo fa ogni volta diverso. Ricavai dall'informe quanti più oggetti possibili, non mi stancavo mai… mi svuotavo in essi per continuare a esistere come artista, così come mi svuotavo dentro i corpi femminili per ritornare a esistere come uomo…
La giovane donna: Sono Ol’ga Chochlova, lo sposai nel 18. Pensate che era talmente succube di sua madre che mi dipinse con la mantilla per farle credere che fossi una ragazza spagnola: ma io sono russa.
Picasso: Pensavo di dipingere ciò che avevo scoperto e invece usciva dalla mia mano lo sgomento per quello che mi mancava. Avevo distrutto un ordine, ma era come perdermi in un labirinto… Non vi erano limiti e non capivo allora, dico da giovane, quando l'entusiasmo e anche un po' d'incoscienza mi spingeva incontro alle cose con la baldanza di un hidalgo...
Tace di nuovo, si torce le mani, scuote la testa poi riprende a voce più bassa, cavernosa.
E poi la morte... Io la incontrai subito la morte, prima ancora di nascere! Fui un caso clinico per la medicina. Sì, uscii dal corpo di mia madre, come tutti, ma in silenzio, amorfo... urlai dopo tre minuti, così mi raccontò Maria; nessun medico seppe spiegarla la mia nascita, nessuna medicina, nessun dio. Quello fu il mio primo incontro con lei, la morte. Me la scordavo soltanto quando mi illudevo di aver trovato una forma nuova, ma era solo un istante di pace perché subito me la ritrovavo davanti… poi, Conquita... replicò in peggio la mia stessa nascita. Conquita, Conchita, sorellina mia... Si ammalò di una febbre maligna e io pregai per lei quello che un artista non dovrebbe mai pregare: fammi, o dio, rinunciare alla mia arte pur di salvarla… ma non bastò. Lei morì fra un ritratto e l'altro che le avevo dipinto per farla felice e allora io la odiai perché mi sentii tradito, odiai chi l'aveva generata, odiai quei ventri femminili da cui esce soltanto una sanguinante illusione di vita; odiai dio e scelsi il demone che era in me e aveva invocato con la stessa forza con cui avevo pregato perché lei vivesse, che lei invece morisse, perché solo così avrei salvato la mia arte. Da quel momento non ebbi che uno scopo: riempire la morte di oggetti per impedirle di muoversi... dovevo dare una forma anche a lei, la morte e allora mi gettavo su tutto ciò che trovavo con furia. Dove sei dentro questo corpo, dove sei, la cercavo ovunque.
Mentre continua a parlare la donna s'avvicina di nuovo alla parete.
Per fortuna mi rivolsi alle cose, i gatti me ne saranno stati grati: smisi di ucciderli come facevo invece da ragazzo… Mi infilai nel labirinto e andai fino al suo fondo e lì trovai uno specchio e in esso vidi riflesso il Minotauro, la bestia assoluta, assoluta perché ci assomiglia, è un po' umano no, il Minotauro? Se ne sta infondo, là nell'angolo più buio perché nessuno vuole sapere di averlo il Minotauro nascosto da qualche parte!
La donna copre il Minotauro.
Anch'io come lui (accenna al quadro) mi muovevo dentro una prigione che aveva due porte: da una entrava la morte, dall'altra il vuoto. Mi sovrastavano entrambe e piegavano le mie mani inchiodandole al foglio e allora inventai le forme che sfuggono dai quadri, ma loro erano sempre lì a torcere la mia mano, i miei polsi, da cui ne uscivano forme in continuazione, come il fuoco dalla bocca di un drago…
Alza la testa puntando gli occhi nel vuoto, ma il pubblico deve cogliere solo il movimento del capo che si eleva.
Ho profanato tutto, non riuscivo a fermarmi, inghiottivo gli oggetti uno dopo l'altro ma non mi accontentavo di loro soltanto; dalle forme mi precipitavo sui colori... il periodo blu, quello rosa e gli altri.
La giovane donna scopre rapidamente altri quadri.
E poi questo corpo dannato! Se la mia anima voleva nuovi oggetti da scomporre e rifare, la mia carne voleva corpi da modellare come fossero di creta… Per questo scolpivo e consumavo i corpi femminili, ma cercavo l'anima soltanto nelle forme.
La giovane donna: Amò anche me, Dora Maar, fotografa. Gli piacevo, ma non mi illusi mai di sposarlo.
Picasso: La femmina senza volto era la mia ossessione di carne, la forma assoluta la mia ossessione d'anima. Si fossero parlate almeno una volta quelle due demonie! E invece litigavano come una coppia di amanti folli e gelosi, poi come due vecchi bavosi incapaci di accettare la fine dei loro entusiasmi… Non ne amai nessuna, nessuna! Provai soltanto una pace momentanea nel divorare Fernande, giorno dopo giorno, tenendola prigioniera nel mio studio; e vidi soltanto un breve balenio d'assoluto quando incontrai Françoise; ma in realtà la sola donna che recitai d'amare sinceramente fu… George: ah ah ah, oh, ohh ahh… eh...
La giovane donna: Fui la sua modella, Fernando Olivier, poi divenni la sua amante. Sono settanta i ritratti che dipinse per me, amava quelli non me.
Scopre un altro quadro: è un dipinto del periodo cubista fatto a quattro mani con Bracque, poi riprende a parlare:
Io, Françoise Gilot, fui la sola a lasciarlo... un uomo insopportabile...
Picasso: Io e Bracque ci siamo detti e scritti cose che per nessun altro avrei potuto pronunciare. Ecco, avevamo trovato insieme il modo di rimettere ordine, la ricerca di una nuova armonia: fu questo il cubismo sintetico, ricostruire. Sì, lo ammetto, fu il momento più sereno della mia vita, ma poi George continuò da solo, io non potevo ricostruire per un lungo periodo, l'ordine lascia troppo vuoto fra sé e la morte... La sintesi si chiude, si ritira non si espone... George finì per chiudersi nel suo mondo ordinato. Io invece volevo che tutto fosse esposto, un quadro lo è sempre e allora perché i miei nudi dovevano ossessionarmi, mentre io, il loro autore, avrei dovuto accogliere ben vestito quelli che mi venivano a guardare come se fossi un animale da baraccone? Volete mangiarmi?... Chi dipinge è sempre esposto come le sue opere, non abbiamo più un eremo in cui rifugiarci, siamo davanti a un altare al centro di una piazza... Lasciavo spalancata la porta del mio studio, non avevo alcun ritegno nel mostrami nudo al mondo. Non volevo stupire, ma fare dell'immagine tutto. Anche il mio corpo doveva dissolversi e diventare quadro, almeno agli occhi del pubblico.
La giovane donna prende una tela che si trova sul tavolo, la scopre con movimenti lenti, poi, sempre di spalle al pubblico, l'alza con i gesti lenti di un sacerdote che eleva il calice e lo mostra al pubblico: è un ritratto di Picasso nudo mentre sta lavorando nel suo studio. Dietro di lui l'uomo in gabbia s'inginocchia davanti al bancone come un sacerdote all'altare. La giovane donna deposita il quadro poi si rivolge al pubblico, il suo tono do voce è rancoroso:
Io, Marie-Thérèse Walter, fui la sola a restargli veramente vicino, gli diedi una figlia, facevo tutto quello che lui desiderava... non volle mai sposarmi... mi uccisi dopo la sua morte.
Picasso: Ora capisco che l'immagine non può che diventare pornografia. La cornice ha vinto sul quadro, il contenitore di cornici ha vinto sulla cornice, l'arbitrio della moda ha sconfitto i collezionisti… Volevamo uscire dai musei perché erano vetusti e ammuffiti e siamo finiti nella cloaca del mondo, come zimbelli che tutti si disputano; in realtà ci odiano... Forse il nostro mondo era diventato troppo complesso, ci spaventava trovarci in quel caos, forse volevamo cose semplici come quelle maschere africane che mi hanno tormentato per tutta la vita… così essenziali, scarne, dalle forme elementari, ma questo coraggio ci mancò.
Mentre dice questo, alcune maschere africane vengono fatte calare dall'altro del palco e vengono tenute sospese e oscillanti sopra il tavolo da lavoro con un movimento di fili.
La sovrabbondanza è diventata eccesso, tutto diventa eccesso, e che altro feci io stesso, se non questo? Distruggevo e rifacevo a mio arbitrio corpi ed oggetti. Da ogni forma ne ricavavo altre, facendo leva su una piccola causa ne moltiplicavo gli effetti: sì ero riuscito a riempire il vuoto, ma io chi ero?
Alla fine della battuta apre violentemente la gabbia e si mostra al pubblico indossando una maschera che riproduce il suo ultimo autoritratto, dipinto tre giorni prima di morire: un teschio di scimmia, ma con i suoi occhi.