sabato 30 marzo 2019

Francesca Woodman & Birgit Jürgensse



Francesca Woodman & Birgit Jürgenssen

26 giu — 20 set 2015 presso la Merano Arte a Merano, Italia

22 GIUGNO 2015

Dal 27 giugno al 20 settembre 2015, Merano Arte presenta una doppia personale dedicata a Francesca Woodman (1958–1981) e a Birgit Jürgenssen (1949-2003), due tra le più importanti esponenti dell'arte contemporanea. La collaborazione con Collezione Verbund è la seconda dopo la mostra personale dedicata all'opera giovanile dell'artista Cindy Sherman.
In collaborazione con la prestigiosa Collezione Verbund di Vienna e a cura di Gabriele Schor, le due mostre confermano la vocazione di Merano Arte quale centro espositivo attivo sul fronte della valorizzazione della fotografia del Novecento. Dopo le rassegne di maestri internazionali quali Man Ray, Boris Mikhailov, Urs Lüthi, Eliott Erwitt, Ugo Mulas e Cindy Sherman, lo spazio meranese accoglie l'opera di due grandi artiste venute a mancare repentinamente, a soli 22 anni nel caso della Woodman, a 54 anni in quello della Jürgenssen.
Francesca Woodman, Untitled, Providence, Rhode Island, 19761999 SW-Silbergelatineabzug auf Barytpapier, Black-and-white gelatin silver print on barite paper

I loro lavori, oltre che a livello estetico e concettuale, dialogano felicemente anche in senso storico, in quanto rappresentano due degli esempi più alti del "femminismo poetico-performativo" degli anni Settanta.
Francesca Woodman, Untitled, Providence, Rhode Island, 19761999 SW-Silbergelatineabzug auf Barytpapier, Black-and-white gelatin silver print on barite paper 

Nonostante Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen non si siano mai incontrate, numerosi sono i parallelismi possibili tra le loro opere: la messa in scena del soggetto, la fragilità dell'esistenza umana e soprattutto il confronto critico con la tematica del corpo femminile nell'espressione artistica.
Le fotografie performative realizzate dalle due artiste sono state scattate nella sfera protetta dell'atelier, solitamente utilizzando l'autoscatto. Entrambe si sono avvalse di pratiche di matrice surrealista per emancipare il loro linguaggio espressivo e hanno utilizzato il corpo come strumento formale per interrogare e mettere in discussione il proprio essere e la propria identità, ma anche per delineare una nuova immagine della donna. Il corpo, infatti, è concepito tutt'altro che come ‘natura’ o ‘oggetto sessuale’, è ‘opera d'arte’ in sé.
Birgit Jürgenssen, Ohne Titel (Selbst mit Fellchen), 1974, 1977-1978 Cibachrom

Mosse da un'urgenza espressiva che le ha spinte a sperimentare mettendosi in gioco e ritraendosi in prima persona, spesso nude, altre volte travestite, le due artiste hanno interrogato i tratti più reconditi della psiche umana, tentando di cogliere non una testimonianza "esterna", quanto uno stato d'animo complesso e tutto interiore, dalla forza e delicatezza tipicamente femminili.
Se in passato i soggetti delle fotografie di Francesca Woodman sono stati spesso interpretati quale preludio estetico del suo suicidio, i recenti studi realizzati dalla Collezione Verbund, iscrivono la sua ricerca nella tradizione del tableau vivant.
La rassegna a Merano Arte proporrà 75 fotografie, in bianco e nero, di cui 20 esemplari vintage, mai esposti in Italia, accompagnate da alcune rare diapositive a colori e un video, che approfondiranno la poesia e l'ambito metaforico che caratterizza il singolare linguaggio dell’artista americana.
Francesca Woodman ha realizzato le sue opere nel corso di un periodo creativo di soli 9 anni, dal 1973 al 1981, riuscendo a esplorare varie tematiche che hanno contraddistinto il corso della storia dell'arte contemporanea: la soggettività femminile, la fotografia concettuale, la performance e la scoperta del corpo come espressione artistica.
Francesca Woodman, Untitled, Rome, Italy, 1977–19782006 Schwarz-Weiß-Silbergelatineabzug auf Barytpapier Black-and-white gelatin silver print on barite paper

Francesca Woodman ha utilizzato il corpo come strumento e contemporaneamente come oggetto, inserendolo in una messa in scena attentamente studiata, per raccontare suggestioni sospese, accadimenti dai tratti surreali.
Birgit Jürgenssen, una delle più importanti esponenti dell’avanguardia femminista degli anni settanta, ha lasciato un corpus davvero eterogeneo e complesso.
La mostra presenta 44 opere, tra fotografie in bianco e nero e a colori, polaroid, rayogrammi, cianotipi, disegni, sculture (i celebri ‘oggetti scarpa’) e lavori realizzati con la stoffa, fornendo una panoramica ampia e sperimentale della sua ricerca.
Il lavoro dell’artista austriaca ruota attorno al corpo femminile che appare nelle sue metamorfosi, ora mascherato, ora frammentato, ora antropomorfo, e riflette con ironia e spirito surrealista sugli stereotipi sessuali e di genere, sui pregiudizi e malintesi della vita quotidiana. Negli anni Settanta la Jürgenssen ha affrontato anche tematiche di matrice femminista e di critica sociale, confrontandosi in special modo con uno slogan tipico di quegli anni quale “il personale è politico”.

Francesca Woodman, Untitled, Boulder, Colorado, 1972–19752005 Schwarz-Weiß-Silbergelatineabzug auf Barytpapier Black-and-white gelatin silver print on barite paper

Francesca Woodman (1958-1981) cresce tra gli Stati Uniti e l'Italia. Nel corso dei suoi studi alla Island School of Design di Providence (1975 - 1978) realizza numerose fotografie, che sviluppa da sé in camera oscura. Tra il 1977 e il 1978 trascorre un periodo a Roma, dove tiene la sua prima personale europea alla Libreria Maldoror, un ambiente vicino al surrealismo. Nel 1979 si trasferisce a New York, dove scatta le prime fotografie a colori. Nel gennaio del 1981, all'età di 22 anni Francesca Woodman si toglie la vita.
La sua opera è recentemente giunta all'attenzione del pubblico internazionale grazie alle retrospettive presentate al San Francisco Museum of Modern Art e al Guggenheim Museum di New York. Nel 2014 è stata presentata la prima grande monografia in lingua tedesca, realizzata dalla Collezione Verbund di Vienna.
Birgit Jürgenssen, Ich möchte hier raus!, 1976 SW-Fotografie

Birgit Jürgenssen (1949-2003) è una delle più importanti rappresentanti dell'avanguardia femminista internazionale. A Parigi, all'età di 17 anni, entra in contatto con la letteratura francese e la corrente artistica del Surrealismo. Da quel momento la sua opera è influenzata dalla psicoanalisi di Freud, dall'etnologia e dalla critica sociale. Negli anni Settanta l'artista realizza la famosa opera Shuhwerk (Opera scarpa) e numerose fotografie e disegni che affrontano il ruolo delle donne nella società. Dal 1982 al 2003, anno della sua morte, insegna fotografia all'Accademia di Belle Arti di Vienna. L'opera della Jürgenssen è tornata all'attenzione del pubblico internazionale grazie all'importante pubblicazione realizzata dalla Collezione Verbund. Da allora i suoi lavori rientrano in importanti collezioni quali quelle del MoMa di New York, della Tate Modern di Londra, del Centre Pompidou di Parigi e del Belvedere di Vienna.

venerdì 29 marzo 2019

Beppe Severgnini / Le tante parole sul velo islamico



Le tante parole 
sul velo islamico

La Corte di Giustizia di Lussemburgo ha deciso che un’azienda privata può imporre ai dipendenti in contatto col pubblico di evitare simboli religiosi, politici o filosofici. Tra questi, il velo islamico. Ma la decisione apre più problemi di quanti ne risolva

di Beppe Severgnini
15 marzo 2017 (modifica il 16 marzo 2017 | 17:20)

Ringraziamo la Corte di Giustizia di Lussemburgo. Ci ha fornito l’occasione per una di quelle discussioni che, in Italia, piacciono tanto: confusa, cattiva e sostanzialmente inutile. Cos’ hanno deciso, i giudici europei? Che un’azienda privata può imporre ai dipendenti in contatto col pubblico di evitare simboli religiosi, politici o filosofici. Tra questi, il velo islamico.

Primo punto: quale? Di «veli islamici» ne esistono tre: il burqa, che copre interamente il corpo e il volto di una donna; il niqab, che le lascia liberi gli occhi; e il hijab, che le lascia scoperto il volto. È il velo che incontriamo spesso, ormai; senza sentirci turbati. Un foulard, in sostanza. Le monache, le donne sarde e le dive del cinema anni ’60 l’hanno indossato a lungo, senza destare scandalo.

In verità la sentenza — destinata a diventare un precedente di riferimento in tutta l’Unione europea — apre più problemi di quanti ne risolva. Un’azienda privata, a questo punto, potrebbe impedire al dipendente di esibire un ciondolo a forma di crocefisso, un copricapo ebraico, un simbolo buddista. I giudici, infatti, sono stati chiari: la norma non deve essere discriminatoria. Deve riguardare tutti i simboli di tutte le religioni (filosofie, dottrine politiche). È facile immaginare che il concetto verrà esteso alle aziende pubbliche e alle istituzioni. E allora — scommettiamo? — qualcuno proporrà di eliminare il Buon Natale! e il suono delle campane di Pasqua. Simboli religiosi, no?  Scivoleremmo così in una grottesca, isterica neutralità. Quella ha spinto molti americani, nauseati, a rifugiarsi nello scorrettissimo Donald Trump. La soluzione, invece, c’è. Sta nel luogo dove s’incrociano tolleranza, buon senso e tradizione.

Campane, presepi e crocefissi fanno parte della nostra storia comune europea; così la kippah, che abbiamo vergognosamente costretto a nascondere; così lo hijab, visto che la nostra società è cambiata e cambierà. Niente burqa e niente niqab, invece, neppure se una donna li scegliesse in libertà (cosa che raramente avviene); creano disagio e pongono problemi di sicurezza. Troppo semplice? No. Troppo complicata l’alternativa: credetemi.

CORRIERE DELLA SERA



giovedì 28 marzo 2019

Beppe Servergnini / Brexit, il circo che umilia Londra



Brexit, il circo che umilia Londra

In Gran Bretagna, di fronte al desolato panorama del caos sulla Brexit, non ride più nessuno, e sta emergendo un atteggiamento finora sconosciuto: l’autocommiserazione


Carolyn Fairbairn, la direttrice generale della Cbi, la Confindustria britannica, ha usato una parola nuova per definire la battaglia parlamentare intorno a Brexit: «Un circo». Ha dimenticato una cosa: al circo ci si diverte, e spesso si ride. In Gran Bretagna non ride più nessuno, e sta emergendo un atteggiamento finora sconosciuto: l’autocommiserazione. Passato lo stupore, superata la rabbia, sono rimaste la preoccupazione e la ricerca di umana comprensione. Che l’Unione Europea sembra disposta a concedere: ma solo quella. 



In questa vicenda tragicomica — banche che traslocano silenziosamente, mercato immobiliare in stallo, supermercati che accumulano scorte — mercoledì s’è infilato, tuttavia, un timido raggio di buon senso: il Parlamento ha votato, in maggioranza, contro l’ipotesi di lasciare la Ue senza un accordo (no deal). È una buona notizia: se il 29 marzo il Regno Unito uscisse bruscamente dall’Unione si fermerebbero le linee di produzione, gli ospedali avrebbero difficoltà di approvvigionamento, porti e aeroporti scivolerebbero nel caos. I Brexiteers più estremisti minimizzano e parlano di «difficoltà passeggere». È una bugia, peraltro non la prima. Un’uscita senza accordo sarebbe catastrofica. Un’umiliazione che il Regno Unito non merita. Cosa succede, a questo punto? Giovedì è previsto un altro voto parlamentare, dall’esito quasi scontato.


Il quesito stavolta sarà: la House of Commons — dopo aver bocciato (due volte) l’accordo di Theresa May e aver rifiutato il no deal — è favorevole a chiedere all’Unione Europea una proroga oltre il 29 marzo? La risposta della Ue, si presume, sarà positiva. A quel punto si aprono, teoricamente, sei possibilità: (1) un’uscita senza accordo, sempre possibile (2) un terzo voto sull’accordo Uk/Ue già bocciato due volte dal Parlamento (3) nuovi negoziati con l’Unione Europea (4) un nuovo referendum (5) nuove elezioni (6) niente Brexit, il Regno Unito resta nell’Unione Europea. 
Se tutto questo vi appare orrendamente complicato, non preoccupatevi: lo è. Ma è in questo ginepraio di ipotesi che si dibatte la nazione, oggi. E la complessità, unita al senso di impotenza, sta irritando sempre di più l’opinione pubblica. Il timore di molti è che un nuovo referendum sarebbe preceduto da una campagna elettorale feroce, forse addirittura violenta. Ed eventuali nuove elezioni finirebbero per concentrarsi su una cosa sola: l’uscita dall’Unione Europea, tralasciando tutto il resto. Eppure la soluzione elettorale appare, a questo punto, la più logica. 



La testardaggine shakesperiana di Theresa May è ammirevole, per certi versi: vederla lottare con la raucedine per ripetere cose dette mille volte, mercoledì, suscitava un misto di tenerezza e terrore. Ma stiamo parlando di un capo di governo che, sulla questione più importante del secolo, non dispone di una maggioranza. Le dimissioni sembrano, più che dovute, logiche. Servirebbero anche per costringere il partito laburista di Jeremy Corbyn a uscire dall’equivoco e fornire le risposte chiare che tutti aspettano: vuole restare nell’Unione Europea oppure no? Ma non arriveranno: né le risposte, né le elezioni. In compenso, il circo va avanti. I saltimbanchi sembrano esausti, però, e i pagliacci sono scomparsi: restano i domatori e le bestie feroci, e il pubblico di tutta Europa che guarda, allibito.







mercoledì 27 marzo 2019

Beppe Severginini / Parigi, le trottinettes e il futuro della città

CORRIERE DELLA SERA






martedì 26 marzo 2019

Beppe Severginini / La lezione della piazza




La lezione della piazza 
(e di «Green Book»)

Si può essere preoccupati per l’immigrazione (malgestita) e non essere razzisti

di Beppe Severgnini

2 marzo 2019 (modifica il 2 marzo 2019 | 20:39)


Non ho deciso di scrivere questa rubrica ieri, dopo aver saputo del grande raduno «People» a Milano. L’ho deciso giovedì, dopo aver visto un bel film, «Green Book». Stesso tema: il razzismo. La piazza e il cinema possono fare molto; per esempio, svegliarci dall’incantesimo secondo cui l’Italia sta diventando un po’ razzista, e va bene così. Be’, non va bene per niente. E, soprattutto, non è vero. Non ancora. Si può essere preoccupati per l’immigrazione incontrollata (o malgestita) e non essere razzisti: vi assicuro.


Il film, dunque. È la storia di una bizzarra amicizia on the road tra un buttafuori italo-americano del Bronx (Tony «Lip» Vallelonga, interpretato da Viggo Mortensen) e un virtuoso, coltissimo pianista afroamericano (Don Shirley, Mahershala Ali), nell’America dei primi anni Sessanta (guardatela in inglese coi sottotitoli, gli accenti sono formidabili!). Un viaggio negli Stati del Sud per una serie di concerti, ispirato a una storia vera. La gente ai tempi trovava normale applaudire un celebre concertista e poi chiedergli di usare la latrina all’aperto perché aveva la pelle scura. Finché qualcuno non gli ha detto che non era normale: era mostruoso.




L’America da allora è cambiata, e speriamo non torni indietro (alcuni rigurgiti preoccupano, un presidente come Trump non aiuta). L’Italia, invece, non deve cambiare: resti quello che è, una nazione accogliente e tollerante. Non è debolezza, come qualche carciofo da talk-show vuole farci credere; è una dimostrazione di forza e lungimiranza, invece.


Perché «Green Book» commuove e funziona? Perché prova, in maniera spettacolare e divertente, una cosa che sappiamo tutti, ma tendiamo a dimenticare: i razzisti sono, prima di tutto, ignoranti spaventati. Quando due esseri umani si trovano a condividere un pezzo di strada o di vita — stessa cosa — scoprono che non è così difficile capirsi, e migliorarsi a vicenda. Perché c’è sempre da migliorare. Non ci sono neri e bianchi, non ci sono buoni e cattivi: ci sono uomini e donne imperfetti.


Per chiudere. Se avete letto fin qui e state pensando «Bah, questi sono discorsi da élite...», preoccupatevi: qualcuno potrebbe farvi diventare ciò che non siete. Il razzismo è un veleno sottile, e qualcuno sta provando a spargerlo in giro. Va fermato.











hshhshs

lunedì 25 marzo 2019

Artico / Ultima frontiera

Carsten Egevang, Groenlandia


Artico. Ultima frontiera

Tre maestri della fotografia di reportage

15 gen — 2 apr 2017 presso la Casa dei Tre Oci a Venezia, Italia
27 NOVEMBRE 2017
La difesa di uno degli ultimi ambienti naturali non ancora sfruttati dall’uomo, il pericolo imminente del riscaldamento globale, la sensibilizzazione verso i temi della sostenibilità ambientale e del cambiamento climatico, la dialettica tra natura e civiltà.
Paolo Solari Bozzi, Groenlandia

Sono questi gli argomenti attorno cui ruota la mostra Artico. Ultima frontiera in programma dal 15 gennaio al 2 aprile 2017 alla Casa dei Tre Oci di Venezia.
L’esposizione, curata da Denis Curti, presenta 120 immagini, rigorosamente in bianco e nero, di tre maestri della fotografia di reportage, quali Paolo Solari Bozzi (Roma, 1957), Ragnar Axelsson (Kopavogur, Islanda, 1958) e Carsten Egevang (Taastrup, Danimarca, 1969).
Carsten Egevang, Groenlandia

La rassegna è un’indagine approfondita, attraverso tre angolazioni diverse, di un’ampia regione del pianeta che comprende la Groenlandia, la Siberia, l’Alaska, l’Islanda, e della vita della popolazione Inuit, di soli 150.000 individui, costretti a gestire, nella loro esistenza quotidiana, la difficoltà di un ambiente ostile.
“In queste immagini – afferma Denis Curti, direttore artistico dei Tre Oci – l’imminenza del riscaldamento globale si fa urgenza, mentre si apre un confronto doloroso in cui l'uomo e le sue opere vengono inghiottiti dall'immensa potenza della natura. Bellezza e avversità sono i concetti su cui la Casa dei Tre Oci fonda questo progetto, con una mostra che intende riportare l’attenzione sui paesaggi naturali e le tematiche ambientali dei nostri giorni”.
Paolo Solari Bozzi, Groenlandia

La lotta con le difficoltà dell’ambiente, il passaggio, lento ma inesorabile, dallo stile di vita di una cultura millenaria a quella della civilizzazione contemporanea, cui si aggiunge il drammatico scenario del cambiamento climatico, figlio del surriscaldamento ambientale, sono i punti su cui s’incentrano le esplorazioni dei tre fotografi.
Per questo appuntamento alla Casa dei Tre Oci, Paolo Solari Bozzi presenta il progetto inedito, frutto del suo viaggio, tra febbraio e aprile di quest’anno, sulla costa orientale della Groenlandia, nel quale ha visitato numerosi villaggi, riportando la quotidianità di una popolazione che ha scelto di vivere in un ambiente difficile. Il reportage di Paolo Solari Bozzi sarà pubblicato nel volume, in edizione inglese, Greenland Into White (Electa Mondadori).

Carsten Egevang, Groenlandia 

Proprio le popolazioni Inuit sono al centro della ricerca di Ragnar Axelsson che, fin dai primi anni ottanta, ha viaggiato nelle ultime propaggini del mondo abitato per documentare e condividere le vite dei cacciatori nell’estremo nord del Canada e della Groenlandia, degli agricoltori e dei pescatori della regione dell’Atlantico del nord e degli indigeni della Scandinavia del nord e della Siberia.
Ragnar Axelsson, Groenlandia

Ragnar Axelsson racconta di villaggi ormai scomparsi, di intere comunità ridotte a due soli anziani che resistono in una grande casa scaldando una sola stanza; racconta di mestieri che nessuno fa più e di uomini che lottano per la sopravvivenza quotidiana. Ma dalle stampe di Axelsson emerge soprattutto l’umanità che ha incontrato sulle lunghe piste delle regioni artiche.
Dal canto suo, Carsten Egevang, partendo da una formazione accademica in biologia, che lo ha portato dal 2002 al 2008 a vivere in Groenlandia e a studiare la fauna ovipara della regione artica, ha saputo documentare con la sua macchina fotografica la natura selvaggia e la tradizionale vita delle popolazioni Inuit.

Ragnar Axelsson, Groenlandia 

Accanto alle potenti immagini di una natura infranta e al contempo affascinante, tre documentari arricchiscono il racconto delle regioni del Nord e delle popolazioni Inuit: SILA and the Gatekeepers of the Arctic, realizzato dalla regista e fotografa svizzera Corina Gama nel 2015; Chasing Ice, diretto nel 2012 dal giovane film-maker americano, Jeff Orlowski; Ice Hunters, prodotto nel 2015 da un team ceco-statunitense.


domenica 24 marzo 2019

Pawel Pawlikowski / Cold War / L'amore è l'amore



Pawel Pawlikowski
COLD WAR

"L'AMORE È L'AMORE"


https://www.youtube.com/watch?v=Oe_cKZsPo1w


COLD WAR è il nuovo film del regista Premio Oscar Pawel Pawlikowski (Ida), vincitore della Palma D’Oro per la miglior regia al Festival di Cannes. A Natale al cinema.


Cold War è un’appassionata storia d’amore tra un uomo e una donna che si incontrano nella Polonia del dopoguerra ridotta in macerie.
Negli anni ’50, durante la Guerra Fredda, in Polonia, a Berlino, in Yugoslavia e a Parigi, la coppia si separa più volte per ragioni politiche, per difetti caratteriali o solo per sfortunate coincidenze: una storia d’amore impossibile in un’epoca difficile.

Provenendo da ambienti diversi e avendo temperamenti opposti, il loro rapporto è complicato, eppure sono fatalmente destinati ad appartenersi.