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sabato 15 luglio 2017

Gestures / Women in action

Yoko Ono & John Lennon
Bed in (1969)

Gestures
Women in action

6 feb — 10 apr 2016 presso Merano Arte a Merano

di 
Una rassegna dinamica e complessa. È quanto risulta essere la mostra Gestures- Women in action, in corso a Merano Arte fino al prossimo 10 aprile. Curata da Valerio Dehò, l'esposizione altoatesina presenta 40 opere - fotografie, video, oggetti e collage - che ripercorrono le espressioni più significative della Body Art femminile dagli anni Sessanta ad oggi. Sono lavori che esplorano il tema del corpo femminile impiegato come mezzo espressivo primario per veicolare un pensiero di protesta e sovvertimento dei valori costituiti, realizzati dalle più importanti esponenti della Body e Performance Art attive già dagli anni Sessanta e Settanta, quali Yoko Ono, Marina Abramovic, Valie Export, Yayoi Kusama, Ana Mendieta, Gina Pane, Carolee Schneemann, Charlotte Moorman, Orlan, alle esperienze più recenti di artiste quali Sophie Calle, Jeanne Dunning, Regina José Galindo, Shirin Neshat, Silvia Camporesi e Odinea Pamici.
La mostra testimonia un percorso artistico tortuoso, attraverso il quale le donne protagoniste del movimento della Body Art hanno mutato profondamente il corso dell'arte contemporanea. Uno dei punti principe è stato l'abolizione dei confini tra teatro, spettacolo, comunicazione e arte: le loro opere, infatti, hanno sviluppato un approccio che intendeva abolire la distanza tra artista e pubblico, facendo dell'arte un fondamento della comunicazione sociale, uno specchio e un laboratorio dei cambiamenti in atto. Il pubblico non era più considerato uno spettatore passivo, ma parte integrante dell'opera stessa.

Marina Abramovic
Ritratto di Platon

L'esposizione si sviluppa in senso cronologico e si apre con la grande fotografia di Marina Abramovic. A seguire una serie di immagini e video di Yoko Ono, già esponente negli anni Cinquanta del movimento Fluxus. In mostra figurano il celebre video e alcune fotografie della performance Cut piece (1965), e altre tratte dalla performance eseguita con il marito John Lennon: Bed In (1969). Ed ecco la serie di foto e video di Marina Abramovic con le sue performance estreme in cui esplora i limiti della sopportazione corporea, le potenzialità della mente e della concentrazione. Nella seconda sala troviamo la performance Blood sign (1972) dell'artista cubana Ana Mendieta, i cui lavori si caratterizzano per una singolare una ritualità legata alle antiche culture indigene e una forte radice trans-culturale, in cui il corpo si confronta con l'ambiente e gli elementi naturali.
Dialoga con quest'opera una fotografia de Azione sentimentale (1973) di Gina Pane, una delle grandi esponenti della Body Art in Italia. E dell'artista giapponese Yayoi Kusama, attiva negli USA come performer e artista dagli atteggiamenti osè , è la fotografia di una performance svoltasi nel corso dei propri happening. Il percorso espositivo prosegue con l'artista austriaca Valie Export, pseudonimo attraverso il quale ha voluto negare il cognome paterno e del marito per sostituirlo a una scritta a caratteri cubitali che rimanda alla marca di sigarette austriache Export Smart. E sempre per il suo lavoro sul corpo, sulla sessualità e sui generi, è l'americana Carolee Schneemann, con la serie fotografica che documenta la performance Ice naked skating (1972), e con un'opera che fa parte della straordinaria serie Eye Body (1963). Ancora al centro della sala, due grandi fotografie della francese Orlan, esponente di spicco del corpo estremo rendendolo materiale artistico primario e riflettendo sul tema dell’ibridazione tra natura e tecnologia.

Mon ami (1984)
Sophie Calle

Altra importante artista francese è Sophie Calle con la fotografia Mon ami (1984). Le opere dell'artista francese, dal sapore voyeuristico, esplorano il tema dell'identità e intimità femminile, interrogandosi sul confine tra esperienza pubblica e privata. E ancora di Marina Abramovic è Balkan Baroque, performance con cui ha ottenuto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997 . A fare da contrappunto all'immagine traboccante della Abramovic, è quella di Jeanne Dunning, dalla serie Long Hole (1994-96). Il lavoro dell'artista statunitense riflette sulla relazione che ognuno di noi intrattiene con la propria singolare fisicità, identità e sessualità, esplorando gli aspetti stranianti che emergono da questo confronto.
L'opera dell'iraniana Shirin Neshat si focalizza sul ruolo sociale della donna nelle società islamiche contemporanee. In mostra è una visione oscura e intima, uno still del cortometraggio realizzato dall'artista nel 2001 intitolato Pulse. Mentre con Il sale della terra (2006) la giovane fotografa italiana Silvia Camporesi crea un universo molto delicato e poetico, letto in chiave intimista. Più corporea e provocante Odinea Pamici che con Ballo per Yvonne (2005) gioca con gli stereotipi femminili, i simboli del matrimonio e della cucina come spazio consacrato alla donna dalla tradizione. A chiudere il percorso espositivo meranese sono alcune opere della performer guatemalteca Regina José Galindo. Nelle sue performance, l’artista opera con una gestualità aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici, trasformando il proprio corpo nel teatro di un conflitto permanente, in una storia infinita per un tempo indissolubile.

Enrico Gusella
Enrico Gusella, (laurea in DAMS all’Università degli Studi di Bologna) è critico e storico delle arti.
E’ cultore della materia presso il Dipartimento TeSIS dell’Università di Verona. E’ stato professore a contratto per l’insegnamento di Storia della Fotografia e delle Arti Visive all’Università Ca’ Foscari di Venezia – SSIS Veneto, e borsista per seminari di specializzazione in arte contemporanea, antropologia, estetica e semiotica all'Università "Suor Orsola Benincasa" di Napoli, all'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e al Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica dell'Università di Urbino.
Dai primi anni Novanta a oggi ha curato oltre 250 mostre tra cui: Vittorio Storaro. Un percorso di luce; Mimmo Jodice. Tempo interiore; Eugene Smith; Tina Modotti. Una vida fragil; Gianni Berengo Gardin. Copyright; Mario Giacomelli. Poesia come realtà; Wim Wenders. Il mondo delle immagini; Andrej Tarkovskij.Luce istantanea; Giovanni Umicini. Per Padova; Giovanni Chiaramonte. Nascosto in prospettiva; Mario Schifano. Gioie istantanee; Roman Signer. Fotografie di viaggio; Passaggi a Nord Est; Buby Durini for Joseph Beuys; Albert Steiner. Del paesaggio sublime; Dieci fotografi d’oro; Douglas Kirkland. Portraits; Ricordando Krzysztof Kieslowski. Fotografie di Piotr Jaxa; Glocal 3; Forme del paesaggio contemporaneo.
Ideatore di convegni e seminari sulla fotografia e le arti visive contemporanee quali Il Fotogiornalismo. Rapporti tra agenzie, fotografi e photoeditor; Dell'imperfezione. Dieci incontri sull'estetica contemporanea; La camera oscura. Storia ed estetica della fotografia; Del senso; La realtà fotografica in Italia. Istituzioni, fondazioni e gallerie a confronto; Wim Wenders. L’occhio in movimento; Il paesaggio nelle arti.Ideatore di rassegne di scultura all’aperto, Materie. I luoghi della forma, e dell’arte contemporanea emergente - Altre presenze del contemporaneo.
Studioso che in ambito scientifico si occupa di semiotiche delle arti, e delle poetiche del paesaggio e dell’architettura. Come giornalista-pubblicista collabora per le pagine culturali di alcuni quotidiani italiani e con riviste d’arte.


mercoledì 13 maggio 2015

Ana Mendieta / Con il sangue e con il corpo



Ana Mendieta, Tree of Life, 1985
Ana Mendieta, Tree of Life, 1985

Ana Mendieta

Con il sangue e con il corpo


GIOVANNA LACEDRA

13 MAGGIO 2015
“Ho due opzioni, diventare una criminale o un’artista (…). Sto lavorando con il mio sangue e il mio corpo”.
Con il mio sangue e il mio corpo. Con la mia carne. Con la verità. Essenzialmente, Ana Mendieta ha lavorato con tutta stessa. Ha attinto dalla sua storia personale come da quella del suo paese. Ha rimesso in scena i propri traumi come quelli della società in cui ha vissuto. Ha scavato alla ricerca delle proprie radici, vestendosi delle radici della sua terra. Ha attraversato il sogno, l’incubo, l’amore, il mito, la violenza. Il tempo. Il labirintico disegno dell’Universo.
Ana Mendieta, Chicken Piece 4
Ana Mendieta, Chicken Piece 4


L’avevano soprannominata “piccola palla di fuoco”. Lei, minuta di statura ma decisamente vulcanica. Trasudante un’energia vitale fuori dal comune. “La mia arte è cresciuta nella convinzione di un’energia universale che scorre attraverso ogni elemento, dall’insetto all’uomo, dall’uomo al fantasma, dal fantasma alla pianta, dalla pianta alla galassia”. Tredici anni di irrefrenabile attività artistica svolta prevalentemente all’aperto, in mimetica compenetrazione con Madre Natura. Tredici anni di irrefrenabile attività artistica in cui il corpo – e la sua traccia – sono stati sia strumento che linguaggio.


Nata a l’Avana nel 1948, Ana fu brutalmente sradicata dalla sua terra all’età di soli dodici anni. Suo padre, convinto anti-castrista, aderì all’operazione Peter Pan avente come obiettivo quello di salvare i bambini cubani dalla Rivoluzione. E così, per proteggere le proprie figlie, scelse di allontanarle. Catapultata insieme alla sorella nella stravolgente realtà newyorkese, Ana passò da famiglie adottive a orfanotrofi, fronteggiando momenti di grande solitudine e sconforto che la segnarono profondamente. Il trauma di quello sradicamento riecheggiò in lei sino alla fine dei suoi giorni, ma fu anche l’inesauribile fonte cui attingere durante la sua ricerca artistica. Negli anni riuscì a compiere un percorso di studi presso l'Iowa State University, conseguendo un Master of Fine Art in Itermedia. Poi, nel 1972 ci fu la svolta: la sua ricerca passò repentinamente dalla pittura – che era stato sino a quel momento il suo mezzo espressivo – al corpo. "Nel 1972 realizzai che i miei dipinti non erano abbastanza reali per quello che io volevo comunicare…”.

Ana Mendieta, Earth
Ana Mendieta, Earth
Da quella consapevolezza scaturì un’evoluzione pressoché inarrestabile. Un’impennata che soltanto la morte avrebbe potuto interrompere. Tra la ricerca delle proprie radici e la denuncia sociale, tra la rivendicazione etnica e le tematiche di genere. Uno dei suoi primi lavori, datato proprio 1972, è Glass on Body Imprints. Qui Ana tentò per la prima volta di sfidare i limiti del linguaggio corporeo e gestuale, e lo fece schiacciando se stessa contro una lastra di vetro che deformava grottescamente la percezione della sua figura. Nel 1973 realizzò forse la performance più violenta della sua breve carriera: Rape Performance. Nella fattispecie, inscenò un vero e proprio stupro. Riflettendo su un fatto di cronaca realmente accaduto e relativo allo stupro e all’uccisione di una studentessa all’interno del campus universitario, Ana decise immediatamente di “reagire” con un’azione performativa di forte impatto: aprì casa al pubblico per una finta festa, e quando la gente arrivò la trovò seminuda e riversa sul tavolo da pranzo, con gli slip calati e insanguinati, come se fosse stata abusata pochi istanti prima e abbandonata lì come una carcassa. L’azione, ovviamente, turbò gli spettatori presenti (tra cui vi erano studenti e docenti dell’università) e fu immortalata in una sequenza di fotografie.
Nelle performance successive è ancora il sangue a spiccare. In Sweating Blood Ana lascia che il liquido le coli sulla fronte, rigandola. In Blood Writing lo utilizza come inchiostro per scrivere. In People Looking at Blood, l’artista sporca un marciapiede gocciolandovi il proprio sangue e osservando l’eterogeneità di reazioni dei passanti. La Natura, però, divenne presto il luogo principale della sua ricerca. Un vero e proprio laboratorio a cielo aperto.
Gli spunti da cui nascevano i suoi progetti di Land Art o Performing Art erano sovente di matrice arcaica: Ana subiva il fascino delle culture primitive di stampo matriarcale. Muovendo da queste suggestioni, il suo lavoro divenne sempre più “nudo” e diretto. A partire dal 1973 gli interventi nella natura – ampiamente documentati da video e fotografie –, divennero vere e proprie performance installazioni. Il suo corpo inscenava e realizzava la compenetrazione. Si può dire che Ana riuscisse a fondersi col paesaggio, divenendo staticamente parte di esso. L’inserimento del proprio corpo nella natura, spesso vestito di fogliame o di fango, fu un tratto estremamente distintivo della sua proposta artistica. Ana tentava di rendersi concretamente parte del contesto. Cercava di fondersi con i suoi elementi. Cercava di sentirsi un suo elemento, mediante la mimesi.
L’identità femminile e la sua scarsa e scomoda presenza nel mondo dell’arte è stata una delle sue ossessioni, tanto da portarla negli anni a lavorare fortemente sul concetto di presenza-assenza del corpo come dell’identità. Le celebri Siluetas, avviate a partire dal 1974, nacquero proprio da questa ossessione: la donna che in sé è già madre, si mescola, si ricongiunge, si lascia incorporare dalla Grande Madre. In un primo momento fu il suo corpo ad essere Silueta mimetizzata con la natura: la Mendieta si coprì infatti di foglie, arbusti, fango, terra, sangue e acqua, tramutandosi in frammento geografico, restando immobile per ore nella stessa posa e nello stesso luogo. “Credo nell’acqua, nell’aria e nella terra. Sono tutte divinità”.
Ana Mendieta, Siluetas
Ana Mendieta, Siluetas
La serie delle Siluetas rivela questa urgenza di ritornare ad avere una radice, un’origine, una madre, una terra. Lo sradicamento l’aveva resa orfana di troppe cose. Ma non del proprio corpo. Non della capacità di restare, persino nell’assenza. E così, agli albori degli anni Ottanta Ana fece spazio a una nuova idea: realizzò le prime Esculturas Rupestres, sagome scavate nella materia viva e tenera delle rocce del Parco Jaruco, in una zona periferica dell’Avana. Qui il vuoto dell’assenza venne letteralmente inglobato dalla Madre Terra. “Mi sono immersa negli elementi stessi che mi generarono, utilizzando la terra come tela e la mia anima come strumento”.
Nel 1983 la Mendieta venne in Italia. Dopo aver vinto una borsa di studio recò a Roma, presso la sede dell’American Academy, e per la prima volta ebbe uno studio tutto suo. Fino a quel momento il suo laboratorio era stata la natura. Ma l’arte italiana – e in particolar modo la statuaria classica e rinascimentale – finì per sedurla, tanto da portarla a “fare” più che ad essere. Servendosi di tronchi di legno, sabbia e terra Ana iniziò a realizzare delle sculture. A questo proposito ricordiamo la serie Totem Grove, in cui tronchi d’albero vennero decorati con ideogrammi realizzati mediante combustione.
Queste furono le ultime sperimentazioni della Mendieta, che l’8 settembre del 1985 precipitò dal 34esimo piano di un grattacielo di New York. Una morte identica a quella scelta dalla giovanissima fotografa Francesca Woodman appena 4 anni prima e nella stessa città. Coincidenza? A noi non è dato saperlo. Quel che è risaputo è che il gesto finale fu compiuto dall’artista in seguito a uno dei più spietati litigi con Carl Andre, suo marito nonché noto scultore minimalista. e che lui fu in seguito processato e poi prosciolto per insufficienza di prove. La verità certamente esiste. Ma la prematura scomparsa di Ana continua a scavare sagome di dubbio nel silenzio.

WSI



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