venerdì 13 novembre 2015

Regina José Galindo / La poetica della violenza




Regina José Galindo


Regina José Galindo

La poetica della violenza

GIOVANNA LACEDRA
13 NOVEMBRE 2015


Non riassumerei il mio lavoro come violento: quel che cerco di fare è trovare la poetica stessa della violenza.
Nata a Città del Guatemala nel 1974, Regina José Galindo si afferma come una delle performer contemporanee più dirette e penetranti, pur nell’essenzialità del suo agire. Un agire che talvolta rasenta l’immobilismo, ma che proprio in quell’immobilismo si fa più affilato.
Sin dalla seconda metà degli anni Novanta agisce col corpo e sul corpo, in chiave polemica, politica e simbolica, trasformando se stessa in un brandello di memoria. Ciò che mira a tener vivo mediante le sue azioni è l’ingiustificabile – e mai giustiziato – dolore vissuto dal suo popolo. La violenza subita. L’irrecuperabile tutto che ha desertificato geografie interiori e non soltanto. L’atto performativo diviene allora un invito; una preghiera rivolta all’umanità. Non dimenticate, per favore. Non dimenticate i reati che ci sono stati inflitti. Non chiudete gli occhi. Guardatemi, guardateci. Io sono il mio popolo e le sue ferite. Il mio corpo è il loro corpo. Il mio sangue è il loro sangue. Io sono la violenza subita dalla mia gente. Rimessa in scena ogni volta perché voi abbiate occhi!

Regina José Galindo. Piedra

L'11 maggio 2013 il generale Rìos Montt, ex Presidente della Repubblica Golpista, è stato condannato a 80 anni di carcere per i crimini commessi contro l’umanità durante i 36 anni di guerra civile in Guatemala, e in particolar mondo per il genocidio perpetrato nei confronti della comunità Maya. Soltanto qualche settimana dopo, però, il processo e la condanna sono stati incomprensibilmente annullati. E Montt non ha scontato alcuna pena. Regina – da anni impegnata in una ricerca artistica di matrice politico-sociale in cui il corpo diviene corpo-denunciante –, si trovava nell’edificio in cui si è svolto il processo il giorno in cui questo è stato annullato, e si è sentita profondamente trafitta dalla noncuranza con cui è stato deciso di non rendere giustizia ai 200.000 morti e a tutte le altre vittime sopravvissute alla guerra civile. Dunque il suo accanimento nei riguardi di determinate tematiche si è fatto, se possibile, ancor più vigoroso.
Più che un’artista estrema – come molti prevedibilmente sostengono – Regina è un’artista autentica. Non provoca, ma mostra. Il suo corpo è diventato portatore di una ferita collettiva. Lo è diventato per mostrarla, palesarla, ricordarla al mondo intero. La performance, allora, è verità. E il corpo performante è un corpo-metafora.
Metafora non solo delle atrocità avvenute durante la guerra civile, ma anche di quelle subite dalle donne. La prevaricazione di genere è un’altra forma di violenza da lei indagata e performata. I dati, del resto, sono allarmanti: dal 2004 al 2013 ben 40.000 donne hanno subito violenza, e per le donne di età compresa tra i 16 e i 44 anni, la prima causa di morte è la violenza da parte di un uomo.

Regina José Galindo. Tierra, 2013

Proprio sull’azzeramento della dignità femminile si basa Piel, la performance realizzata in Italia nel 2001, in occasione della 49esima Biennale di Venezia. Regina si spoglia, si rade tutti i capelli e i peli del corpo e prende a camminare per le strade di Venezia. Di calle in calle, sotto un sole cocente. Come una presunta lamia medievale, come una prostituta durante la grande guerra. E sempre al 2001 risale Esperando al principe Azul, performance in cui Regina giace in posizione rigidamente supina su un letto, coperta da un lenzuolo bianco con un foro aperto all’altezza della vagina. Quel lenzuolo si chiama sabana nuncial e in passato veniva usato la prima notte di nozze, per dimostrare la verginità della sposa. Regina lo adopera per attivare una polemica sulla libertà sessuale femminile. L’atto sessuale, secondo una mentalità maschilista ancora assai pedante in Guatemala, deve di fatto essere vissuto dalla donna come mero dovere. Il godimento non è contemplato. La donna è dell’uomo. Gli occorre per soddisfare le proprie esigenze e per procreare.
Nel 2006 è la volta di Perra. Qui l’artista si mostra seduta mentre con un coltello incide il sostantivo perra, che letteralmente significa cagna, sulla sua coscia sinistra. In Guatemala insulti simili venivano realmente incisi con lame o con rasoi sui corpi rinvenuti delle donne stuprate e uccise. Mientres, ellos siguen libres, del 2007, è certamente una delle performance più forti e didascaliche che Regina abbia mai realizzato su questa tematica. Anch’essa parte da un dato storico: durante il conflitto armato in Guatemala gli aggressori stupravano le donne gravide con lo scopo di farle abortire.“Mi legarono e mi bendarono, ero incinta di tre mesi, mi immobilizzarono tenendomi ferma con i piedi. Mi rinchiusero in una stanzetta senza finestre. All’improvviso vi fecero irruzione, mi picchiarono e mi violentarono. Grondavo di sangue. E fu così che persi il mio bambino”.
Regina ha letto in Memoria del Silenzio – edizione integrale del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico delle violazioni dei Diritti Umani e Atti di violenza perpetrati sulla popolazione del Guatemala – inverosimili testimonianze di donne abusate in stato interessante. Queste confessioni l’hanno particolarmente colpita. Era incinta, all’ottavo mese di gravidanza, e ha sentito forte nel proprio ventre il dolore di queste donne. Ha deciso, quindi, di recarsi nelle cliniche dove erano avvenuti quegli aborti, per reperire i veri cordoni ombelicali di quei bambini nati morti, si è poi sdraiata nuda su una brandina, a gambe divaricate, e si è fatta legare mani e piedi con quegli stessi cordoni. Performando per protestare. Ancora. Perché il suo corpo è ormai un corpo-manifesto. Un corpo del dissenso.

Regina José Galindo. Piel, 2001

In ¿Quién piede borrar las huellas una delle sue più celebri performance datata 2003, la Galindo percorre le strade di Città del Guatemala, partendo dalla sede della Corte Costituzionale per arrivare al Palazzo Nazionale, con un catino bianco colmo di sangue umano. Si ferma, di tanto in tanto, per immergervi i piedi. E lascia, lungo il percorso, orme di violenza. Questa performance è nata come atto di protesta contro la candidatura alla presidenza di Rìos Montt. Nel 2004, invece, si addossa a un palo della piazza centrale di Città del Guatemala – luogo simbolico del potere politico e militare del paese – e si lascia gocciolare sul capo un litro intero di sangue umano, come se stesse subendo una sorta di tortura cinese. El peso de la sangre è un'accusa trasparente. In Isla del 2006 l’artista resta immobile su uno scoglio, completamente isolata e accanto a lei si forma presto una pozzanghera fatta della sua stessa urina. Nello stesso anno si fa rinchiudere per tre giorni in un ospedale psichiatrico, indossando una camicia di forza e convivendo con i cosiddetti pazzi. Questi pazzi la cercano, dialogano con lei. La trattano esattamente come una di loro. E tutto ciò la spiazza. Performando Camisa de fuerza rimane colpita dal modo in cui quelle persone, escluse dalla vita sociale, imprigionate in un tempo irreale, cercano invece di prendersi cura di lei. E la domanda che continua a porsi è: “chi è normale e chi no?”.
Nel 2010, su invito del Museo MADRE di Napoli, realizza la performance Caparazòn: nella città del cinquecento cupole Regina decide di denudarsi. Si accovaccia sul pavimento in posizione fetale e si lascia rinchiudere da una cupola trasparente e blindata. Per ore, un gruppo di persone armate di pali, ne colpisce freneticamente la superficie. Regina resta impassibile, avverte i colpi ma non si muove, fino a quando le armi degli aggressori si spezzano lasciando il vetro intatto.

Regina José Galindo. Mientres, ellos siguen libres, 2007

Chi la paragona ad Ana Mendieta non ha certamente torto. Ma affermare che la emuli è errato e riduttivo. La Galindo può essere avvicinata alla performer cubana se si esaminano alcuni lavori circostanziati a una dimensione più organica o a un contatto più diretto con la terra. Ma le differenze sostanziali permangono: la terra non è più terra-madre, ma terra-tomba, luogo di decomposizione. E lo possiamo comprendere pensando alla performance Tierra, del 2013. La domanda da cui parte l’azione è questa:“Come uccidevano le persone durante gli anni di guerra civile?”. La risposta è la seguente: un macchinario scavava la fossa e un camion portava lì i prigionieri, i quali venivano prima trafitti con una baionetta e poi gettati nella fossa. La scavatrice è quindi la protagonista di questa performance. Regina resta in piedi, nuda, immobile, mentre una pala meccanica le crea attorno una fossa, gettandole addosso la terra che solleva.
Ancora legata al tema della morte è Cortejo, azione del 2013 in cui la performer resta chiusa in un feretro, all’interno di un carro funebre che percorre le strade della sua città.“Vivere in una città a rischio significa vivere con l’idea della morte sempre accanto”. Del resto Regina ama autodefinirsi un “essere politico”. Un essere che ha deciso di fare del proprio corpo un grido, una voce di protesta, un discorso sovversivo. E della propria arte, un viaggio improntato sulla poetica della violenza. “Sono consapevole che non tutta l’arte debba essere politica, ma è una conseguenza di come l’artista vede e vive la propria vita”.
Il suo coraggioso percorso è stato premiato nel 2005 alla 51esima Biennale di Venezia. In quella occasione Regina ha vinto il Leone d’Oro come migliore artista under 35. La città di Milano le ha invece dedicato una corposa retrospettiva nel marzo 2014, presso il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea). Estoy viva era il titolo, sotto la curatela di Diego Sileo ed Eugenio Viola che già nel 2012 avevano collaborato per la realizzazione di The Abramović Method.

WSI


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