Visualizzazione post con etichetta Scrittore irlandese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Scrittore irlandese. Mostra tutti i post

lunedì 29 aprile 2019

Joyce / Il filo d’Arianna per uscire dai laberinti della mente


James Joyce
David Levine


James Joyce
Il filo d’Arianna per uscire dai labirinti della mente e del ‘900

Esiste un fil rouge che unisce le figure d’artista, di letterato, che hanno affollato gli anni prolifici tra la fine del secolo lungo e l’intero secolo breve, tra Belle Époque e pornografia tra inizi della Seconda Rivoluzione Industriale ed epigoni di quella tecnologica: anzi, una serie di fili, variopinti, arcobaleno addirittura  che si intrecciano e intricano come il dripping di una tela di Pollock, che annodano in maniera inestricabile il nascente disagio dell’uomo moderno che sta per partire alla ricerca della propria identità, ed i pronipoti di quello stesso moderno Prometeo che vanno a costituire schiere di generazioni che hanno fallito. Qui, in questo dedalo di istanze che hanno segnato ineluttabilmente ma consapevolmente generazioni di artisti dal cuore spezzato, al centro di questo nodo gordiano di disagio intellettuale ed emotivo, si colloca l’opera di James Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941), poeta, drammaturgo e romanziere irlandese ma universale, dalla produzione artistica relativamente limitata ma che ha influenzato qualsiasi individuo desideroso di raccontare storie o la propria testa, fino al momento presente.
L’opera più nota è Ulisse: tomo monumentale di ardua lettura e quasi impossibile interpretazione, se non si tiene conto del fatto che lo stile narrativo coincide con la tematica; d’altronde, se la tecnica è quella del flusso di coscienza, che rappresenta i pensieri del personaggio così come compaiono nella mente prima ancora di essere organizzati sintatticamente, è allegramente contraddittorio sul filo dell’ironia il fatto che il romanzo abbia richiesto sette anni di lavoro per vedere la luce.
L’introspezione è la cifra stilistica di Joyce, sul filo di trame esili, inesistenti o banali (e loro combinazioni): così è per Gente di Dublino (composto da 15 racconti di semplici fatti di vita quotidiana di comuni persone dublinesi), così è per Ulisse che, inizialmente, doveva essere proprio un racconto della raccolta: il romanzo non è altro che la giornata di un agente pubblicitario irlandese, diviso in 18 capitoli, ognuno caratterizzato da un colore, un’ora del giorno, un’arte particolare, sulla scorta dell’Odissea (da cui, appunto, Ulisse). Operazione intellettuale e intellettualistica, ovviamente: già qui, potremmo per libere associazioni e flusso di coscienza, iniziare paragoni più o meno arditi, ovviamente parlando di Italo Svevo e del suo rapporto con l’amico Joyce, quindi della psicanalisi, di Trieste; ma Joyce è, a nostro immodesto avviso, rapportabile per il disagio esistenziale, a poeti come Fernando Pessoa, per l’intellettualismo al Calvino delle Cosmicomiche (o di Se una notte d’inverno un viaggiatore), per il legame con la psicoanalisi e al disagio esistenziale a Pirandello, al Sartre della Nausea, Musil, Kafka.
Il cammino di Joyce inizia letterariamente con Gente di Dublino, ma trova direzione e consolidamento due anni più tardi, nel 1916 con Ritratto dell’artista da giovane: di questo, però, troviamo molti più significativo il titolo alternativo usato da diverse edizioni italiane, ossia Dedalus, metafora a sfondo autobiografico, romanzo di formazione giovanile, prodromo alla successiva opera joyciana, introduzione a Ulisse e Finnegans wake: qui Joyce presenta come protagonista uno Stephen Dedalus allievo di un collegio di gesuiti come già l’autore stesso, e come lui in perenne lotta contro le istituzioni, anticonformista e critico (sia verso la società che nei confronti della Chiesa).
Non possiamo considerare il nome del protagonista dell’opera a maggior sfondo autobiografico di Joyce come frutto del caso o di una scelta eufonica; al netto della sua biografia, vita ed opere di Joyce sono effettivamente un dedalo, una grafica di Escher, un labirinto a più dimensioni la cui rappresentazione di efficace potrebbe essere, forse, la scala di Penrose: il labirinto della mente da un lato, quello di una società costellata di ostacoli, vicoli ciechi, ripetizioni ossessivo-compulsive e alienanti.
Letto e commentato dagli scrittori, letterati, filologi, Joyce ha assunto negli anni un’importanza ed un’influenza che trascendono la letteratura: il nome coniato dal fisico Murray Gell-Mann per definire la particella elementare da lui scoperta, il quark, sembra derivi direttamente da una crasi presente in una frase del Finnegas Wake; ma ovviamente è il dibattito letterario quello che conta: qual giudizio darne, però, se pensiamo quanto le opere di Joyce divisero colleghi e critica? Joyce influenzò pesantemente Samuel Beckett, che lo aiutò nella stesura di Finnegans Wake: questo, costruito come un dedalo (sic) di citazioni, giochi di parole e una quarantina di linguaggi diversi (una sorta di grammelotconcettuale), venne giudicato orribile da Borges e Nabokov tanto quanto Ulisse era meraviglioso, definito uno sciocchezzaio indistinguibile, un’insalata di parole di pazienti ebefrenici, Finnegans è l’estremizzazione dell’Ulisse e lo specchio labirintico, come in un gigantesco luna park multitasking e multiculturale, perfettamente inserito in una società spinta a velocità sempre più elevata, e folle, verso un baratro.
Non è segno di buona salute mentale essere perfettamente adattati ad una società malata: Joyce era perfettamente adattato alla realtà filtrata attraverso i suoi occhi malati e bisognosi di interventi chirurgici; leggenda vuole che un giorno ebbe a lamentarsi con un amico di aver scritto soltanto sette parole durante la giornata, e davanti alla considerazione dell’interlocutore che si trattava di un buon risultato, considerata la lentezza con cui scriveva il romanziere, questi replicò sì, ma non so in che ordine vanno!
Labirinti, labirinti dappertutto: anche Stephen King ammette un legame con Joyce, e stiamo parlando di uno specialista di labirinti, vedi quello dell’Overlook Hotel e quello della mente di Jack dull boy Torrance; per libere associazioni, ci verrebbe in mente anche l’inferno della mente di John Goodman in Barton Fink.
Ci accontentiamo, invece, di citare il semisconosciuto Sineddoche, New York, film con il compianto Philip Seymour Hoffman: se avete dubbi sulla valenza multitasking o sull’attualità di James Joyce andatevelo a cercare e vedetelo con attenzione.





martedì 23 aprile 2019

Joyce / L'uomo di meandertale




Joyce, l'uomo di meandertale

«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensava: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo». 
Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro immaginario, una congettura di Jorge Luis Borges se non un incubo collettivo fatto dal Pen Club. Anzi, un libro del genere oggi è inverosimile più di quanto lo fosse allora, visto che il mondo, in particolare quello letterario, ha preso tutt’altre direzioni. Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. 

Di Joyce è opera estrema non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore). A spiegarcelo fu un giovane Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia». 
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell'artista da giovane, poi l'Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell'immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue». La «terrificante» (Eco) arma con cui si compie tale «sterminio del lettore» (Amis) è, dunque, il gioco di parole.

«Al principio di tutto era il pun», avrebbe poi scritto Samuel Beckett nel suo romanzo d’esordio, Murphy (1938). Come, con un certo sgomento, il lettore di Finnegans Wake apprende più volte a ogni riga, nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come sono, egli è);  «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l'inizio) è un'unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un'entità vicina a «Neanderthal», quindi all'uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria «La veglia di Finnegan», il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana. Ma non tutti i pun vengono per ridere.


Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili. Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Rodolfo Wilcock o Gianni Celati (che di recente ha pubblicato invece una traduzione pressoché cantata dell’Ulysses), oltre allo stesso Joyce, a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Schenoni (1933-2008). Nell’incredulità generale pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera. Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo originale a fronte. Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si traduce da solo», poiché è scritto in una lingua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triestino: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).  

La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino: ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo). I suoi amici devono aver tirato a indovinare per dieci anni: come arrivare, altrimenti, a un titolo tanto particolare? Il primo riferimento è alla canzone popolare «Finnegan’s Wake», il cui testo parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo «to wake» sta per «svegliarsi»). Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e che (sempre per assonanza e pun) «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese.

Come se non bastasse, c’è pure il latino, dove «negans» è participio presente di «negare» e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine. 
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini (ma anche con il principio per cui alla base del pensiero umano c’è la poesia). Il passaggio da Ulysses al Finnegans è anche un passaggio da Omero a Vico. Joyce intese non solo narrare un ciclo vitale ricorsivo, ma manifestarlo nella struttura stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma «una circolazione del quadrato», diceva: il quadratino che simboleggia il romanzo sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita. A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione, fra l’Ulysses e Finnegans Wake avviene inoltre il passaggio dal giorno alla notte.

Là c’era una giornata nella vita di un «everyman», Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker. Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo come riferimenti esterni ma si fondono fra loro grazie alle condensazioni tipiche del lavoro onirico. Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody («Ecco che arrivano tutti») e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corrispondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio... 


In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (è questa del resto la stoffa in cui sono intessuti i sogni), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, grazie a cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola. Il gioco di parole, divenuto dispositivo primario di significazione, non fa più ridere: è il sonno-sogno della ragione linguistica e genera i suoi mostri. Se l’Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese. Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consulente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d'inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte». 
Un bello scherzo, ordito da Eco che da Joyce aveva mutuato il vezzo di datare i propri libri nel giorno del proprio compleanno, aveva firmato Dedalus i pezzi parodici scritti da giovane (in epoca che non perdonava ai giovani studiosi la pubblicista ludica e non accademica) e che all’ultimo momento, licenziando le bozze del Pendolo di Foucault, decise che non poteva chiamare Stefano Belbo il suo protagonista (l’allusione al paese natale di Cesare Pavese era fuorviante). Quindi cambiò il nome da Stefano in Jacopo: Stefano, come Stephen (Dedalus); Jacopo, come James (Joyce). Per non parlare dell’altra invenzione di Eco, quella del saggio in cui analizza I Promessi Sposi come se fossero l’opera scritta da Joyce dopo il Finnegans Wake. Omaggi eruditi ma anche confidenziali: paradossi che rischiavano di essere sin troppo realistici.

Davvero Finnegans Wake è un culmine estremo della letteratura, un esperimento ai limiti della leggibilità, la rottura dovuta a una torsione eccessiva dei canoni letterari? Sì, ma solo da un certo punto di vista. È chiaro che dopo Finnegans Wake non si può più fare letteratura d’intrattenimento, se non ignorando Finnegans Wake. Eppure Joyce, scrivendo a un amico, assicurava: «I veri protagonisti del mio libro sono il tempo e il fiume e il monte. Tuttavia le componenti sono quelle che qualunque altro romanziere potrebbe usare: l'uomo e la donna, la nascita, l'infanzia, la notte, il sonno, il matrimonio, la preghiera, la morte. Non vi è nulla di paradossale in tutto questo». 
E allora, cosa c’è di tanto diverso? L’idea che la letteratura corrisponda ai suoi argomenti è abbastanza comune, al giorno d’oggi. Joyce, ecco, non la pensava così. A cambiare non sono i temi – sempre gli stessi, da che mondo è mondo – ma, con il linguaggio, la sensibilità con cui li si tratta. A spiegarlo, anche con una certa semplicità, è stato lo scrittore Michel Butor: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili». Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Dunque è un ritratto di me stesso che si costituisce quando lascio scorrere lo sguardo su quelle pagine. Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima». 

Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si sia annoverato, oltre a Eco, Marshall McLuhan. L’«Everybody» dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, ha affascinato i primi studiosi di mass-media. Nella sua osteria vedevano convergere la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Avevano torto? Finnegans Wake è stata una scommessa persa? 
Joyce ci ha dato altro un secolo per decidere se sia stata una follia. Fra vent’anni, alla scadenza, ci ripenseremo. Ma già oggi possiamo dire che c’era del mitico, in quella follia.

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul Venerdì di Repubblica del 13 gennaio 2017.





domenica 21 aprile 2019

L'odissea clinica di James Joyce

James Joyce
David Levine

L'ODISSEA CLINICA DI JAMES JOYCE


Luca Ventura, Cinzia Carloni

Unità Operativa di Anatomia ed Istologia Patologica, ASL N. 4,
Ospedale San Salvatore, Coppito - L’Aquila

Riassunto
         James Joyce, unanimemente considerato uno dei maggiori romanzieri del ventesimo secolo, fu affetto da numerose malattie. Una serie di circostanze sfavorevoli complicò progressivamente il suo stato di salute, reso già precario da sregolate abitudini di vita. Tralasciando le argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, vogliamo riassumere in questa sede le molteplici patologie organiche che lo riguardarono in vita.
Gravi disturbi oculari, causati da ricorrenti attacchi di irite complicati da glaucoma e cataratta, lo condussero quasi alla cecità, costringendolo a subire ben undici interventi chirurgici. Alimentazione sregolata, ansia ed abuso di alcool furono alla base dell’ulcera peptica che lo tormentò per anni, causandone infine la morte. A tali condizioni vanno aggiunte febbre reumatica, carie dentali e malattie veneree. Resta, invece, ancora da dimostrare l’ipotesi che Joyce sia stato affetto anche da neurolue.
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati contro tali malattie, gran parte delle quali oggi agevolmente curabili, va imputato alla complessità della condizione clinica del paziente, alla sua scarsa “compliance” ed ai limitati mezzi della medicina del tempo.

Introduzione
“A man of genius makes no mistakes, his errors are volitional and are the portals of discovery”. Questa citazione dello scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) riassume la smisurata alterigia dell’autore e l’alta opinione che egli ebbe di sé, profondamente convinto del suo genio versatile e precoce, dote comunque riconosciuta dalla moderna critica letteraria, che gli attribuisce il merito di aver rivoluzionato il romanzo contemporaneo.
figura 1
Finzione narrativa ed autobiografia s’intrecciano sapientemente nell’opera di Joyce, che ha reso l’arte lo strumento per interpretare la propria esistenza ed il mondo che lo circonda. Egli rappresenta il prototipo dell’intellettuale moderno, che antepone l’arte a qualunque interesse, interpretandola come l’essenza stessa del suo esistere. Sin da ragazzo dimostra doti di grande intelligenza, insieme ad una propensione per la vita goliardica ed esuberante; intellettualmente “curioso”, impersona bene il ribelle irriverente, amante delle compagnie allegre, indulge ai piaceri dell’alcool, abitudine che coltiva tutta la vita, senza neppure sottrarsi ad un licenzioso “whoring”. Già in gioventù cerca di affermare la sua identità di artista, rifiutando qualunque conformismo morale ed intellettuale, una ricerca che sosterrà malgrado le traversie personali e professionali con grande fermezza.
Dopo l’allontanamento da Dublino, città natale e microcosmo di ogni sua storia, ma che abbandona perché percepita come l’ambiente culturalmente gretto che soffoca i suoi fermenti intellettuali, egli vivrà gran parte della vita spostandosi da una città all’altra, sempre alla ricerca di una sistemazione, tentando di conciliare le esigenze della vita contingente con le proprie aspirazioni artistiche. Per anni vive nella precarietà cercando di sfuggire ad una grama povertà e ad una vita disordinata persino nelle abitudini alimentari.
         Particolarmente affascinante risulta il profilo nosografico di questo autore, caratterizzato da una serie di eventi che complicarono progressivamente il suo stato di salute, già reso precario da abitudini di vita sregolate. Tralasciando le pur interessanti argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, ci occuperemo in tale sede di riassumere le numerose patologie organiche che afflissero Joyce nel corso della vita.

Nosografia del personaggio
Diversi sono i quadri patologici registrati nelle numerose biografie e che vanno dalla degenza ospedaliera nell’estate del 1907, causata da una febbre reumatica, ai disturbi oculari (irite, glaucoma e cataratta) che lo condussero quasi alla cecità, fino ai ricorrenti dolori addominali dovuti ad un’ulcera peptica. Oltre alle numerose opere biografiche, che raccontano con dovizia di particolari la tumultuosa vita di Joyce, una fonte utilissima è rappresentata dalle innumerevoli lettere che lo scrittore amò indirizzare ai più svariati destinatari. In esse si ritrovano spesso chiari riferimenti al suo stato di salute.
Così racconta al fratello, in una lettera da Pola del 7 febbraio 1905, i primi problemi alla vista:
“Sono stato visitato dal dottore dell’Ospedale Navale di qui la settimana scorsa e adesso porto occhiali a pince nez attaccati a un cordoncino per leggere. Il mio numero di diottrie è molto alto…”.
E’ questa la prima menzione dei gravi disturbi oculari, che tormentarono Joyce per il resto della vita ed in seguito ai quali subì ben undici interventi chirurgici.
Al primo attacco di irite all’occhio sinistro, accusato nel 1907 mentre era in cura per febbre reumatica e sepsi dentale, ne seguiranno altri nel 1908, nel 1909 e nel 1917. Quest’ultimo fu complicato da sinechie e glaucoma e seguito dalla prima iridectomia. In una lettera all’amica e mecenate Miss Weaver scrive:
“Sono ancora in cura e piuttosto depresso perché il male all’occhio – forse per via del tempo infame – dura tanto. Nessun attacco precedente è durato così a lungo. Non ho dolori, ma le conseguenze questa volta sembrano piuttosto gravi. Spero sempre però che si possa evitare un’operazione. Sono in grado comunque di leggere e scrivere e continuo il mio libro al consueto passo di lumaca”.
A partire dall’anno seguente cominciarono ad essere coinvolti entrambi gli occhi, curati con gocce miotiche ed impacchi freddi. Un nuovo, fortissimo attacco si ebbe nel 1922; la sua editrice, Sylvia Beach, lo condusse dal proprio oftalmologo, Louis Borsch. Costui convinse Joyce che i precedenti interventi erano stati un errore, rimandando qualsiasi atto chirurgico a quando l’irite sarebbe scomparsa. Ma la sfinterectomia effettuata nel 1923 (dopo il nono attacco di irite) e l’iridectomia del 1924 non produssero alcun miglioramento. L’anno successivo fu rimossa la cataratta dall’occhio sinistro, con persistenza di membrane secondarie. Seguirono quattro capsulotomie sinistre con perdita del vitreo ed emorragie. Anche a destra, dopo i reiterati attacchi di irite, si era sviluppata cataratta.
Alla morte di Borsch, Joyce finì in cura dal Professor Alfred Vogt, il più quotato chirurgo oftalmico europeo dell’epoca. Si presentò a costui quasi cieco, reduce da otto interventi sull’occhio sinistro. Nel 1930 Vogt lo sottopose a discissione orizzontale di cataratta terziaria dell’occhio sinistro. Per i due anni successivi Joyce, assillato da nuovi gravissimi problemi familiari (la figlia manifestava i primi palesi sintomi della schizofrenia), non si presentò alle visite di controllo consigliate e sollecitate da Vogt. Solo una nuova diminuzione dell’acuità visiva lo condusse a rivolgersi nuovamente a lui. L’occhio destro presentava ormai cataratta totale con glaucoma secondario e parziale atrofia di retina e nervo ottico.
La scrupolosità di Vogt nei sistematici richiami e controlli trimestrali successivi, unita alla decisione di non intervenire più sull’occhio sinistro portò presto Joyce a recriminare sulla propria superficialità e rimpiangere di non averlo incontrato prima.
Nonostante i momenti di comprensibile sconforto, nei periodi in cui la malattia gli procurava la cecità, la sua volontà creativa aumentava, arricchendo la densità della scrittura. Continuò infatti imperterrito la sua attività di scrittore, portando avanti la grande opera Finnegans Wake, meta finale della sua rivoluzione linguistica e letteraria nel romanzo del ventesimo secolo.
Durante tutta l’età adulta Joyce soffrì di ricorrenti dolori addominali, dovuti certamente ad ulcera peptica, ma attribuiti dai medici ai “nervi”. I sintomi furono trascurati per almeno sette anni, avendo Joyce accettato la matrice psicosomatica dei suoi dolori, suggerita da medici e conoscenti. Il dolore era spesso associato al digiuno (protratto a volte fino a quarantadue ore), a preoccupazioni finanziarie, al tormento per la sorte della figlia ed all’abuso di alcool.
Nel 1933 a Parigi consultò la dottoressa Bertrand-Fontaine, la quale stabilì, dopo aver esaminato gli esami radiografici, che lo stomaco non presentava ulcere. Al momento di abbandonare Parigi, nel settembre 1939, i dolori addominali si ripresentarono, ma Joyce disattese l’indicazione del medico che lo invitava ad effettuare nuove radiografie nel timore potesse trattarsi di una neoplasia.
Poche settimane dopo l’arrivo a Zurigo, il 9 gennaio 1941, al ritorno a casa dopo cena avvertì improvvisamente dolori addominali fortissimi. Un medico del posto gli somministrò, poco giudiziosamente, della morfina per consentirgli di riposare. 
figura 2Il giorno dopo lo stesso medico, non avendo riscontrato miglioramenti, richiese una consulenza chirurgica. Nonostante i segni clinici fossero ancora camuffati dall’effetto dei narcotici, il dottor Freyz fece ricoverare Joyce d’urgenza. Seguì un rapido peggioramento del paziente, che allora presentava chiari segni di peritonite.
All’intervento chirurgico fu subito evidente un’ulcera duodenale perforata del diametro di 3 mm, posta anteriormente, che fu prontamente suturata e ricoperta con un patch omentale. Un’emorragia massiva con relativo shock si manifestò il pomeriggio seguente. Le trasfusioni non modificarono il quadro e Joyce entrò in coma, per morire durante la notte seguente, il 13 gennaio 1941, all’età di 58 anni.
L’esame autoptico confermò la peritonite, dimostrando che la sutura chirurgica era ancora intatta. In più furono notate due ulcere superficiali del duodeno ed una gran quantità di sangue coagulato nel tratto gastroenterico. La causa di morte fu quindi identificata con la peritonite da ulcera duodenale perforata, complicata da due ulcere duodenali posteriori con emorragia massiva e polmonite ipostatica.
Resta infine totalmente da dimostrare che Joyce fosse affetto da neurosifilide. Non c’è dubbio che Joyce possa aver contratto malattie veneree nei bordelli di Dublino e Parigi, ma non esistono evidenze tali da suffragare l’ipotesi che sia stato affetto dalla lue. Gli attacchi ricorrenti di uretrite in giovane età nonché la presenza di dolori reumatici ed atteggiamenti posturali tipici inducono alcuni studiosi a ritenere che Joyce possa esser stato affetto da un’artropatia sieronegativa, quale la spondilite anchilosante o la sindrome di Reiter, quest’ultima caratterizzata dall’associazione di artrite, congiuntivite ed uretrite. Se l’assenza di radiogrammi che documentino lo stato in vita delle articolazioni sacroiliache non consente di confermare l’ipotesi della spondilite anchilosante, l’eventualità di un’infezione luetica è resa poco credibile da vari elementi, il più importante dei quali è l’assenza di plasmacellule descritta all’esame istologico delle lesioni aortiche riscontrate durante l’autopsia. Tali elementi, invariabilmente confinati alla valutazione storico-biografica del personaggio, avvalorano la tesi dell’artropatia sieronegativa, ma non consentono di escludere la diagnosi di lue. Solo un accurato studio paleopatologico dei suoi resti mortali, condotto con le moderne metodologie radiologiche e biomolecolari, sarebbe in grado di fornire risultati definitivi, gettando nuova luce sul principale mistero della vita di James Joyce.


Conclusioni
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati per curare le malattie del nostro illustre paziente va imputato a tre fattori fondamentali.
  1. La complessità della sua condizione clinica che comprendeva, oltre ai problemi gastrici ed oculari, febbre reumatica, carie dentale, sciatica, artrite e malattie veneree.
  2. La scarsa “compliance” del paziente, incostante non solo nelle abitudini, ma persino nel farsi curare: fu visitato da ben trentacinque medici, dei quali però difficilmente seguiva i consigli.
  3. I mezzi ancora assai limitati che la medicina del suo tempo aveva a disposizione. La non disponibilità di steroidi e di strumentazioni chirurgiche valide contribuì enormemente a peggiorare i suoi problemi, specialmente quelli visivi.
I numerosi studi nosografici finora effettuati sul personaggio non sono riusciti a stabilire con certezza la principale condizione patologica che colpì James Joyce. Solo la riesumazione delle sue spoglie mortali ed un loro dettagliato studio paleopatologico consentirebbero di dirimere ogni dubbio sull’eventualità che Joyce sia stato affetto dalla sifilide.

Bibliografia
Andreasen N J C. James Joyce. A portrait of the artist as a schizoid. JAMA 1973; 224: 67-71.
Baron JH. Illnesses and creativity: Byron’s appetites, James Joyce’s gut, and Melba’s meals and mésalliances. BMJ 1997; 315: 1697-1703.
Carloni C. “Dear Stannie”, James Joyce e Stanislaus Joyce: 1903-1922. Tesi di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, Libera Università Maria SS. Assunta, Roma, A. A. 1996-1997.
Carter R. James Joyce (1882-1941): medical history, final illness, and death. World J Surg 1996; 20: 720-724.
Ferris K. James Joyce and the burden of disease. University Press of Kentucky, Lexington, 1995.
James Joyce, Lettere. Mondadori, Milano, 1974; p. 80.
James Joyce, Lettere. Mondadori, Milano, 1974; pp. 299-300.
Lyons JB. James Joyce and medicine. JAMA 1973; 225: 313-314.
Lyons JB. James Joyce: steps towards a diagnosis. J Hist Neurosci 2000; 9: 294-306.
Quin JD. James Joyce: seronegative arthropathy or syphilis? J Hist Med Allied Sci 1991; 46: 86-88.
Sullivan E. Ocular history of James Joyce. Surv Ophthalmol 1984; 28: 412-415.
Ventura L, Carloni C, Iacomino E, Lupi E, Romani F. Odissea clinica di un genio. Studio nosografico di James A. Joyce (1882-1941). Oftalmologia Sociale 2007; in corso di stampa
.
Didascalie
Fig. 1 – Joyce convalescente dopo uno degli interventi all’occhio sinistro.
Fig. 2 – Joyce ritratto da Jacques-Emile Blanche nel 1935.




martedì 16 aprile 2019

David Levine / Beckett




David Levine
SAMUEL BECKETT


Samuel Beckett nasce il 13 aprile 1906 in Irlanda, a Foxrock, un piccolo centro vicino a Dublino, dove trascorre un'infanzia tranquilla, non segnata da eventi particolari. Come tutti i ragazzi della sua età frequenta le scuole superiori ma ha la fortuna di accedere al Port Royal School, lo stesso istituto che ospitò qualche decennio addietro nientemeno che Oscar Wilde.


Il carattere di Samuel, però, si discosta nettamente da quello della media dei coetanei. Fin da adolescente, infatti, mostra i segni di un'interiorità esasperata, segnata da una ricerca ossessiva della solitudine, poi evidenziata così bene nel primo romanzo-capolavoro dello scrittore, l'allucinato "Murphy". Non è da credere, ad ogni modo, che Beckett sia stato un pessimo studente: tutt'altro. Inoltre, contrariamente a quanto si possa pensare di un intellettuale (sebbene in erba), è molto portato per gli sport in genere, nei quali eccelle. Si dedica quindi intensivamente alla pratica sportiva, almeno negli anni del college ma, contemporaneamente, non trascura lo studio di Dante, che approfondisce ossessivamente fino a diventarne un vero esperto (cosa assai rara in area anglosassone).
Ma il profondo malessere interiore lo scava inesorabilmente e senza pietà. E' ipersensibile e ipercritico, non solo verso gli altri, ma anche e soprattutto verso se stesso. Sono i segni riconoscibili di un disagio che lo accompagnerà per tutta la vita. Comincia ad isolarsi sempre di più, fino a condurre una vita da vero eremita, per quanto è possibile in una società moderna. Non esce, si chiude in casa e "snobba" completamente chi lo circonda. Probabilmente, si tratta di una sindrome che oggi chiameremmo, con linguaggio smaliziato e forgiato dalla psicoanalisi "depressione". Questo male corrosivo lo costringe a letto giornate intere: spesso, infatti, non riesce ad alzarsi fino a pomeriggio inoltrato, tanto si sente minacciato e vulnerabile rispetto alla realtà esterna. Durante questo aspro periodo, il suo amore per la letteratura e per la poesia cresce sempre di più.
La prima svolta importante avviene nel 1928, quando decide di spostarsi a Parigi in seguito all'assegnazione di una borsa di studio da parte del Trinity College, dove studia francese e italiano. Il trasferimento ha subito effetti positivi: non passa molto tempo perché il ragazzo veda nella nuova città una sorta di sua seconda patria. Inoltre, comincia a interessarsi attivamente alla letteratura: frequenta i circoli letterari parigini dove conosce James Joyce, che gli fa da maestro.
Un altro approdo importante è la scoperta che, in qualche modo, l'esercizio della scrittura ha un effetto benefico sul suo stato, riuscendo a distrarlo dai pensieri ossessivi e fornendo un canale creativo in cui sfogare la sua sensibilità accesa, nonché la fervida immaginazione. In pochi anni, grazie ai ritmi intensi di lavoro a cui si sottopone, e soprattutto all'intuito sorvegliatissimo con cui tratta i testi, si afferma come importante scrittore emergente. Vince un premio letterario per un poema intitolato "Whoroscope", incentrato sul tema della transitorietà della vita. Comincia contemporaneamente uno studio su Proust, autore amatissimo. La riflessione sullo scrittore francese (sfociato poi in un celebre saggio), lo illuminano circa la realtà della vita e dell'esistenza, giungendo alla conclusione che la routine e l'abitudine, "non sono che il cancro del tempo". Un'improvvisa consapevolezza che gli permetterà di imprimere una svolta decisiva alla sua vita.
Infatti, colmo di rinnovato entusiasmo, comincia a viaggiare senza meta per l'Europa, attirato da paesi come la Francia, l'Inghilterra e la Germania, senza trascurare un tour completo della sua terra, l'Irlanda. La vita, il risveglio dei sensi sembrano travolgerlo in pieno: beve, frequenta prostitute e conduce una vita di eccessi e dissolutezze. Si tratta per lui di materia che pulsa, incandescente, flusso energetico che gli permette di comporre poesie ma anche storie brevi. Dopo questo lungo peregrinare, nel 1937 decide di trasferirsi definitivamente a Parigi.
Qui conosce Suzanne Dechevaux-Dumesnil, una donna di diversi anni più vecchia che diventa la sua amante e solo svariati anni più tardi la moglie. Parallelamente agli sconvolgimenti più o meno transitori che contrassegnano la sua vita privata, non mancano quelli generati dalla macchina della Storia, che poco si cura degli individui. Scoppia dunque la seconda guerra mondiale e Beckett opta per l'interventismo, prendendo attivamente parte al conflitto e offrendosi come esperto traduttore per le frange della resistenza. Presto, però, è costretto ad allontanarsi per evitare il pericolo che incombe sulla città e si trasferisce in campagna con Suzanne. Qui lavora come agricoltore e per breve tempo in un ospedale, infine torna a Parigi nel '45, finita la guerra, dove trova ad attenderlo consistenti difficoltà economiche.
Nel periodo fra il '45 e il '50 compone varie opere, tra cui le novelle "Malloy", "Malone muore", "L'innominabile", "Mercier et Camier", e alcune opere teatrali, di fatto una novità nel suo catalogo. Sono le stesse, in pratica, che gli hanno donato fama imperitura e per cui è noto anche al grande pubblico. Vi compare, ad esempio, la celebre pièce "Aspettando Godot", da più parti acclamata come il suo capolavoro. E' l'inaugurazione, negli stessi anni in cui opera Ionesco (altro esponente di spicco di questo "genere"), del teatro cosiddetto dell'assurdo.
L'opera, infatti, vede i due protagonisti, Vladimir ed Estragon, in attesa di un fantomatico datore di lavoro, il signor Godot. Della vicenda non sappiamo nient'altro, nè dove si trovino esattamente i due viandanti. Lo spettatore sa solamente che accanto a loro c'è un salice piangente, immagine simbolica che condensa in sé il tutto e il nulla. Da dove vengono i due personaggi e soprattutto da quanto aspettano? Il testo non lo dice ma soprattutto non lo sanno neanche loro stessi, i quali si trovano a rivivere le stesse situazioni, gli stessi dialoghi, gesti, all'infinito, senza poter dare risposte neppure alle domande più ovvie. Gli altri (pochi), personaggi della vicenda sono altrettanto enigmatici....
Al 1957 invece risale la prima rappresentazione di "Finale di partita", al Royal Court Theatre di Londra. Tutti i lavori di Beckett sono estremamente innovativi e si discostano profondamente dalla forma e dagli stereotipi del dramma tradizionale, sia per quello che riguarda lo stile, sia per i temi. Sono banditi intrecci, suspence, trama e insomma tutto quello che generalmente gratifica il pubblico per concentrarsi sulla tematica della solitudine dell'uomo moderno o sul tema della cosiddetta "incomunicabilità" che blinda le coscienze degli esseri umani in un esasperato quanto inevitabile individualismo, nel senso di un'impossibilità di portare la propria insondabile coscienza "di fronte" all'Altro.
A tutte queste ricchissime tematiche si intreccia anche il motivo della perdita di Dio, del suo annientamento nichilistico ad opera della ragione e della storia, presa di coscienza antropologica che getta l'uomo in uno stato di rassegnazione e di impotenza. Lo stile del grandissimo autore è qui caratterizzato da frasi secche, scarne, plasmate sull'andamento e sulle esigenze del dialogo, spesso acre e attraversato da una fendente ironia. Descrizioni di personaggi e ambienti sono ridotti all'essenziale.
Sono caratteristiche tecniche e poetiche che non mancheranno di risvegliare l'interesse anche di parte del mondo musicale, attratto dalle numerose consonanze con le ricerche sul suono svolte fino a quel momento. Su tutti, è da segnalare il lavoro svolto su e intorno la scrittura beckettina dell'americano Morton Feldman (stimato dallo stesso Beckett).
Nel 1969 la grandezza dello scrittore irlandese viene "istituzionalizzata" attraverso l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura. In seguito, ha continuato a scrivere fino alla sua morte, avvenuta il 22 dicembre del 1989.












sabato 13 aprile 2019

David Levine / Joyce


David Levine
JAMES JOYCE

James Augustine Aloysius Joyce, uno dei più grandi autori di narrativa del XX secolo, nasce a Rathgar, una frazione di Dublino, il 2 febbraio 1882.
Appartiene ad una famiglia della buona società di Dublino, le cui condizioni finanziarie vanno però via via declinando fino al punto che l'indigenza lambisce la famiglia Joyce in modo preoccupante. I suoi genitori lo iscrivono ad una scuola cattolica, precisamente presso un istituto di gesuiti, il Clongowes Wood College (ma studierà anche al Belvedere College, sempre di proprietà dei gesuiti).
Successivamente, iscrittosi all'università di Dublino, si laurea in lingue moderne. In questi anni inizia a manifestare un carattere anticonformista e ribelle. Difende con articoli e conferenze il teatro di Ibsen, considerato ai tempi immorale e sovversivo e, trascinato dalla sua foga idealista, pubblica "Il giorno del Volgo", un pamphlet nel quale si scaglia contro il provincialismo della cultura irlandese.
Nel 1904 scrive il saggio autobiografico "A portrait of the artist" che decide poi di trasformare nel romanzo "Stephen Hero": questo "canovaccio" costituirà il nucleo centrale del successivo "Ritratto dell'artista da giovane". L'educazione estetica del giovane Stephen Dedalus è il pretesto per proporre un romanzo nuovo, nel quale l'interesse naturalistico del ritratto biografico del personaggio è contemperato da un acceso lirismo visionario, che non disdegna gli apporti delle filosofie, delle poetiche, e delle concezioni uniformate ad un punto di vista franto e poliedrico.
E' un romanzo di formazione e, nello stesso tempo, uno splendido affresco estetico-metafisico, nel quale svolge un ruolo essenziale la ricerca del bello, integrata dall'ansia conoscitiva verso il problema cruciale dell'esistenza: la verità. Stephen Dedalus non è un semplice personaggio, ma è grande metafora dell'artista moderno, anticonformista e ribelle al dogmatismo sociale, espressa mediante una complessa analisi psicologica degli stati d'animo del protagonista.
Nel frattempo, compone anche molte delle poesie, raccolte in seguito raccolte nella silloge dal titolo "Musica da camera". L'opera, però, è ancora attardata su modelli romantici e tardo-romantici. Sul giornale "Irish Homestead" escono tre racconti poi compresi in un altro fondamentale libro di Joyce, "Gente di Dublino".
Incontra Nora Barnacle, proveniente dall'Ovest dell'Irlanda e in cerca di un lavoro come cameriera a Dublino poi sua compagna per tutta la vita.
Si trasferisce con l'amico scrittore Oliver St. John Gogarty (colui che sarà poi rappresentato come Buck Mulligan nell'Ulisse) nella torre martello di Sandycove ma vi resta solo una settimana. Nel 1902 è richiamato in Irlanda dalla morte della madre e, costretto a guadagnarsi da vivere, insegna per qualche tempo in una scuola di Dublino, per poi trasferirsi a Trieste dove, fra l'altro, conosce anche Italo Svevo, all'epoca solo un oscuro impiegato che si dedicava con assiduità alla scrittura, seppur in un sostanziale anonimato.
A Trieste proseguono le esperienze di insegnamento ma, irrequieto, presto sente che quella città gli sta stretta e preferisce trasferirsi a Zurigo. Nel 1922, invece, si stabilisce ancora una volta a Parigi e qui rimane fino al dicembre 1940, quando l'avanzata vittoriosa dei nazisti lo costringe a rifugiarsi nuovamente a Zurigo.
In una lunga vacanza a Roma lavora come corrispondente estero di una banca e progetta, senza iniziare a scriverlo, un racconto di vita dublinese, primo germe dell'Ulisse.
Quest'ultima è la seconda grande opera joyciana. Il romanzo si presenta come un'epica al contrario, in cui il protagonista si perde nel caos della Dublino d'inizio secolo compiendo "gesta" banali ed irrilevanti.
Scritto tra il 1914 e il 1921, il capolavoro rappresenta una rivoluzione estetica, all'interno della quale matura una prospettiva completamente diversa delle forme, delle strutture e dei contenuti del romanzo. L'opera è fortemente autobiografica e nello stesso tempo obiettiva, nel momento in cui pone un parallelismo tra le vicende del mito, nell'Odissea, e le vicende reali della vita dublinese, filtrati attraverso un gusto personale per la filosofia, l'arte, la storia del linguaggio e le sue variazioni.
Dal punto di vista tecnico, l'uso sistematico dello "stream of consciousness" (ossia "flusso di coscienza" o monologo interiore), perviene a livelli estremi ed insuperabili. Nell' "Ulisse" la ricerca estetica e sperimentale scompone le "strutture profonde" della parola, con un lavorio "ingegneristico" sulle modalità eclettiche della comunicazione linguistica. dalla struttura dell'inglese e tocca le radici arcaiche del linguaggio.
Bisogna tener presente, per inquadrare Joyce, che la prima parte del Novecento rappresenta un'epoca di sperimentazione in tutti i campi della cultura. Nella narrativa la ricerca di nuove forme espressive conduce i romanzieri, appunto, ad un interesse nuovo nell'interiorità dei personaggi, nel contenuto e negli aspetti formali del romanzo.
Sperimentando nuove forme i modernisti concentrano la loro attenzione sui processi mentali che si sviluppano nella mente umana, cercando di esplorarli.
Le tecniche usate per esprimere il flusso di coscienza includono il " flash back ", la storia nella storia, l'uso di similitudini e metafore e di una particolare punteggiatura. Il metodo utilizzato disdegna spesso i passaggi logici, la sintassi formale e la punteggiatura convenzionale proprio per riflettere la sequenza caotica dei pensieri.
Sul piano della vita privata, invece, una grave malattia agli occhi che per alcuni periodi lo prova quasi completamente della vista, lo costringe a numerosi interventi chirurgici. Viaggia frequentemente tra Inghilterra, Svizzera e Germania. Frammenti di "Finnegans Wake", l'estremo capolavoro, sono pubblicati dalle riviste letterarie d'avanguardia, suscitando immancabilmente giudizi perplessi e polemici.
Iniziano a manifestarsi i primi disturbi mentali della figlia, ma Joyce vorrà tenerla sempre con sè, lasciandola in clinica solo nei momenti di crisi più violenta.
Nel 1939 viene finalmente pubblicato il Finnegans, una evoluzione monumentale dei temi strutturali e sovrastrutturali dell'Ulisse, ispirato alla filosofia della storia di Giambattista Vico.
Dopo l'inizio della guerra Joyce si trasferisce a Zurigo dove morirà in seguito ad una operazione chirurgica nel 1941.


BIOGRAFIE








Joyce / Un uomo di genio

James Joyce
David Levine

James Joyce
UN UOMO DE GENIO

Un uomo di genio non commette errori: i suoi sbagli sono l'anticamera della scoperta.



venerdì 22 aprile 2016

Oscar Wilde / Sempre


Oscar Wilde
SEMPRE

Sempre! Che parola terribile. Quando la sento mi fa venire i brividi. Alle donne piace tanto pronunciarla. Rovinano qualunque storia d’amore cercando di farla durare per sempre.