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lunedì 10 febbraio 2020

Aggressivo e ambizioso/ Il perché della rabbia di Kirk Douglas nella vita e sullo schermo




Aggressivo e ambizioso: il perché della rabbia di Kirk Douglas nella vita e sullo schermo

Sorriso strafottente, sempre troppo sicuro di sé e divorato dalla voglia di essere il primo, emergere. Non c’è un altro attore che ha saputo incarnare la rabbia meglio di lui


di Paolo Mereghett




6 febbraio 2020 (modifica il 6 febbraio 2020 | 11:29)


La rabbia del successo. Non era simpatico. O meglio: lo era fin troppo, voleva sempre strafare e così finiva per diventare odioso. Troppo sicuro di sé, troppo aggressivo, troppo divorato dalla voglia di essere il primo, di emergere... Non so se c’è un altro attore che ha saputo incarnare la rabbia del successo meglio di Kirk Douglas, con quel suo sorriso strafottente, con quegli occhi che ti trapassano, che guardano già alla prossima mossa, a come farti uno sgambetto. A me non ne viene in mente un altro come lui.



Si rischia di cadere nella psicologia spicciola, nel determinismo da quattro soldi, ma non si possono dimenticare le condizioni in cui Issur Danielovich Demsky divenne Kirk Douglas: più che la povertà del «figlio del venditore di stracci», la determinazione con cui la madre lo incitò a studiare unico figlio maschio tra sei femmine, a diplomarsi, a trovare una strada che lo portasse fuori da quel mondo di povertà in cui rischiava di crescere. E non è un caso che quando il successo (e l’ambizione) lo spinsero a creare anche la propria casa di produzione decidesse di chiamarla Bryna, proprio come la madre. Quella energia se la portava scritta in faccia, insieme alla voglia di essere simpatico a tutti i costi: sempre sorridente, ma a denti stretti. Non può essere un caso se il suo primo ruolo al cinema è stato quello di chi è disposto a ingannare la giustizia pur di sfruttare la sorte a proprio vantaggio (testimone di un omicidio, accetta di sposare l’assassina per interesse in Lo strano caso di Marta Ives) e poi quello di chi finge amicizia per costringerti ad accettare le sue condizioni (il gioco del gatto col topo che Douglas fa con Mitchum in Le catene della colpa) o ancora di chi arriva al più squallido cinismo pur di ritrovare il successo (il giornalista dell’Asso nella manica).


Tutti personaggi capaci di buttare a mare legalità e moralità, ma che lo fanno con una determinazione e una rabbia che svelano ragioni più profonde che la semplice voglia di emergere. Ti vien quasi di giustificarli, quei personaggi. Certamente di capirli. Non vengono in mente personaggi riconciliati con la vita nella sua carriera, protagonisti compiaciuti e soddisfatti del proprio status. Forse solo nella sua prima regia (Un magnifico ceffo da galera, storia di un burbero avventuriero che aiuta due ragazzi sulle tracce di un favoloso tesoro) aveva finito per smussare i caratteri più spigolosi del suo carattere, vestendo i panni di un Long John Silver del West ma l’insuccesso lo aveva probabilmente spinto a ricredersi. E infatti per la sua seconda e ultima regia (I giustizieri del West) era tornato a indossare i panni di un personaggio per niente accattivante, un ambizioso politicante a caccia di voti.


Se un’evoluzione c’è stata nei novanta e più film che ha interpretato è stata quella verso una specie di maggior rassegnazione di fronte all’ostilità del mondo: con gli anni, il suo personaggio si è sentito venir meno non la rabbia ma probabilmente la forza che serviva per combattere e ha trasformato questa consapevolezza in una sorta di rassegnato armistizio con il mondo. Non una sconfitta, neppure quando la sceneggiatura sembrava imporlo (in Solo sotto le stelle viene letteralmente ucciso dall’avanzare della modernità, ma per lo spettatore sarà sempre il ribelle che fugge a cavallo e che i poliziotti in jeep non riescono a raggiungere), ma piuttosto una sospensione prima del tempo, un’interruzione per cause di forza maggiore. E non prima di aver tirato fuori tutto il disprezzo e il risentimento per quei disvalori contri cui non ha mai smesso di combattere, proprio come il pubblicitario in crisi del Compromesso, forse il più «autobiografico» dei suoi ultimi grandi ruoli.

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Kirk Douglas, dernier grand monstre sacré d'Hollywood, est mort
Une fossette au menton, c’est un détail, mais c’est à cela qu’on pense automatiquement après la mort de Kirk Douglas
Kirk Douglas / ‘I never thought I’d live to 100. That’s shocked me’

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domenica 9 febbraio 2020

Kirk Douglas e Anne Buydens / Il matrimonio

Kirk Douglas e Anne Buydens

Kirk Douglas e Anne Buydens
IL MATRIMONIO


Il matrimonio tra Kirk Douglas e Anne Buydens è stato uno dei più lunghi della storia di Hollywood. La coppia ha scritto anche un libro sulla loro storia d'amore: «Kirk and Anne: Letters of Love, Laughter, and a Lifetime in Hollywood», edito nel 2017 (Ap)



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Kirk Douglas / Uno degli attori più famosi dell’epoca d’oro di Hollywood.


Kirk and Michael Douglas


Kirk Douglas
Uno degli attori più famosi dell’epoca d’oro di Hollywood

Kirk Douglas è scomparso il 6 febbraio 2020, a 103 anni. E' stato uno degli attori e produttori più famosi e affermati dell’epoca d’oro di Hollywood. Ha lavorato con tutti i più grandi, da Kubrick in giù: nel corso della sua lunga carriera, ha recitato in quasi 90 film. Tra i più suoi ruoli più famosi, ricordiamo Spartacus, nell'omonimo kolossal, Ulisse (di Mario Camerini, 1954), Van Gogh (nel film Brama di vivere, diretto da Vincente Minnelli), il cinico giornalista della pellicola l'«Asso nella manica» e l’ufficiale francese pacifista che si oppone alla follia bellica di «Orizzonti di gloria» di Kubrick. Nel 1996, Douglas ha ricevuto un premio Oscar alla Carriera. Nel 1943 si è sposato con l'attrice britannica Diana Dill: la coppia ha avuto due figli, l'attore Michael Douglas (nato nel 1944) e Joel Douglas. Dopo il divorzio nel 1951, il divo si è risposato nel 1954 con la produttrice Anne Buydens: i due sono rimasti insieme fino alla morte di lui. Insieme hanno avuto due figli: Peter Vincent (1955) ed Eric (1958-2004). 




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Morto Kirk Douglas / Aveva 103 anni


Vang Gogh
Kirk Douglas

Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni

Il leggendario attore e produttore, padre di Michael che ha dato la notizia, si è spento a 103 anni. Ha lavor


Maurizio Porro
6 febbraio 2020 (modifica il 6 febbraio 2020 | 14:01)

Era il decano degli attori hollywoodiani, il più anziano di tutti, capostipite di una dinastia. Aveva 103 anni Kirk Douglas, padre di Michael che ha dato l’annuncio della sua scomparsa: era malato da tempo e non si vedeva più da aprile. E si è spento . Ed è morto Spartacus, il sindacalista della Roma imperiale. È morto Ulisse, il globe trotter della Grecia omerica. È morto Van Gogh. Sono morti il cinico giornalista dell’«Asso nella manica», il boxeur che nel «Grande campione» non sa accettare la sconfitta, il cacciatore di pelli della vecchia frontiera del «Grande cielo», il produttore senza pietà del «Bruto e la bella» con Lana Turner. È morto l’ufficiale francese pacifista che si oppone alla follia bellica di «Orizzonti di gloria» di Kubrick, è morto il primo cow boy, il Doc Holliday di «Sfida all’OK Corral», e l’ultimo, quello che si scontra col cavallo contro le auto in «Solo sotto le stelle».HHS


È morto con Kirk Douglas l’uomo senza paura di quasi 90 film, un metro e 80 della Hollywood dei sogni. Ed anche il patriarca della dinastia con la fossetta nel mento: se egli vinse solo un Oscar alla carriera nel ‘96, dopo averlo perso per tre volte (tanto che la seconda moglie Anne gliene regalò uno falso), il figlio Michael (gli altri sono Eric, Joel e Peter), a sua volta attore e produttore, ha legato la fama a «Un giorno di ordinaria follia», «Wall street», «Basic instinct». Douglas, con i suoi caratteri ambiziosi e tormentati, è l’esempio classico del “self made actor”, ha servito a tavola per mantenersi agli studi; ha lottato, non solo metaforicamente, prima di affrontare lo show business, cominciando dalla radio e dal teatro (se ne sentiranno gli echi in «Il lutto si addice ad Elettra» di O’Neill e «Zoo di vetro» di Williams). All’anagrafe risultava Issur Danielovitch Demsky, nato ad Amsterdam (New York) il 9 dicembre 1916 da una famiglia poverissima di emigrati ebrei russi, in cui il papà straccivendolo doveva sfamare 7 figli. Altro che cinema. Il peso delle origini (e la riscoperta, in vecchiaia, dopo un pauroso incidente, della fede in Mosè e nella Torah) gli ha fatto inaugurare, nel secondo tempo della sua vita, il lavoro creativo dello scrittore, con un libro di memorie («Il figlio del venditore di stracci») e altri romanzi («The devil’s dance», «The gift», «Last tango in Brooklyn», editi da Sperling & Kupfer. Nei libri trasferisce giusti dubbi, rivendicando le mezze tinte di alcuni suoi personaggi non sempre senza macchia e senza paura. Anzi. Così come rivendica impegni sociali, ideologici ed ecologici contro la guerra e i razzismi di ogni ordine e grado.

Fu bellissimo quando, nel ‘69, diretto da Elia Kazan, recitò il pubblicitario in crisi del «Compromesso», titolo doppiamente biografico in cui sono riassunti i dilemmi esistenziali dell’America ‘70. Ma per la gente Douglas è l’eroe che, in cinemascope e technicolor, lotta contro il mondo intero e spesso soccombe, un ruolo in cui l’attore mette un tocco di moderna ironia: il fiocinatore di «20.000 leghe sotto i mari» di Verne più Disney e il guerriero vichingo Einat cui cavano un occhio, mentre Van Gogh si tagliava l’orecchio, in «Un magnifico ceffo da galera» aveva una gamba sola e nell’«Uomo senza paura» era pieno di cicatrici: sadomasochismi e pene del contrappasso cinematografico. E’ Ulisse nel ‘54 per Camerini con una doppia Mangano (Circe e Penelope), primi tempi della Hollywood sul Tevere; e poi Spartacus (fu l’unico a girare con Kubrick due coraggiosi capolavori), che interpretò, produsse e protesse dagli attacchi isterici della Hollywood della caccia alle streghe, difendendo la sceneggiatura di Dalton Trumbo, nome della “black list” in odor di comunismo, ma licenziando Anthony Mann, che aveva iniziato le riprese. Ha parlato di cinema, col cinema, in compagnia del suo regista di fiducia Minnelli, che lo colorò con le migliori tinte del melodramma «fiction to fiction» nel «Bruto e la bella» e in «Due settimane in un’altra città», dove è un attore sul viale del tramonto a Roma.



Il cinema in realtà lo scoprì col marchio Paramount e su raccomandazione di Lauren Bacall in un ottimo giallo-melò con Barbara Stanwyck «Lo strano amore di Martha Ivers», Hollywood nera del ‘46. Segue una carriera che, senza soste, affronta tutti i generi, in prevalenza l’azione, scegliendo spesso il cinismo dell’uomo senza scrupoli, ma anche la commedia («Lettera a tre mogli» di Mankiewicz, ‘49), la biografia d’arte («Brama di vivere») e quella jazz («Chimere» di Curtiz su Bix Beiderbeck con la Bacall e Doris Day), il film da corsa («Destino sull’asfalto»); il dramma dell’ispettore fanatico in («Pietà per i giusti» di Wyler) del maggiore americano che nella «Città spietata» fa assolvere quattro reclute accusate di stupro. Ha lavorato con i maggiori registi, ciascuno si è fidato e ha vinto: alla grande Billy Wilder col film più spietato sul giornalismo da scoop («L’asso nella manica»); ma anche Frankenheimer che lo pose nel complotto fantapolitico di «7 giorni a maggio» come il colonnello fedele agli States ma scontento di se stesso.



Per il western ebbe una ricambiata passione intinta di senso del nevrotico: non solo fu uno splendido, tisico e alcolizzato Doc in «Sfida all’OK Corral» dichiarando eterna amicizia virile all’amico Burt Lancaster (con cui girò 7 film, fino a «Due tipi incorreggibili» dell’86), ma diresse con gusto anche «I giustizieri del West» nel ‘75. E nel curriculum della prateria non si possono dimenticare il bandito dell’«Occhio caldo del cielo» di Aldrich e il ladro del superbo «Uomini e cobra» di Mankiewicz, variazione sull’avidità dell’uomo. Tema che fu caro a Douglas, tanto che in finale di carriera, oltre ad alcune cose modeste tipo export girate anche in Italia, recitò un feroce zio ricco in «Greedy» con Michael J. Fox, oltre ad apparire in alcuni tv movies e progettare film con i figli, con cui stabilì un solido patto patriarcale, anche se non aveva un carattere facile, nè in famiglia nè sul set. «Mi hanno accusato di volere far sempre il regista» disse al momento di dirigere il suo primo film «almeno questa volta sapranno subito chi è il colpevole».

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