martedì 31 dicembre 2019

Vikki Dougan / La Vera Jessica Rabbit






Vikki Dougan: la Vera Jessica Rabbit

Mateo Rubboli

Jessica Rabbit-0003Un sondaggio condotto nel 1988 decretò che l’opinione pubblica riteneva che fu Veronica Lake a fornire l’ispirazione per disegnare e rendere famosa Jessica Rabbit, nel film Disney “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”. Molto meno conosciuta e quasi dimenticata è la modella e attrice Vikki Dougan, che fu la reale ed autentica ispirazione per l’icona di tutte le pin-up, e stereotipo di “femme fatale” di un’intera generazione.


L’attrice era nota anche con il soprannome di “The Back”, a causa della moda fra le donne di spettacolo di portare abiti a schiena scoperta in modo provocatorio e provocante. La mossa pubblicitaria legata al soprannome fu ideata dal pubblicista Milton Weiss, che creò un caso grazie a tre abiti a schiena scoperta e facendo apparire Vikki a feste ed eventi mondani.
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Le uscite ricevettero tale attenzione che fecero guadagnare alla modella la copertina di Playboy, nel 1957. L’America ebbe un rapporto di amore-odio con Vikki e la sua schiena, ma la modella fu pubblicata spessissimo su riviste di gossip. Nel 1959, la Dougan e il suo derrière scomparvero dalla scena Hollywoodiana, non riuscendo a trovare contratti appetivili. La modella finì nel dimenticatoio, come tante altre protagoniste fugaci di quegli anni.
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Quando la Disney e Touchstone girarono il lungometraggio “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” la Dougan non fu riconosciuta come la musa ispiratrice per Jessica Rabbit, ma il suo stile ed il suo sex appeal divennero icona senza tempo. Le immagini seguenti furono scattate da Ralph Crane per la rivista Life, ed è possibile ammirare le forme di una delle donne più famose, molto più in senso lato che nel significato proprio del termine, di tutti i tempi.

Vikki Dougan
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#5:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#6:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#7:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#8:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#9:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#10:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#11:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#12:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#13
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#14:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#15:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#16:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#17:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#18:

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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#19:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#20:
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Vikki Dougan per LIFE, fotografata da Ralph Crane#22:
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lunedì 30 dicembre 2019

Miriam Toews / Donne che parlano






Miriam Toews

Donne che parlano

Una nota al romanzo


Tra il 2005 e il 2009, in Bolivia, in una remota mennonita chiamata colonia di Manitoba - dal nome della provincia canadese - a molte ragazze e donne capitava di svegliarsi tutte doloranti e con un senso di sonnolenza, il corpo sanguinante e coperto di lividi per via delle violenze subite durante la notte. Le violenze erano imputate a fantasmi e demoni. Secondo alcuni membri della comunità, erano Dio o Satana a infliggere alle donne tali sofferenze come castigo per i loro peccati; molti accusavano le donne di mentire per attirare l'attenzione o per coprire l'adulterio; altri ancora credevano che fossero frutto della sfrenata immaginazione femminile.
Alla fine si scoprì che otto uomini della colonia ricorrevano a un anestetico veterinario per rendere incoscienti le proprie vittime e stuprarle. Nel 2011, questi uomini furono condannati a lunghe pene da un tribunale boliviano. Nel 2013, mentre i colpevoli erano ancora in carcere, fu reso noto che violenze simili e altri abusi sessuali continuavano a verificarsi nella colonia.
Donne che parlano è insieme una risposta narrativa a questi fatti di vita vissuta e un atto di immaginazione femminile.

Miriam Toews

Mi sembrava doveroso partire da qui, dalle parole dell'autrice. 
Ho letto queste righe almeno dieci volte, prima di addentrarmi oltre. Mi fermavo, cercavo qualcosa, la ragione di quel piccolo e primo scompenso al cuore, credo.
Miriam Toews parla di un atto di immaginazione femminile, un concetto che racchiude una bellezza imponente, ma pure l'orrore.
E questo mi ha immediatamente paralizzata, perché io lo sapevo bene quello che avrei letto, quello che avrei trovato tra le righe, tra una pagina e l'altra. 
Una storia terribile, di violenze inaudite, di donne violate.
Lo sapevo.
Ma la letteratura a volte diventa un atto necessario, di responsabilità e urgenza a cui non puoi sottrarti.
Aspettavo questo libro con una certa ansia, esplosa dopo la segnalazione di una cara amica. Donna, madre, lettrice appassionata come poche altre.

Venivano narcotizzate con lo spray per le mucche, e poi stuprate nel sonno.

"Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni - per forza che siamo sognatrici".

Riunite in un fienile, le donne di Molotschna decidono di parlare, riflettere su quanto accaduto, probabilmente per la prima volta, e capire insieme cosa fare.
Il capo della comunità, Peters, ha fatto arrestare gli uomini. Presto, però, questi torneranno in attesa del processo. E alle donne è stata data un'unica opportunità: perdonarli affinché possano andare in paradiso. Se non perdonano, le donne dovranno lasciare la colonia e uscire nel mondo, del quale non sanno nulla.
In quel fienile le donne devono decidere, votare. 
Le opzioni sono tre:
1) Non fare niente.
2) Restare e combattere.
3) Andarsene.
Il tutto, ovviamente, in pochissimo tempo.

La voce che racconta, è quella di August Epp. L'unico uomo presente durante le riunioni delle donne e responsabile di trascrivere i verbali.
Non è un caso che August sia un insegnante, un ex membro della colonia, espulso e poi riaccolto, un uomo capace di desiderare la vita e la morte con la stessa intensità, sinceramente.

"Vogliamo che i nostri figli siano al sicuro. Vogliamo conservare la nostra fede. E vogliamo pensare".

L'aspetto più sorprendente di questo libro, di queste donne, di questi verbali, è la maniera di affrontare tutta quella violenza, quel male inflitto dal potere, che è uomo, perché nella comunità vige il patriarcato e la donna conta zero. Da Dio, che è uomo, perché le donne non sanno leggere e nessuna di loro ha la più pallida idea di cosa sia la parola di Dio se non per bocca di un uomo che gliel'ha letta, imposta.
E nonostante queste privazioni, queste ingiustizie primitive, barbare, schifosamente vere e inopinabili, loro si preoccupano di preservare quella maledetta fede, quella parola che forse è di Dio, o forse del diavolo, in fondo chi può dirlo?
Nonostante i lividi sulla faccia, il sangue ancora caldo, le ossa rotte e le vite crepate per sempre, di donne, ragazze, BAMBINE, le donne di Molotschna cercano di preservare quelle qualità che un presunto Dio gli ha donato, perché di notte mentre Adamo dormiva qualcuno si è avvicinato, e gli ha staccato una costola, e poi l'ha data a "te", donna. E questo ti impone per forza di cose una vita di dolore, di sottomissione e privazione.

C'è un tempo per amare, e un tempo per odiare, dice la Bibbia. Queste donne hanno capito che per amare e odiare è necessario prima pensare. Averne almeno la possibilità.

Ho chiuso il libro e mi sono vista in quel fienile. Ho sentito la paglia sfiorarmi le gambe, ho raccolto i miei capelli in un fazzoletto bianco. Ho cercato di coprire un ematoma sul viso, ho sentito un dolore terribile corrermi lungo tutta la schiena. Mi sono sentita rotta, finita.
Poi una voce mi ha raccontato una storia, e poi un'altra, e un'altra ancora.
Queste storie parlavano delle profondità del Mar Nero, della possibilità della vita, nonostante le condizioni più ostili.
Di libellule che hanno sei zampe ma che non sanno camminare, però sanno volare.
Di un artista chiamato Michelangelo che prima di dipingere non era certo di quello che avrebbe realizzato, non ne aveva idea, aveva paura, ma alla fine ce l'ha fatta.
Di un gruppo di donne coraggiose ignare del mondo, della felicità, della dignità, di una vita alla pari, che alla fine hanno deciso di parlare.

Avevo una mappa in mano, c'era scritto "mondo".
Ho pensato.
Ho scelto di andare.
(Non)Siamo solo donne che parlano...



domenica 29 dicembre 2019

Frida Kahlo / Io sono una donna

Frida Kahlo
Agustin Sciammarella



Frida Kahlo

IO SONO UNA DONNA


Io sono una donna che sa quello che il sesso è in ogni sua forma.
Ho dormito con chi mi è piaciuto.
Non mi preoccupavo.
Ho apprezzato molto il fallo in tutta la sua grandezza, e la vagina in tutte le sue delizie.
Non ho rimpianti.
Questo è come sono.

Da una lettera non spedita a Diego Rivera


sabato 28 dicembre 2019

La street art europea nel contesto artistico contemporaneo / Tra musealizzazione e trasformazione dell’attività curatoriale


Graffiti on the street

La street art europea nel contesto artistico contemporaneo

Tra musealizzazione e trasformazione dell’attività curatoriale

SARA DURANTINI
22 GENNAIO 2018


Il contesto museale odierno sta vivendo, da un lato, quell'instabilità propria delle istituzioni culturali complesse che vivono il dilemma di luoghi simbolici e metaforici in precario equilibrio per domande apparentemente contraddittorie tra loro (Maria Vittoria Clarelli 2010) e, dall'altro, sta assistendo a una trasformazione dell'attività curatoriale sia in termini di coinvolgimento del pubblico sia in termini di strumenti e prospettive per la narrazione artistica.

Curare, allestire, organizzare una mostra sono attività che, da sempre, hanno identificato il lavoro curatoriale ma, ad oggi, non sono più caratterizzanti ed esclusive di una professione che, invece, si liquefà se esposta a "discussioni visive interdisciplinari" che stanno sempre più prendendo piede e “che diventeranno il punto di partenza per la presentazione di progetti d’arte" (Kari Conte, 2013).
È da qui che dobbiamo partire per capire i molteplici progetti che sono nati negli ultimi tempi finalizzati alla musealizzazione della Street Art: Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, esposizione curata da Christian Omodeo con Luca Ciancabilla e Sean Corcoran presso Palazzo Pepoli del Genus Bononiae nel corso del 2016, Cross the Streets la piattaforma culturale che getta le basi per una storicizzazione del fenomeno del Writing e della Street Art in mostra nel corso del 2017 al Macro di Roma, Urban Nation il primo museo dedicato alla Street Art inaugurato a settembre 2017 a Berlino, Maua il museo a cielo aperto dislocato su cinque quartieri milanesi inaugurato a dicembre del 2017 le cui opere sono fruibili scaricando l'app Bepart (dal nome di una delle cooperative sociali che hanno dato vita al progetto) e il Seminario interdisciplinare sullo stato della Street art europea fondato da Nice Street Art Project nella persona di Edwige Comoy Fusaro (prossima edizione aprile 2018). Questo breve elenco solo per citare alcune tra le iniziative più recenti ad impatto nazionale ed europeo.
Graffiti Tunnel, Londra

Due quesiti posti da Nice Street Art Project che meritano una riflessione per capire lo stato della musealizzazione della street art e cosa dovremo aspettarci per il futuro: se è vero che la street art si inserisce in contesti geografici specifici e da questi contesti viene alimentata subendone influenze di carattere sociale e non solo artistico, in che modo le specificità geografiche locali si intrecciano con quelle globali? Inoltre qual è la specificità della street art europea se consideriamo il fatto che ha risentito della matrice d'oltreoceano?
Per rispondere alla prima domanda facciamo un passo indietro, precisamente al periodo storico che va dal 1820 e il 1830. Da un’analisi di Francesco Giugiaro, sembrerebbe che un certo Kyselak cominciò a taggare il proprio nome sui muri dell’Impero Austro-Ungarico, forse per una scommessa. Queste testimonianze sono ancor oggi conservate dalla soprintendenza. Giugiaro continua nella sua analisi citando, un secolo dopo, Arthur Malcom Stace, meglio conosciuto come Mr. Eternity, che ha ricoperto le mura di Sidney con la parola Eternity.

Bankslave, Street Diaries murales

Sono gli anni della New York incubatrice inconsapevole del graffitismo prima e della street art dopo, sono gli anni delle avanguardie europee, del Chicano Mural Movement, dei monikers. Sono gli anni delle sperimentazioni artistiche, visive e museali che sfociano in una prima e preziosa testimonianza: The Faith of Graffiti il libro pubblicato nel 1974, che raccoglie una serie di saggi scritti da Norman Mailer e fotografie di Jon Naar. Motivazioni politiche, ecologico-ambientali, bisogno di affermare la propria idea come uomo o come donna, come individuo a sé rispetto alla massa: sono molteplici le cause che hanno spinto un artista o un gruppo di artisti a dedicarsi a una qualsiasi forma di arte urbana. Eppure tutte queste motivazioni possono riflettersi in concetti comuni che vanno al di là di qualsiasi barriera geografica: appartenenza, riconoscimento, libertà, bisogno, spazio urbano. Quindi, per tentare di rispondere alla prima domanda posta da Nice Street Art Project, non ci sono peculiarità geografiche locali che hanno forzatamente circoscritto una forma di arte urbana, come appunto la street art, distaccandola da altre forme di arte, al contrario si è assistito a forme di arte urbana locale che si sono evolute e propagate da uno stato all’altro degli Stati Uniti e dell’Europa mosse da una spinta evolutiva interna e da bisogni artistici ed emotivi comuni.
La seconda domanda, invece, pone l’accento sulla street art europea e la sua relazione con la corrente sviluppatasi oltreoceano. Se è vero che il graffitismo prima e la street art dopo sono il riflesso della realtà urbana americana in particolare quella newyorkese, è altresì vero che le stesse correnti riflettono una “memoria culturale legata all’Europa e ai linguaggi delle avanguardie storiche” e sono una “sintesi delle arti, parola, musica, danza, architettura, scenografia, movimento, già teorizzate da Kandinskij e Marinetti” (Bonito Oliva A.). Gli albori della street art di New York sono il fermento di una società multirazziale che, tuttavia, assorbe e viene fortemente influenzata dalla cultura europea dei primi decenni del Novecento, dallo stile impuro e informale europeo.
Graffiti nel Casco Viejo di Panama City

A metà del Novecento e soprattutto nel corso degli anni sessanta la cultura dei graffiti arriva dagli Stati Uniti in Europa sviluppandosi soprattutto in relazione a movimenti punk new wave (Spagna e Olanda) mentre si lega, nel corso degli anni Ottanta, al mondo dell’hip-hop in Inghilterra (con particolare concentrazione a Londra), Germania (Berlino) e Francia (Parigi). Negli anni novanta giunge anche in Italia. Dai primi decenni del Novecento in poi, la commistione di varie correnti artistiche dà origine a qualcosa di totalmente nuovo nel panorama delle arti visive a livello mondiale: “We started something without the slightest notion that it would get to this point. We didn’t realize the baby that we bore”. (Lee 163). Rispondo, quindi, alla seconda domanda con un’altra domanda: come sarebbe stata la street art d’oltreoceano se non ci fossero state le avanguardie europee del primo Novecento?
Nonostante la storia ci abbia mostrato, nel corso dei decenni, una certa diffidenza nei confronti della street art e, più in generale, dell’arte urbana (si veda Hegert, Radiant Children: The Construction of Graffiti Art in New York City - Rhizomes) “le porte delle gallerie si aprirono presto a quei writer che tra gli anni Settanta e Ottanta scesero a lucrativi compromessi con il mercato dell’arte scegliendo di realizzare i loro graffiti su tela per venderli a ricchi collezionisti, senza tuttavia ripudiare la pratica illegale del Writing, per lo più notturna, che rimaneva per molti l’espressione creativa più autentica” (Francesca Iannelli - Street Art e museo: museofobia o museofilia?).

MAUA, Milano

Il fenomeno della musealizzazione della street art può togliere vigore, creatività, espressione e ragione d’intenti alla sua stessa natura e alla sua stessa forma d’arte? Dobbiamo continuare a pensare alla street art come a una forma d’arte incompatibile con il museo? “Il pericolo di normalizzazione di un movimento ribelle esiste” tuttavia “deve pur esser(ci) una modalità virtuosa di ripensare la musealizzazione della Street Art (…). Il museo nelle sue vesti più tradizionali ci sembra del tutto incapace di accogliere murales, spesso mastodontici, non solo per evidenti motivi di spazio ma soprattutto per motivi di senso, che spesso si dimenticano (…). Quando la Street Art viene musealizzata accade che si trasforma, volente o nolente, in un caricaturale “monumento” di se stessa, perdendo gran parte del suo potere eversivo, a meno che nel museo non vi entri per contestare dal di dentro l’autoreferenzialità che spesso attanaglia il mondo dell’arte” (Francesca Iannelli).
Sulle commissioni di muri, sulle mostre a cielo aperto e sui festival dedicati alla street art ne ha parlato recentemente C125 in un lungo articolo pubblicato su Legrandj.eu dicendo che le stesse commissioni “implicano una censura collettiva (progetto preliminare, toni politically correct che non turbino la cittadinanza, censure politiche locali) e hanno generato un nuovo tipo di street art: il muralismo (…). Bisogna quindi sperare che il muralismo non trasformi un po’ alla volta la street art in un’arte decorativa e priva di contenuti polemici”.


Alla luce di questa analisi, quello che viene qui sostenuto è un’opinione favorevole, seppur con qualche riserva, all’introduzione della street art nei musei in quanto la musealizzazione della stessa potrebbe essere occasione per combattere proprio quella precarietà e quell’instabilità nella quale versa il contesto museale odierno attirando una nuova generazione di utenti, un nuovo target di artisti e dando vita a nuove professioni che potrebbero affiancarsi agli attori tradizionali che, da sempre, detengono le redini della filiera artistico-museale. Saranno proprio questi nuovi attori a convalidare il passaggio della street art dagli spazi urbani al museo, riscrivendo una nuova narrativa della street art, un nuovo fenomeno sociologico e antropologico.

venerdì 27 dicembre 2019

Pedro Salinas / Si, al di là della gente


Jack Walls

Pedro Salinas
Si, al di là della gente

Si, al di là della gente
ti cerco.
Non nel tuo nome, se lo dicono,
non nella tua immagine, se la dipingono.
Al di là, più in là, più oltre.

Al di là di te ti cerco.
Non nel tuo specchio
e nella tua scrittura,
nella tua anima nemmeno.
Di là, più oltre.

Al di là, ancora, più oltre
di me ti cerco. Non sei
ciò che io sento di te.
Non sei
ciò che mi sta palpitando nelle vene,
e non è me.
Al di là, più oltre ti cerco.

E per trovarti, cessare
di vivere in te, e in me,
e negli altri.
Vivere ormai di là da tutto,
sull’altra sponda di tutto
– per trovarti –
come fosse morire.



Da “La voce a te dovuta”




giovedì 26 dicembre 2019

Pedro Salinas / Perdonami se ti cerco così






Pedro Salinas







Perdonami se ti cerco così
goffamente, dentro
di te.

Perdonami il dolore, qualche volta.
È che da te voglio estrarre
il tuo migliore tu.
Quello che non vedesti e che io vedo,
immerso nel tuo fondo, preziosissimo.

E afferrarlo
e tenerlo in alto come trattiene
l’albero l’ultima luce
che gli viene dal sole.

E allora tu
verresti a cercarlo, in alto.
Per raggiungerlo
alzata su di te, come ti voglio,
sfiorando appena il tuo passato
con le punte rosate dei tuoi piedi,
tutto il corpo in tensione d’ascesa
da te a te.

E allora al mio amore risponda
la creatura nuova che tu eri.

Pedro Salinas / La voce a te dovuta


mercoledì 25 dicembre 2019

Sandro Becchetti / Un po' fotografo un po' falegname





Sandro Becchetti
Un po' fotografo un po' falegname

Una lezione magistrale di fotografia che Michele Smargiassi impartisce attraverso il suo blog d'autore su Repubblica. Da leggere assolutamente per capire l'intricata personalità di Sandro Becchetti, l'anti paparazzo e fotografo-falegname.

La fotografia è una menzogna / L'arte di Sandro Becchetti

Pier Paolo Pasolini



La fotografia è una menzogna

L'arte di Sandro Becchetti


SARA DURANTINI
25 NOVEMBRE 2013 

Ascoltare Sandro Becchetti che racconta di non aver mai subito il fascino della fotografia, ma il fascino dell'arte, è una rivelazione intima ma non soprendente, facilmente riscontrabile nelle sue fotografie, molte delle quali hanno fatto la storia della fotografia italiana (e non solo) del secondo Novecento.


Pier Paolo Pasolini

Quella che Becchetti chiama la degradabilità evidente più nei volti umani che nei monumenti è l'elemento che trasforma ogni sua fotografia in una storia da comunicare.
E lo spettatore accoglie il suo racconto, così come le storie narrate attraverso le fotografie, storie sempre differenti, mai scontate, impreziosite dalle sue parole che escono roche e scavalcano la nostra immaginazione. E in questo modo si scopre che alla base della sua arte c'è una profonda e sincera comprensione di se stesso avvenuta guardandosi negli occhi di un altro. E' questa la più completa definizione di quello che rappresentano le fotografie di Sandro Becchetti, indipendentemente dal soggetto (o protagonista) della storia.



L'incontro con Ornella Vanoni, Claudia Cardinale, Giorgio De Chirico, per non parlare di Andy Warhol e Alfred Hitchock, ritratti intensi, nei quali chi osserva può perdersi nella storia che emerge dalla fotografia stessa, nei particolari espressi con enfasi, nella sue sfumature e nelle infinite possibilità di interpretazione.
Becchetti ha ritratto persone, con una vita, un passato, degli ideali ben definiti e con dei tratti, invece, più aleatori e imprecisi e proprio per questo suggestivi. Uomini di cultura, artisti, ma prima ancora persone. E la bellezza delle opere di Becchetti forse cozza con le sue stesse parole quando racconta di una fotografia che è anche menzogna perché incapace di sostenere l'intensità di una vita. Si diceva che l'affermazione forse cozza con la sua arte o forse no. E in questo risiede il potere di una fotografia intramontabile, sulla quale è possibile un continuo interrogarsi per capire le ombre e i suoi significati.


Facchino
Sandro Becchetti

Fra le persone con le quali Becchetti ha instaurato rapporti c'è anche Pier Paolo Pasolini che sostiene Le ceneri di Gramsci con sguardo fermo e penetrante. Pier Paolo Pasolini con la madre, nella sua casa, in poltrona, tra i suoi libri e poi ancora tra la gente della sua Roma a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Indagare Pasolini è impresa ardua, forse impossibile è qui verrebbe proprio da riprendere l'affermazione di Becchetti secondo la quale la fotografia è menzogna. Alternando scatti intimistici a ritratti di più ampio respiro, Becchetti ci accompagna tra le mura di una Roma che non c'è più (se non a tratti, in certi quartieri periferici e che, comunque, hanno dato un significato differente al qui che andava cercando Pasolini). E sono proprio i luoghi più periferici e remoti della città che hanno attratto Pasolini, in un amore viscerale nei confronti di una precarietà difficilmente descrivibile che ha finitl, negli anni, per scomparire surclassata da un altro tipo di precarietà. Pasolini ritratto da Sandro Becchetti rintraccia quello sperimentalismo e quella sete di conoscenza propria di Pasolini. Un'indagine accurata e intima al tempo stesso che approfondisce, con taglio differente.