Sandro Becchetti
Un po' fotografo un po' falegname
Una lezione magistrale di fotografia che Michele Smargiassi impartisce attraverso il suo blog d'autore su Repubblica. Da leggere assolutamente per capire l'intricata personalità di Sandro Becchetti, l'anti paparazzo e fotografo-falegname.
Sandro Becchetti |
A Gore Vidal non piacquero le foto di Sandro Becchetti, e allora gli sfuggì «un’offesa per me imperdonabile: paparazzo». Nel ritratto, riflesso nello specchio, di fianco a un leone di giada e pietrificato come quello, lo scrittore americano appare proprio come Becchetti lo descrive: «insopportabile, tutto proiettato sulla propria immagine di star hollywoodiana che non era. Occhio per occhio, dente per dente». Nel rapporto fra un fotografo che non sia un puro funzionario dell’obiettivo e il suo soggetto ci sta anche questo, il dispetto e il contro-dispetto. Del resto, fu proprio Gore Vidal a forgiare l’aforisma del rapporto ambiguo fra celebrità e fotografi: “È terribile quando non la smettono di fotografarti. Ma quando smettono è ancora peggio”. Non è detto che un ritratto fotografico sia sempre «il silenzio interiore di una vittima consenziente»: per Cartier-Bresson, forse. Per Becchetti era un incontro che non escludeva lo scontro, era una relazione tra umani, a volte superficiale, a volte entusiasmante e rivelatrice, sempre carica di emozione. vedere alla Galleria Nazionale di Perugia, nella terra dei suoi avi, e che la sorte ha voluto fosse la sua prima mostra antologica postuma (Becchetti è mancato il 5 giugno scorso, a 78 anni), è la storia di un anti-paparazzo assoluto. I ritratti dei suoi “protagonisti”, centinaia di grandi della cultura e dell’arte passati per decenni davanti alla lente delle sue fotocamere e poi sulle pagine di mezzo mondo, Repubblica inclusa, quei ritratti non sono rubati, neppure “presi”, sono intagliati con la ruvida rapida precisione di uno scultore del legno: che era poi il suo mestiere di vocazione, lo testimoniano i mobili costruiti per il suo eremo di Lugnano in Taverna: «Ho qualche dubbio sulla mia abilità di fotografo ma nessuno su quella di falegname». Però la grande bellezza di Roma, «caput mundi retorica e goduriosa», lo aveva catturato giovane, e il regalo di una macchina fotografica lo aveva indotto a farle il ritratto «ciottolo per ciottolo». Solo che era ormai la fine degli anni Sessanta, e i ciottoli tendevano a volare nel cielo, sopra i cortei studenteschi, e Becchetti era dalla loro parte, anche se mancò il colpo più grosso: «Ma no», disse a un compagno-collega, «a Valle Giulia non ci vengo, tanto non succede nulla». Se lo sarebbe ricordato anni dopo, facendo il ritratto a Pasolini, «occhi gelidi sguardo tagliente», con Le ceneri di Gramsci in mano, forse la sua foto più famosa. Era insomma sulla strada del reportage militante, ma qualcosa lo deragliò: il servizio sui funerali di Piazza Fontana. Il disgusto per un paese «assuefatto a conciliare cibo e sangue davanti al televisore», l’amara constatazione che le fotografie «non riuscivano a spostare di un’acca la paura e l’indifferenza», e allora «nel profondo cessai di essere fotografo e diventai ritrattista». Glielo consentì un incontro fortunato, con Pasquale Prunas, capo della terza pagina delMessaggero, che non esitò a mettergli a disposizione anche un quarto, di quella pagina, per un ritratto che stesse su un piede di parità con l’intervista al personaggio. E Becchetti s’inventò il suo stile speciale, fatto di vuoti, di grigi sfumati, uno stile tutto in sottrarre, da artista, a dispetto del grossolano retino tipografico dei quotidiani di allora. E dire che Becchetti, alla storia del ritratto “specchio dell’anima” eccetera, mica ci credeva. Lo considerava «un inganno mediocre: non condensa mai una vita, i segni di una faccia dissimulano più che rivelare». Difficile credergli fino in fondo. Neppure i suoi soggetti ci credevano. Rafael Alberti si rivide nei suoi scatti come «maschera funebre della Repubblica spagnola». Vidal fu un’eccezione: i fotografati si scioglievano di fronte a quel fotografo barbuto e chiacchierone, con tre fotocamere a tracolla, inclusa una Leica bistrattata, il mitico coperchietto d’alluminio legato con lo spago per non perderlo. Carmelo Bene improvvisò per lui una danza col coltello, Francesco De Gregori gli cantò Bob Dylan, Alan Resnais gli fece confessioni imbarazzanti: «In fondo ho fatto sempre lo stesso film…». Li conquistava perché un po’ personalità era anche lui, nella vita scrisse poesie e racconti (uno pubblicato da Attilio Bertolucci su Nuovi Argomenti), e anche soggetti per la tivù. A volte la chimica dell’incontro non riusciva, magari per una gaffe, come con Ornella Vanoni («Buongiorno, mi annuncia alla signora?», «Sono io la signora»), o con Tino Buazzelli («Nero Wolfe?», «Piccolo di Milano. Si accomodi alla porta, grazie»). Ma la foto riusciva sempre, e c’era dentro quell’«inganno del vero» che doveva esserci, ossia il suo giudizio, le sue simpatie e antipatie esplicite e perfino sfrontate: uno strepitoso Dustin Hoffman epoca Uomo da marciapiede solitario in un corridoio d’albergo, lo sbadiglio di Alfred Hitchcock annoiato dall’intervistatore, il «tanfo di cavoli» della casa di Julius Evola che sembra davvero di annusare, un Giulio Andreotti Nosferatu che ghermisce dall’alto una platea. Innamorato di Berlinguer, disgustato dai craxiani anni Ottanta, per un quindicennio Becchetti non fotografò più: intagliò figurine di legno che poi dipingeva. Quando ricominciò, fu ancora Roma a sedurlo: si appostava in un angolo di Campo de’ Fiori, «trincerato come un cecchino austriaco», a caccia della «zoologia umana» sempre diversa che pascolava sotto lo sguardo di bronzo di Giordano Bruno. Ritratti di nessuno e di tutti, scattati finalmente in libertà, «unico committente l’esiguo tempo che mi rimane».
Insomma Vidal aveva proprio sbagliato bersaglio. Quella che si può
Nessun commento:
Posta un commento