sabato 26 agosto 2023

A lezione di peccato contemporaneo con John Cheever

 


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A lezione di peccato contemporaneo con John Cheever

di Fabrizia Gagliardi
June 4, 2021

Nel quartiere esclusivo di Sutton Place, Manhattan, tra i fasti architettonici di brownstones e villette a schiera sull’East River, c’è anche il sogno di un uomo in un condominio. Ogni giorno insieme a giacca e cravatta indossa l’aria generica di una frase sul tempo atmosferico pronunciata in ascensore. Mentre i vicini pensano al miglior anestetico per iniziare la giornata lavorativa in città, John Cheever scende nel seminterrato, si spoglia e scrive con l’aiuto di qualche drink. È finita la seconda guerra mondiale, la precarietà economica e la paura di un disastro nucleare l’hanno toccato senza mai scalfire un’instancabile speranza.

In un salto nel futuro, quasi trent’anni dopo, John Cheever bussa alla porta della camera sopra la sua nello studentato dell’Università dell’Iowa. Gli aprirà un giovane Raymond Carver che, prima di conquistarlo col talento, gli serve un bicchiere di scotch per essere sulla stessa lunghezza d’onda. Davanti a lui c’era uno degli scrittori più affermati del tempo – Cheever aveva vinto il National Book Award per il suo primo romanzo, Cronache della famiglia Wapshot, ed era un prestigioso collaboratore del New Yorker – che, proprio come i suoi personaggi, sembrava provare fascino per gli aspetti semplici e casuali della vita rispetto all’analisi letteraria.

Percorrere avanti e indietro la linea temporale di un’intera vita trasmette la pretesa di dare significato ai dettagli che ne determineranno l’esistenza e la sua fine, come a voler mitigare la cecità lungimirante della nostra.

Sembra proprio che, giunto alla metà della mia vita, io non abbia fatto nessun progresso, a meno che non sia da considerarsi un progresso la rassegnazione. C’è il momento erotico del risveglio, che è come nascere. C’è la luce o la pioggia, un simbolo immediato grazie al quale si ritorna al mondo visibile, forse al mondo adulto. C’è l’euforia, la sensazione che la vita non sia niente di più di ciò che appare, luce e acqua e alberi e persone piacevoli che rischiano di andare in mille pezzi per colpa di un collo, di una mano, di un’oscenità scritta sulla porta del gabinetto. C’è sempre, da qualche parte, questo accenno di aberrante carnalità.

John Cheever



Dai frammenti dei diari di John Cheever (tradotti in Italia da Adelaide Cioni in Una specie di solitudine, Feltrinelli) è facile giocare il ruolo dell’osservatore freudiano e vedere un uomo profondamente diviso tra la morale cattolica, la ribellione alle norme sociali, una bisessualità sempre presente e la dipendenza da alcol ad alleviare le lacune di amanti, frustrazione artistica e disillusione. L’unica colpa di cui si era macchiato John Cheever era la consapevolezza che il peccato originale ha una forma mutevole e attraente, ma è, soprattutto, onnipresente: ognuno se ne può costruire uno con l’unica condizione di non confessarlo per un tacito accordo d’ipocrisia. Probabilmente l’idea di essere un intruso in una classe sociale che non gli apparteneva non faceva che accentuare il senso d’inadeguatezza di un outsider. Quella stessa idea di avere il piede in due scarpe è il lasciapassare per una sperimentazione oltre la norma.

Alla maggior parte delle persone occorre coraggio per gettare la maschera minuziosamente adibita a facciata, perché è la regola che dà ordine al mondo, è l’illusione di una coerenza tanto agognata nelle storie della letteratura. La trasgressione rimane ancorata al sogno invisibile di una notte, per il resto tutto sarà votato all’equilibrio di una bilancia immaginaria tra peccati e opere buone. John Cheever, invece, sceglie di spogliarsi di ogni velo che lo divide dall’apparenza e ogni contatto con la sensibilità gli fa smantellare le impalcature borghesi con più sincerità di chiunque altro.





Per sviluppare uno stile tutto personale bisogna passare per un apprendistato letterario tortuoso e non sempre facile. Anche se, come ha affermato nella raccolta completa dei suoi racconti, «il parto di uno scrittore, diversamente da quello di un pittore, non rivela alcuna interessante affinità con i suoi maestri», il John Cheever degli inizi non nasconde un certo fascino per le opere di Ernest Hemingway. Birra scura e cipolle dolci (traduzione di Leonardo G. Luccone, Racconti Edizioni) raccoglie i tentativi letterari tra il 1931, quando aveva diciannove anni, e il 1942 e chiarisce subito una vicinanza di ricognizione: la semplicità del periodo, la ricerca del lasciar intendere ricordano la facilità dei personaggi di Fiesta di constatare il proprio stato d’animo senza alcun lirismo. Tra le maglie di quello che potrebbe sembrare uno scarno manierismo s’intravedono alcune intrusioni di stile che diventeranno nuclei fondanti.

Avverte i passaggi del giorno e della luce, mattina, pomeriggio, la confusione del crepuscolo, sera. Avverte la primavera e il volgere della stagione. C’è una rapida increspatura di verde tra i due orti, è il grano a modellarla. È un verde terribile, che è gocciolato sul paesaggio come acqua gelida. Il fiume è in piena. Le piogge martelleranno calde e amare sul tetto di lamiera. E lei tutto questo non può fermarlo. Ha mani scarnificate e nervose, che stridono di un’energia strana. Non può alzarle e far sì che il tempo si fermi e resti immutabile, per sempre inverno. Lei tutto questo non può fermarlo con le sue mani, così come non sarebbe in grado di arginare una cataratta o un’onda gigante.

Nel racconto che intitola la raccolta Amy è la proprietaria di una fattoria che ospita vacanzieri occasionali ed è impensierita dall’avvicinarsi del suo compleanno. In poche pagine l’autore raccoglie scene cruciali fondendo lo scorrere del tempo, il susseguirsi delle stagioni e l’illusione umana d’immutabilità.

Il ritmo delle storie si adatta alle scenografie cittadine e bucoliche che daranno una casa all’autore. Se alla natura appartengono visioni ampie e contemplative sull’inevitabilità e la lentezza del compiersi umano, la città è il movimento nella folla, un disseminare di indizi di una crisi imminente. Ai panorami sconfinati si sostituiscono interni di locali, compartimenti di treni, spazi angusti per segreti in piccole villette di periferia, tutti animati da bozzetti di uomini e donne dalle sorti incomplete. La cameriera Beyonne è ossessionata dall’arrivo di una giovane ragazza; Dorothy professa una fede totale nella disciplina della danza ne La principessa; l’incombente vecchiaia di Beatrice, la spogliarellista dell’omonimo racconto, non la fa arrendere a essere una semplice sostituta. Saranno soprattutto le donne ad allungare la mano verso la luce verde del sogno americano ispirandosi proprio all’umore narrativo di Fitzgerald. Tutta la durezza romantica di Hemingway sfuma in dialoghi dal sapore malinconico e in un sottofondo di innegabile speranza, mentre l’unico intervento del narratore sarà un coinvolgimento sincero senza alcuna interferenza. 

Se i personaggi dei primi racconti erano apparizioni quasi anonime su sfondi mutevoli e ricchi di dettagli, le storie della maturità espandono le conseguenze delle scelte: spesso i protagonisti non sono semplici guizzi dal destino incerto, ma sono personalità ben definite ritratte nel percorso completo di sogno, illusione e disillusione. Il tempo delle vicende si dilata come a voler comunicare, oltre lo sviluppo stilistico, la crescita dolorosa e altrettanto lucida di chi scrive.

In Tutti i racconti (pubblicato da Feltrinelli con la traduzione di Marco Papi, Leonardo Giovanni Luccone, Adelaide Cioni, Franco Lucentini, Laura Grimaldi, Sergio Claudio Perroni) riusciamo a ricostruire le tappe di una consapevolezza crescente. Ne La pentola d’oro le luci di New York brilleranno in un modo inedito perché avvolte dal fascino distaccato che solo speranza, promesse e attese potranno conquistare; come ne Il sovrintendente della casa indovineremo i candidati alla scalata sociale attraverso la loro ascesa architettonica («Dopo un anno o due nel 9E, Chester prevedeva che si sarebbe trasferita in uno degli attici. E da lì sarebbe probabilmente decollata per uno dei più eleganti appartamenti nei quartieri alti nella Quinta Avenue»).

Anche quando il tedio della vita economica si eclissa tutti i protagonisti entrano in una spirale volubile dai contorni materiali e sociali ben definiti: i vialetti ben tosati, le villette dei suburbs disposte una accanto all’altra, le feste e le chiacchiere del vicinato, la prevedibilità della vita famigliare in tutte le sue sfumature, quel senso di profonda conoscenza e intimità che provocano voglia di evasione e insanabile noia nonostante l’infinito amore. La scrittura di John Cheever è in grado di attraversare i cliché più scontati senza offrire soluzioni ma scendendo nei meandri più oscuri della verità. Come il protagonista de Il marito di campagna che, sballottato tra lavoro e ritorno in treno alla vita di provincia, avverte un disagio che gli fa incanalare ogni speranza di cambiamento nelle fantasie con la giovane baby-sitter. O come ne La chimera in cui il pensiero del divorzio dalla moglie è frenato dall’attaccamento all’ordine del vialetto, la quiete solida e materiale di una casa che l’uomo ha riparato con le sue mani. Viene da chiedersi se il vero paradosso non sia l’ironia de Il baco della mela in cui un osservatore esterno non fa che scandagliare la perfetta normalità di una famiglia che sembra non avere nessun segreto.

I Crutchman erano così felici ma così felici, e così moderati in tutte le loro abitudini e così contenti di tutto quello che gli capitava, che si era portati a sospettare che ci fosse un baco in quella mela così rossa.

A leggere storie di matrimoni, innamoramenti, tradimenti, traslochi, figli, ricchezza e miseria si ha quasi l’impressione di essere al cospetto di un compendio della natura umana: tutti vivono nella speranza di un futuro che non c’è mai stato, tutti desiderano il tempo sospeso per vivere il presente allo stesso modo del passato.

“Speriamo che mio padre si sia ricordato di fare benzina”, dice un ragazzo, e una ragazza scoppia a ridere. In mente non hanno altro che lo snodarsi delle sere d’estate. Né tasse né elastici di mutandine – tutte quelle incresciose realtà di vita che minacciano di soffocare Cash – hanno ancora toccato le sagome che sciamano nel giardino dei Rogers. Allora l’invidia lo ghermisce – un’invidia talmente violenta e disperata da farlo star male […].

Si sente come se i ragazzi nel giardino dei Rogers fossero fantasmi di una festa allestita in quel passato che contiene ogni suo desiderio e ogni suo svago, e da cui è stato crudelmente scacciato. Si sente come il fantasma delle sere d’estate. La nostalgia lo soffoca. (dal racconto Oh gioventù e bellezza!)

Lo stile di Cheever riesce a dare importanza a ogni dettaglio del percorso tutto personale dei protagonisti fino a dissezionare ogni sentimento utile a scandire il momento di rottura. Non è detto che per ogni vicenda ci sia una risoluzione, basterà aver illuminato una crepa dell’oscillante natura umana per suggerire uno sviluppo futuro.

Più che leggere storie per estraniarci dalla realtà viene voglia di immaginare il narratore e avremo la tentazione di definirlo onesto, persino autentico perché, con un’eleganza stilistica maniacale, ha confessato una claustrofobia di valori e pratiche che per la maggior parte delle persone costituiscono tappe scontate. Non dimentichiamo però che John Cheever era il primo a rimanere fedele a quella stessa società che criticava, «un adultero che scrisse convincenti elogi della monogamia». Eppure la sua idea di letteratura era contro ogni riferimento alla vita privata perché «la fiction non è criptoautobiografia: il suo splendore sta nel fatto che non è autobiografica. E non è nemmeno biografica. È un ricchissimo complesso di autobiografia e biografia». Nonostante le proteste non possiamo che accostarlo continuamente alle sue storie, ma lo guarderemo sotto la lente di estrema fedeltà a se stesso e di una sottile ribellione, come a voler intraprendere il percorso esistenziale a ritroso dal mondo degli adulti all’innocenza dell’infanzia.

Il tentativo di conservare le apparenze di un uomo immerso nel suo tempo è la speranza di chi è sceso a patti con le parti più contraddittorie della vita. Invece di nasconderle e arrendersi a una normale accettazione, continuerà a raccontarle avvolgendole di speranza come ne I gioielli di Cabot: «I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra».
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giovedì 24 agosto 2023

Fleur Jaeggy e Franco Battiato / Romanzi e canzoni «per anni beati»

Fleur Jaeggy


 Fleur Jaeggy e Franco Battiato: romanzi e canzoni «per anni beati»

ARTICOLO. «I beati anni con… Battiato» è il titolo dello spettacolo di «Fiato ai libri» che fa incontrare uno dei più bei romanzi della scrittrice svizzera, «I beati anni del castigo», con le canzoni del grande musicista scomparso l’anno scorso. I due collaborarono nella scrittura dei testi di diversi brani: un’affinità intellettuale che l’attrice Sandra Zoccolan e il pianista Mell Morcone porteranno sabato 1 ottobre in piazza Pertini a Palosco (ore 21, ingresso gratuito, in caso di pioggia all’Auditorium comunale)

scritto da Luca Barachetti
28 Settembre 2022

Franco Battiato nel 2009 raccontò a La Stampa che dalla metà degli anni ’70 in poi, quando ancora viveva a Milano, ogni lunedì sera si trovava con Ombretta Colli, Giorgio Gaber, Roberto Calasso e sua moglie Fleur Jaeggy a giocare a poker. In palio però non c’era del denaro: come ha confermato anche Dalia Gaberscik (la figlia di Gaber e Colli) i partecipanti si giocavano dei libri Adelphi – di cui Calasso era direttore editoriale. Basta citare Georges Ivanovič Gurdjieff e René Guénon, nomi pubblicati in Italia proprio da Adelphi che furono fondamentali nella formazione di Battiato, per capire quanto la casa editrice sia stata importante per il musicista siciliano, che era un lettore vorace, uno di quelli – per intenderci – che non leggono mai un libro alla volta.

L’amicizia fra Battiato e Jaeggy, che poi diventerà una collaborazione artistica, nasce al tavolo da gioco, ma soprattutto da un’affinità intellettuale che si rivela già nei primi dischi di Battiato: nel 1977 «Hiver», un brano dal disco «Juke Box», contiene un frammento dal libro «Le statue d’acqua» della scrittrice svizzero-tedesca, e Jaeggy con le sue parole spunterà qua e là lungo tutta la produzione di Battiato. Forse il frutto più famoso di questa collaborazione è «Le aquile» (da «Patriots», 1980), ma frammenti, anche in tedesco, di parole jaeggyane spunteranno in tanti altri brani: «Tramonto occidentale», «L’oceano di silenzio», «Atlantide», «Il sogno» (seconda parte del magnifico brano «La porta dello spavento supremo», la prima parte è del filosofo Manlio Sgalambro). Fino a quei due interventi – di culto per ogni fan di Battiato – nella ghost-track del primo «Fleurs» e in «Shackleton» da «Gommalacca» (con tanto di voce e accreditamento come Carlotta Wieck).

«Fiato ai libri» racconterà il rapporto artistico fra i due in «I beati anni con… Battiato», uno spettacolo in cui uno dei più bei libri di Fleur Jaeggy, «I beati anni del castigo», incontrerà le canzoni di Battiato in un omaggio molto particolare. Una “fotografia” inedita e decisamente letteraria della produzione di Battiato, grazie a quel piccolo capolavoro che è il libro di Jaeggy, uscito nel 1989 e premiato con il Bagutta nel 1990.

A occuparsi di tutto questo sul palco sarà l’attrice Sandra Zoccolan, di casa a «Fiato ai libri», e il pianista (per l’occasione anche alle tastiere) Mell Morcone«L’idea – racconta Zoccolan – è nata da Giorgio Personelli (il direttore artistico di Fiato ai libri, ndr), il quale mi ha spesso proposto delle letture durante gli anni di “Fiato ai libri”, perché conosce bene il mio modo di recitare e la mia personalità. Ho accettato questa proposta con curiosità e quando ho iniziato a lavorare a questo spettacolo mi sono appassionata molto e l’ho trovata da subito un’ottima idea».

Ma di cosa parla «I beati anni del castigo»? Con una scrittura “fredda”, minimale, ma capace di usare una sorta di bisturi poetico nello sviscerare gli stati d’animo della protagonista (anche io-narrante), Fleur Jaeggy narra la vita di una ragazza adolescente in un collegio femminile in Svizzera, nell’Appenzell. Quasi da subito – in questa atmosfera di malinconico idillio e costrizione che genera desideri amorosi e di fuga – arriva una nuova ragazza, Frédérique, una sorta di bellissima dea della perfezione dal passato oscuro di cui si subodorano svariate esperienze. Fra le due nasce un’amicizia intensa e silenziosa, che per la protagonista diventa via via un amore non corrisposto e nel frattempo svela quel mondo di mezzo (abitato da fantasmi e visioni) che sta fra la perfezione e la follia. «I beati anni del castigo» è un romanzo tanto quieto nel procedere quanto perturbante nell’esito finale ed è una gran cosa che sia nel programma 2022 di «Fiato ai libri».

Zoccolan ha incastonato in questa storia alcune canzoni di Battiato di cui Jaeggy è stata coautrice del testo o brani adatti per l’atmosfera che sanno creare«Ad esempio “Oceano di silenzio” – spiega lei – di cui Jaeggy ha scritto il testo in tedesco. Ma anche qualche traccia strumentale dal computer, che possa restituire quella parte sperimentale ed elettronica del repertorio di Battiato». Che cosa accomuna i due artisti è «la ricerca e l’analisi esistenziale, oltre alla ricercatezza delle parole. Jaeggy è una scrittrice che lavora molto sui contrasti, sugli ossimori: queste antitesi si avvicinano durante la narrazione e si mescolano, gli opposti si confondono fra loro e forse si specificano meglio. Anche nelle canzoni di Battiato c’è questa ricerca che va verso il mistero della vita, verso certi stati emotivi, verso tematiche come il tempo, il silenzio».

Il tema del silenzio torna in certe pagine di Jaeggy «che descrivono alcune passeggiate dell’io narrante caratterizzate dal desiderio del silenzio, come se chi narra volesse raggiungere quella solitudine dentro la quale non c’è solo il piacere del silenzio ma anche la percezione dell’assoluto nella solitudine. Ecco il perché dell’associazione con “Oceano di silenzio”, una canzone che mi sembra abbia a che fare con il senso del tempo, che scorre lento nel silenzio». E anche con la reincarnazione, in cui Battiato credeva e di cui Jaeggy sembra scrivere in «Oceano di silenzio». Traducendo dal tedesco: «E mi sembra quasi / Che un ricordo oscuro mi dica / Ho vissuto in tempi passati / Ho vissuto lassù o nell’acqua».

Ad un certo punto del libro compare un nuovo personaggio, Micheline, una ragazza che a differenza di Frédérique è piena di vita e ha voglia di divertirsi come una qualsiasi ragazza della sua età. La protagonista ne viene subito attratta e abbandona per un momento il pensiero di Frédérique: «per questo passaggio del testo ho inserito “Segnali di vita” con i suoi versi “il tempo cambia molte cose nella vita / il senso, le amicizie, le opinioni / he voglia di cambiare che c’è in me”. Una canzone a cui Jaeggy non ha contribuito ma che per analogia riesce a dialogare con il romanzo».

Si sa che un libro ha valore anche grazie al suo incipit. E quello de «I beati anni del castigo» di certo non sfigura: «A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve».

Robert Walser – scrittore svizzero citato non casualmente da Jaeggy, come una sorta di nome programmatico della sua poetica, in un bellissimo intreccio fra letteratura vissuta e letteratura scritta – morì nel Natale del 1956 abbandonandosi nella neve. Viveva in manicomio (dunque il suo “fantasma” all’inizio del romanzo anticipa quella follia che sarà sempre meno in filigrana nella narrazione) e amava passeggiare (altro motivo ricorrente nel romanzo) con il mecenate e letterato zurighese Carl Seelig, che dal 1944 lo sosteneva economicamente e gli faceva spesso visita: «Io inizio lo spettacolo con questa immagine dello scrittore Robert Walser, a cui abbino una colonna sonora elettronica ripresa da Battiato, come se per un attimo ci fosse la visione di questa scena. Mell Morcone, che mi accompagnerà, userà la tastiera oltre al piano, con cui giocherà sulle parti elettroniche di Battiato».

Ma le associazioni fra il romanzo e le canzoni non finiscono qui: «“Come un cammello in una grondaia” si riallaccerà alla voglia di fuga della protagonista quando passa del tempo in albergo col padre. Il testo dice: “E ancora, sto aspettando, un’ottima occasione per acquistare un paio d’ali e abbandonare il pianeta”». Un altro elemento che ricorre nella narrazione sono i corvi, che volano liberi durante le passeggiate della protagonista, con o senza Frédérique: «Ho inserito anche “Gli uccelli” perché i corvi mi hanno fatto pensare a questa canzone». E c’è spazio anche per brani minori «come “Splendide previsioni”, sul cui testo intervenne Jaeggy, e anche “Le voci si faranno presenze”, legato all’incontro che la protagonista farà con Frédérique anni dopo la fine del periodo in collegio, scoprendo che la ragazza parla coi morti. La canzone finale invece sarà “L’ombra della luce”, mi sembrava il contrasto perfetto con cui chiudere la lettura del romanzo».

Insomma, un’angolatura su Franco Battiato inedita, che coinvolge una grande scrittrice per uno spettacolo affascinante, in grado di riservare sorprese. Siamo lontani anni luce dal Battiato best-seller de «La voce del padrone» ed è difficile pensare che una costruzione letteraria e musicale di questo peso si fermi dopo la data di «Fiato ai libri»: «In effetti la preparazione dello spettacolo mi sta così appassionando che sto pensando di portarlo in giro per i teatri, come avevo fatto per altri spettacoli del festival. Vedremo come andrà sabato e poi se ci sarà qualcosa da perfezionare lo faremo. Del resto non si finisce mai di migliorare».

L'ECO DI BERGAMO





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DANTE
Il doloroso incanto di Fleur Jaeggy
Fleur Jaeggy e Franco Battiato / Romanzi e canzoni «per anni beati»

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lunedì 21 agosto 2023

Il doloroso incanto di Fleur Jaeggy

 



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Il doloroso incanto di Fleur Jaeggy

di Debora Lambruschini

April 30, 2021

La felicità feriva come una lama ardente.

(“Senza destino”, La paura del cielo)

 

Di lame è disseminata l’opera intera di Fleur Jaeggy: frasi spietate, parole scelte con precisione chirurgica, la prosa limata e limata ancora fino a ridurla all’essenziale, non un termine o un segno di punteggiatura superflui. Nata in Svizzera e presto trasferitasi in Italia, Fleur Jaeggy è una scrittrice schiva, che rifugge ogni logica editoriale, centellina le parole e strega i suoi lettori con quella prosa scarna, le increspature minime della superficie che lasciano intravedere il mondo sommerso della narrazione. Leggere romanzi e racconti di Jaeggy, tutti editi da Adelphi, è un doloroso incanto: colpiscono per la profonda introspezione dei personaggi, i movimenti interiori svelati da un gesto, una di quelle piccole arricciature che rivelano l’abisso; ma è anche una lettura che scortica, mai consolatoria o salvifica, una discesa negli angoli bui dell’essere umano, tra solitudini, parole taciute, assenze, perdite. Una letteratura che si nutre di ossessioni, della scrittrice rispetto a determinate tematiche e spunti, del lettore catturato dalla «calma violenta» della narrazione.
Mi avvicino a Jaeggy con diffidenza, nel tentativo di svelarne il mistero, il suo nome che non smette di circolare sottovoce tra i lettori, una sorta di passaparola lontano dal caos del mainstream; è un incontro il nostro avvenuto quasi per caso: la prosa di Jaeggy portata come esempio delle capacità della sottrazione, di raccontare i moti dell’animo umano, una narrazione costruita sull’interiorità dei personaggi, in cui trama e forma si compenetrano. Traccio la strada che mi ha condotta a Jaeggy perché lì si è delineato il mio personale modo di leggerla, tentando di interpretarla e farla mia, sbagliando probabilmente e cogliendone solo una parte minima, soggettiva, marginale, come in fondo lo è ogni lettura che facciamo. Ma immergersi totalmente nel mondo di questa scrittrice sfuggente è stato il modo ideale per comprendere la malia esercitata sui lettori, il filo rosso che lega ogni pagina scritta in un gioco perfetto di rimandi, spunti, occorrenze e, ancora, la fiducia nella propria scrittura, mai mutata.
È così, quindi, che ci si accorge anche di come Jaeggy scriva e riscriva – magnificamente – la stessa storia: come Richard Yates, come Shirley Jackson, come Raymond Carver, Jaeggy nutre la propria ossessione e la nostra scrivendo e riscrivendo appunto lo stesso nucleo essenziale, ma ogni volta è un piccolo miracolo di scrittura e profondità. Inseguendo un filo cronologico, si parte da I beati anni del castigo – le primissime opere di Jaeggy sono praticamente introvabili -, il romanzo del 1989 con cui vinse il Premio Bagutta: e non è un caso, iniziare proprio da qui, perché è dentro queste pagine che si trova il nucleo narrativo di Jaeggy, quello che inseguiremo una storia via l’altra, tra richiami talvolta espliciti, altre più sottesi. E qui c’è già tutto il suo mondo letterario: un collegio femminile sulle alpi svizzere, le assenze, la solitudine, l’amicizia che sconfina nell’amore-ossessione, la gioventù mai innocente, la vita indissolubilmente legata alla morte, il contrasto dentro-fuori; la scrittura già perfetta, il gusto per l’ossimoro, i ripetuti cambi di tempo verbale e di soggetto, il profondo lavoro di omissione, i dettagli minimi che rivelano le voragini della narrazione. I beati anni del castigo è il romanzo più celebre di Jaeggy ed è qui che si delineano i tratti delle narrazioni che verranno, i perni intorno a cui l’autrice costruisce il suo mondo letterario, a partire dalle assenze e dal senso di solitudine, un fantasma che migra di storia in storia. È, per esempio, assenza di punti di riferimento famigliari solidi: il rapporto di quasi totale estraneità tra il padre e la figlia protagonista e narratrice principale della storia, la figura sullo sfondo di una madre lontana ma ingombrante che detta legge e decide di ogni aspetto della vita della figlia, pur non palesandosi mai.

 

Lei ordina, io obbedisco, i trimestri sono guidati da lei, è tutto scritto nelle lettere e nei francobolli,
campane senza suono. Dispacci.

(I beati anni del castigo)

 

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Assenza di parole, perché non adeguate a dare voce a sentimenti complessi, all’amicizia tra lei e la nuova arrivata, Frédérique, bella, schiva, misteriosa quel tanto che basta a conquistare il cuore della protagonista e ad aprire una voragine con la sua improvvisa assenza.

 

Avevo perso ciò che avevo di più importante nella mia vita, il cielo era sempre azzurro, dimentico, tutto anelava alla pace e alla felicità, il paesaggio era idilliaco, come l’adolescenza idilliaca e disperata.
(I beati anni del castigo)

 

Di queste voragini, ancora una volta, è intessuta ogni storia di Jaeggy: abissi di solitudini e disperazione che si rivelano da una fotografia, da un segreto serbato per tutta la vita, da un gesto violento e brutale. Jaeggy apre squarci, sulla pagina e dentro il lettore, con una scrittura che rasenta la freddezza tanto è calibrata, scarna.
Mancanze anche quando le distanze si accorciano, almeno geograficamente, ma che non sanno farsi parola, affetto, reale vicinanza: nemmeno tra un padre e una figlia, insieme in crociera (Proleterka, 2001) per quello che sono consapevoli essere l’ultimo viaggio, l’ultima occasione per conoscersi davvero.

 

Per lui è importante quel viaggio. Avevo pensato prima di partire che mi era indifferente la destinazione. Il viaggio in Grecia faceva parte della mia educazione. È il nostro primo viaggio – e sembra l’ultimo. Johannes, la persona a me inverosimilmente ignota. Mio padre. Non una confidenza. Eppure un legame anteriore alle nostre esistenze. Una conoscenza nell’estraneità totale.

(Proleterka)

 

L’incomunicabilità è tale tra i due da renderli quasi estranei, la distanza che si fa vuoto, un’assenza già annunciata, vissuta. Quel viaggio che dovrebbe essere l’occasione di un avvicinamento, diviene invece per la protagonista il tempo della scoperta sessuale, il passaggio brutale dall’infanzia all’età adulta ma, si badi bene, non la perdita dell’innocenza, una condizione estranea ai personaggi e alle narrazioni di Jaeggy. E quella madre lontana, la cui autorità non viene mai meno, nonostante la distanza e la “libertà” conquistata dopo gli anni del collegio, il vuoto che la sua partenza ha lasciato tra loro.

 

Il suono del pianoforte rappresenta tutto ciò che non ho avuto. La sentivo suonare quando ero molto piccola, quando ancora era sposata con Johannes. Poi quel suono è finito. Le stanza tacevano. Ho odiato quel silenzio, senza saperlo. Il silenzio ricevuto da un uomo e una donna che si lasciavano e hanno disposto in modo assoluto della vita di una figlia.

(Proleterka)

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Una madre che muove vite e custodisce segreti terribili, che si rincorrono, come altre micro narrazioni, da un racconto all’altro. Dove, per esempio, ritroviamo Frédérique, irriconoscibile, perduta, colmiamo parte dei vuoti della narrazione, delle assenze, ma rinunciando subito all’idea di ottenere un quadro con tutti i dettagli, possiamo solo cogliere i piccoli indizi che Jaeggy dissemina qui e là, le rivelazioni che ci concede improvvise. Tragica e meravigliosa, Frédérique appare come un fantasma, alimenta l’ossessione mai svanita della protagonista, la intravediamo qualche volta chiaramente altre meno, in un gioco di complicità tra Jaeggy e il lettore. Perduta, la malattia mentale che esplode violenta, i tentativi di salvarla. Ecco, la violenza, tanto brutale quanto inaspettata, è un’altra ricorrenza nelle pagine di Jaeggy che, a tratti, ricorda certe storie di Shirley Jackson, pur con tutte le differenze del caso. Esplode sulla pagina di Jaeggy in forme e moti diversi: è il gesto improvviso di una mente distorta, è la vendetta contro una vita sofferta, ma è anche la complicità dettata dalla compassione e dall’amore, forme molteplici che si sommano quasi tutte ne La paura del cielo, sette racconti di brutale bellezza. Qui le occorrenze sono date dal cielo minaccioso, dal gesto violento appunto, dalla riflessione su solitudine e assenze che come un fil rouge percorrono l’opera tutta di Jaeggy. Ancora, la perdita e il lutto, l’incomunicabilità dentro i rapporti, la morte, il suicidio talvolta, che tornano nelle pagine di Sono il fratello di XX, un altro sguardo ancora sulla protagonista senza nome del primo romanzo, sulle vite intrecciate alla sua, i misteri almeno in parte svelati.
Le «vite sbagliate» cui Jaeggy dà forma sono intrise di mancanze, dolore, un vuoto riflesso come si diceva dalle profondità della narrazione, dalla sottrazione, che trova massima espressione nel racconto breve, brevissimo, ma che in fondo è un modo proprio di guardare e sentire una storia, fotografandone un certo dettaglio, lavorando ossessivamente sulla parola, mostrando le increspature della superficie; un’attitudine che si rivela anche nei romanzi – se possiamo considerarli davvero tali o non più propriamente novelle. Che racconti un frammento o una vita intera – per esempio nelle Vite congetturali di De Quincey, Keats e Schwob – riconosciamo quella particolare lente con cui lo scrittore di racconti osserva il mondo e ne ricrea un dettaglio.
Tra le pagine di Jaeggy non c’è consolazione, ma nutrimento per quel demone della scrittura che tanto ci ossessiona.


OSSERVATORIO CATTEDRALE




DE OTROS MUNDOS

8 escritoras comparten su lista definitiva de lecturas para la cuarentena
La dulce crueldad de Fleur Jaeggy
Fleur Jaeggy / Suiza, infame y genial
Fleur Jaeggy / La agonía de los insectos
Fleur Jaeggy / Pétalos enfermos
El perturbador y depurado bisturí de Fleur Jaeggy / A propósito de 'El último de la estirpe'
Fleur Jaeggy / La flor del mal
Fleur Jaeggy / Sublime extrañeza
Fleur Jaeggy / Los hermosos años del castigo / Reseña de Enrique Vila-Matas
Claustrofóbica Fleur Jaeggy
Fleur Jaeggy / Las cosas desaparecen / Entrevista

CUENTOS
Fleur Jaeggy / Negde
Fleur Jaeggy / El último de la estirpe
Fleur Jaeggy / Agnes
Fleur Jaeggy / El velo de encaje negro
Fleur Jaeggy / Un encuentro en el Bronx
Fleur Jaeggy / La heredera
Fleur Jaeggy / La elección perfecta
Fleur Jaeggy / La sala aséptica
Fleur Jaeggy / Retrato de una desconocida
Fleur Jaeggy / Gato
Fleur Jaeggy / Ósmosis
Fleur Jaeggy / La pajarera

DANTE
Il doloroso incanto di Fleur Jaeggy
Fleur Jaeggy e Franco Battiato / Romanzi e canzoni «per anni beati»

DRAGON
The Austere Fiction of Fleur Jaeggy
Fleur Jaeggy’s Mourning Exercise
The Single Most Pristine Certainty / Fleur Jaeggy, Thomas Bernhard, and the Fact of Death
Close to Nothing / The autofictional parodies of Fleur Jaeggy
The Monumental Lonerism of Fleur Jaeggy
Sacred Inertia / Review of I Am the Brother of XX & These Possible Lives by Fleur Jaeggy
I Am the Brother of XX by Fleur Jaeggy review – otherworldly short stories

SHORT STORIES
The Black Lace Veil by Fleur Jaeggy
An Encounter in the Bronx by Fleur Jaeggy
The Heir by Fleur Jaeggy
The Perfect Choice by Fleur Jaeggy