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domenica 17 agosto 2025

La storia di Elsa Morante, prima donna vincitrice del Premio Strega

 


La storia di Elsa Morante, prima donna vincitrice del Premio Strega

Ancora oggi L'isola di Arturo è un caposaldo della letteratura italiana.

DI EVA LUNA MASCOLINO


Era il 1957 e il prestigioso Premio Strega esisteva già da dieci anni quando, con il romanzo L’isola di Arturo, la scrittrice romana Elsa Morante diventava la prima donna ad aggiudicarsi il primo posto. Un momento importante nella storia della letteratura italiana, che riconobbe il valore di un romanzo di formazione diverso dal solito, intriso di neorealismo e al tempo stesso di atmosfere epiche e di simbolismi. Ma chi era la sua autrice e come mai ancora oggi rappresenta una pietra miliare della cultura del Novecento? Nata in una famiglia umile, nel quartiere popolare di Testaccio, Elsa Morante era figlia di una insegnante di religione ebraica e di un impiegato siciliano di nome Francesco Lo Monaco, anche se ufficialmente venne riconosciuta come figlia da Augusto Morante, marito di sua madre Irma Poggibonsi e genitore – solo sulla carta – di altri tre bambini.



Sviluppando fin da piccola una certa propensione per la scrittura, compose filastrocche, fiabe e racconti già da ragazza, per poi decidere di andare via di casa dopo la scuola per iscriversi alla facoltà di Lettere, dove sperava di concretizzare la sua passione mentre intanto era già stata pubblicata su diverse riviste. Iniziò allora a mantenersi da sé dando ripetizioni e riuscendo a scrivere per giornali come Il Meridiano di Roma e Oggi, nei quali si firmava spesso con uno pseudonimo. Nel 1936, grazie al pittore Capogrossi, conobbe poi Alberto Moravia, il famoso autore de La noia Gli indifferenti, con cui strinse un rapporto di stima e di fiducia, conoscendo grazie a lui intellettuali del calibro di Umberto Saba e di Pier Paolo Pasolini. Con Moravia abitò per anni in uno stabile di via Sgambati, a Roma, anche dopo che i due si sposarono e portarono avanti insieme la carriera della scrittura. Elsa Morante, nello specifico, pubblicò Il gioco segretoLe bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina, poi ampliato ne Le straordinarie avventure di Caterina, e in seguito Menzogna e sortilegio, con cui nel 1948 si aggiudicò il Premio Viareggio.



Dopodiché, passarono quasi dieci anni prima che uscisse un suo nuovo romanzo, ma si sarebbe trattato per l’appunto de L’isola di Arturo, che avrebbe confermato il suo talento anche agli occhi della critica e dell’élite culturale, vincendo il Premio Strega e mettendo sulla scena la vicenda di un giovane che solo sull’isola di Procida sognando di esplorazioni e condottieri, finché sul posto non arriva una ragazza di cui il protagonista si scoprirà innamorato. Nel frattempo, già all’indomani della vittoria, Morante e Moravia avevano ripreso a condurre una vita serena, dopo i pericoli corsi sotto il regime fascista che li aveva costretti a rifugiarsi sulle montagne di Fondi, in Ciociaria, anche se lei non sempre era convinta del proprio valore letterario e finì per distruggere gran parte dei suoi manoscritti, dando alle stampe solo in un secondo momento Lo scialle andaluso, uscito per l’antologia Storie italiane moderne.


Ma nemmeno la fragile serenità familiare durò molto, perché nel 1961 divorziò dal marito e frequentò numerosi artisti dell’epoca, avvicinandosi prima a Luchino Visconti, poi a Bill Morrow, senza dimenticare Cesare Garboli e Carlo Cecchi. Con loro cercò di colmare il bisogno di essere amata e protetta, senza forse esserci riuscita mai del tutto, e grazie anche a una condizione economica più stabile viaggiò fra la Russia e la Cina, spingendosi addirittura in Brasile e in India. Le sue condizioni di salute, però, peggiorarono di anno in anno, portandola a riprendere uno stile di vita più sedentario e al tempo stesso a pubblicare opere di grande rilievo, come La storia del 1974 e Aracoeli del 1982, l’ultimo romanzo uscito a suo nome. In quel periodo, infatti, Elsa Morante subì un intervento che la portò a perdere l’uso delle gambe, dopo il quale trascorse gli ultimi anni della sua vita immersa nella malinconia: si spense nel 1985, all’età di settantatré anni, quando ormai intanto era entrata a pieno titolo nel pantheon dei grandi intellettuali del XX secolo.


BAZAAR


sabato 16 agosto 2025

“Menzogna e sortilegio”: il romanzo familiare di Elsa Morante

 


Elsa Morante, Bernando Bertolucci, Adriana Asti e Pier Paolo Pasolini

“Menzogna e sortilegio”: il romanzo familiare di Elsa Morante

Elsa Morante è stata una delle scrittrici e personalità più influenti del Novecento. Il suo romanzo Menzogna e sortilegio è un esempio di uso di temi tipici di questo secolo nella forma lunga.

lunedì 27 settembre 2021

Dalla camera di Testaccio, all’attico condiviso con Alberto Moravia, i luoghi preferiti di Elsa Morante

italian novelist and poet elsa morante 1918   1985, 1940s photo by pictorial paradegetty images

Dalla camera di Testaccio, all’attico condiviso con Alberto Moravia, i luoghi preferiti di Elsa Morante

Ciascuna delle opere della scrittrice potrebbe essere ricondotta alle stanze dentro cui prese forma.

DI ALESSIA VITALE 03/05/2021

venerdì 13 settembre 2019

Elsa Morante e l'isola di Arturo

  • Elsa Morante

    ELSA MORANTE E L’ISOLA DI ARTURO

    di Sergio Saviane
    Non si capisce bene dove lavori Elsa Morante: se In via dell’Oca 27, dove ha alcune stanze sopra l’appartamento del marito Alberto Moravia, o In via Archimede 121, dove ha uno studio più complicato e ancora più personale. Gli amici dicono che Elsa Morante pensa in via dell’Oca quello che poi scrive, nel pomeriggio, In via Archimede. Per ora, comunque, Elsa Morante passa quasi tutta la sua vita in questi due appartamenti tra dischi di Mozart, Verdi, Pergolesl e gatti siamesi e persiani. Eppure è proprio nelle piccole stanze di via dell’Oca che sembrano nascondersi, con i gatti, sotto i sommiers e le poltrone grosse e impacciate tra le strette pareti, i segreti più cari della Morante. Nella camera-studio, che riceve obliquamente il sole di via Ripetta e di piazza del Popolo, l’autrice di Menzogna e sortileggio custodisce ricordi di lunghe giornate di lavoro e notti intere passate intorno al suo primo libro, così pieno di penombre, inganni, tradimenti, sotterfugi. E anche se, a prima vista, la misteriosa abitatrice di quelle stanzette sembra non voglia interessarsi ai fatti più esteriori della vita, agli amici, al marito, ai libri, agli scrittori, tuttavia si sente vivere dentro di lei una grande popolazione di personaggi reali, da cui difficilmente riesce a staccarsi e che nella vita hanno le loro radici.
    Chi sono questi personaggi? Negli ultimi tempi, Elsa Morante ha letto con molta cura tutto Pavese.
    Elsa Morante non scrive sempre. Nei periodi in cui la prende l’assillo di un nuovo libro dedica quasi tutte le ore del giorno a questo lavoro. Ma è difficile che lei ne discuta. Preferisce parlare nel suoi libri. Al primo romanzo di settecento e più pagine del 1948, farà seguire presto L’Isola di Arturo: oltre cinquecento pagine.
    Arturo è un ragazzo «molto intelligente e felice» che a diciotto anni, dopo essere stato prigioniero degli inglesi in Etiopia, scrive ricordando la sua prima infanzia.
    «Occorre far parlare i personaggi» dice Elsa Morante «perché oggi non si crede più nella realtà obiettiva» E qui cita Balzac. «Il romanzo contemporaneo» continua «ha altre esigenze. Lo scrittore deve scrivere una realtà di cui ha un’esperienza. Per scrivere bisogna mettersi in un personaggio moderno e raccontare in modo che divenga un fenomeno moderno. Alcuni critici e gruppi credono che il romanzo sia finito. Il romanzo invece è giovane. Ha appena due secoli e mezzo e la sua grande età, a mio avviso, comincia proprio oggi. Non si tratta di rinnovare il romanzo ottocentesco. Il romanzo sociale, ottocentesco, è sorpassato».
    Ma allora del Metello di Vasco Pratolini? come si spiega il grande successo? Si racconta che una sera, a proposito del Metello, nel centro di una vivace discussione con amici e scrittori, Elsa Morante abbia detto che dopo Verga non c’è stato nessun autore, salvo uno di cui non è difficile immaginare il nome, che abbia saputo costruire un vero romanzo.
    Con i contemporanei Elsa Morante non sembra avere molta familiarità. Dice che Melville e Stendhal sono state le sue letture più forti, ma non parla volentieri degli scrittori del suo tempo. Ai primi nomi che si fanno, scivola su altri argomenti. Tutto al più ammette che Cesare Pavese e Aldo Palazzeschi sono i due autori preferiti. Di scrittori giovani non ne conosce molti. Ha letto qualche cosa di Italo Calvino e di Pier Paolo Pasolini (di cui apprezza le poesie dialettali, mentre fa qualche riserva su Ragazzi di vita) e Giuseppe Patroni Griffi del Ragazzo di Trastevere. Di Domenico Rea le sono molto piaciuti Madre e figlia e Idillio apparsi sull’ultimo libro, Quel che vide Cummeo: gli altri racconti le interessano meno per una certa colorazione ottocentesca. Riconosce che Moravia è romanziere sensibile ai tempi in cui slamo, ma lo considera scrittore lontano dai suoi ideali.
    Elsa Morante non scrive articoli per giornali. Preferisce dedicarsi ai suoi libri e alle sue poesie. Ha finito un’opera insolita nella nostra letteratura. È una composizione in versi, Alibi, «quasi un poema», lei dice, cui è molto affezionata.
    Elsa Morante non vuol sentire parlare di donne scrittrici. «È assurdo» esclama, uscendo dalla sua apparente timidezza, «dividere le scrittrici dagli scrittori: è come dividere l’umanità in biondi e bruni. Saba, che per me è il più importante poeta, dice che Marcel Proust è la più grande scrittrice del mondo».
    L’Espresso, 2 ottobre 1955


    lunedì 22 aprile 2019

    Elsa Morante / Una gentile festa per gli occhi

    Elsa  Morante

    Elsa Morante

    Una gentile festa per gli occhi


    Una delle più recenti acquisizioni del Fondo Morante alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma consiste in un corpus di 47 recensioni cinematografiche che l’autrice scrisse fra l’inizio del 1950 e il novembre del 1951 per la rubrica radiofonica della RAI Cinema.

     Cronache di Elsa Morante

    Pubblicate l’anno scorso a cura di Goffredo Fofi con il titolo La vita nel suo movimento (Einaudi, 2017), le recensioni delineano la postura critica di una scrittrice-spettatrice che guarda i film – i più vari: italiani e stranieri, di autore e di genere, drammatici e comici – con una sua sensibilità visuale, ma in virtù soprattutto di una concezione estetico-letteraria del cinema, riconoscibile, per quanto riguarda il testo presentato, dell’estate 1951, nell’affermazione che in Powell e Pressburger «il colore è espressione non soltanto di un sapiente gusto pittorico, ma anche di poesia». Altrove, questa impostazione tradisce una certa irritazione per le trasposizioni giudicate troppo disinvolte di opere letterarie in film, come Madame Bovary di Minnelli e persino Macbeth del pur amato Welles, o anche il timore che «un bel giorno la gente dalla mente pigra e passiva, che forma la maggioranza del pubblico, preferisca andare a vedere i libri piuttosto che leggerli». Di qui, ancora, un certo snobismo: non solo nei confronti del cinema italiano, spesso oggetto di critica nella sua involuzione verso la commedia di crasso intrattenimento, ma anche nei confronti di generi non particolarmente graditi, come il giallo, definito «un passatempo alla buona», simile alla canasta o alle parole crociate. 

    Si noteranno poi nella recensione, oltre alla parzialità di alcuni giudizi, il tono umoristico e la messa in scena dell’io scrivente, che ribadiscono l’impronta autoriale della rubrica: Morante valuta i film secondo parametri di spettatrice colta ed esigente, ma anche secondo la sua visione del mondo di scrittrice, che le fa apprezzare, ad esempio, fiabe e western, sentiti vicini alla sua predilezione per il romance. Per questo, nel caso di Powell e Pressburger, la sua preferenza va a Scala al paradiso, in cui «la maestria tecnica e l’ispirazione poetica si componevano in effetti di un realismo sobrio e immaginoso e di una fantasia misurata e sorprendente». A ben vedere, infatti, queste parole sarebbero calzanti anche per Menzogna e sortilegio, così come non meno sospetta risulta nella descrizione ammirata del talento del «geniale duetto» inglese il ricorrente riferimento alla grazia, cui già nel Gioco segreto, nel 1941, Morante aveva dedicato un ‘frivolo aneddoto’ e alla quale, in opposizione dialettica con la pesanteur, avrebbe continuato a dedicare gran parte della sua produzione. (Elena Porciani)


    Duello a Berlino

    (The Life and Death of Colonel Blimp), GB 1943; regia e sceneggiatura: Michael Powell e Emeric Pressburger, dal personaggio creato da David Low; interpreti: Roger Livesey, Anton Walbrook, Deborah Kerr, John Laurie, James McKechnie

    Riconoscere i propri torti è uno dei primi doveri degli uomini d’onore. Nelle nostre cronache di martedì scorso, accusavamo la stagione estiva di offrire ai critici cinematografici soltanto delle pellicole di scarto e senza interesse. Ed ecco, a smentire le nostre accuse, il film Duello a Berlino, primizia di questa settimana, in technicolor.

    I nomi dei due registi, Michael Powell e Emeric Pressburger, ci promettevano già in ogni caso (anche a voler essere pessimisti), una immancabile festa per gli occhi e per l’immaginazione. La grazia, la fantasia, il gusto delicato del colore, sono le qualità ormai provate del geniale duetto Powell-Pressburger. Non è la prima volta che questi due artisti lavorano insieme. Alla loro collaborazione, arricchita dal concorso di ottimi tecnici e artisti del colore, si devono alcuni fra i migliori films della produzione inglese, fra i quali il più notevole fu Scala al Paradiso. In questo film, la maestria tecnica e l’ispirazione poetica si componevano in effetti di un realismo sobrio e immaginoso e di una fantasia misurata e sorprendente. È curioso, a tale proposito, notare un fatto, e cioè: la storia dell’arte inglese (pur vantando, anche in questo campo, dei nomi ottimi) non può vantare un primato, né una particolare eccellenza, nella pittura. Nella cinematografia a colori, invece, gli artisti inglesi si sono dimostrati, fino ad oggi, i primi del mondo. Essi sono, forse, i soli che abbiano saputo usare il colore con effetti di vera poesia. Basti citare, a prova di questo, l’Enrico V di Laurence Olivier.

    Duello a Berlino, non è un capolavoro, e non tocca certamente l’altezza artistica di altre opere di Powell e Pressburger. Ma è un’opera di finissima qualità, piena di maturità e di grazia, e nella quale il colore è espressione non soltanto di un sapiente gusto pittorico, ma anche di poesia. Si vedano alcuni paesaggi romantici della Germania d’anteguerra, e la scena del duello all’alba, e il festoso, amabile spettacolo della birreria. Questo film è insomma, come avevamo avuto ragione di prevedere, una gentile festa per gli occhi.

    Esso ci racconta la storia di due giovani ufficiali, uno inglese e uno tedesco, i quali, nel beato anno millenovecentodue, sono condotti dalle circostanze a battersi a duello. Da questo duello ha origine, fra loro, una carissima e fedele amicizia, la quale durerà per tutta la loro vita, resistendo a tutte le tragiche avventure corse dall’Europa in questo ultimo mezzo secolo. Il film accompagna le vicende dei due amici fino all’epoca presente; e ce li mostra nell’ultimo quadro, mentre, ormai vecchi, conversano insieme davanti alle rovine della casa di uno di loro, riandando ai tempi passati. Il mondo della loro giovinezza è travolto; ma il reciproco affetto, nei loro cuori, è rimasto uguale.

    Un gentile (seppure inconfessato), legame fra i due amici, attraverso le loro lunghissime separazioni e il passare degli anni, è il loto amore per una stessa donna, divenuta, all’epoca del loro duello a Berlino, moglie del tedesco. L’inglese, dopo quell’epoca, non la rivedrà mai più; ma ne serberà in cuore, per tutta la vita, l’immagine amata, che serberà per lui, tutte le grazie della giovinezza. Questa immagine, egli la ricercherà sempre in tutte le donne che accompagneranno il suo destino. Così sua moglie, destinata a spegnersi giovane, sarà, per un bizzarro favore della sorte, una donna dalle sembianze quasi identiche a quella della giovinetta amata a Berlino. E così pure la sua autista-segretaria, che accompagna i suoi ultimi giorni, sarà quasi una perfetta copia di lei.

    Questo grazioso fantasma del primo amore, che ritorna nel film, ha forse, nell’intenzione dei due registi, un significato. Vuol forse rappresentare l’ideale dell’amicizia e della giovinezza, che neppure le più cupe tragedie possono offendere, e serba intatta la sua grazia fiduciosa? Non si capisce bene, e questa incertezza, che non riesce a una vaghezza poetica, ma soltanto a una insufficienza e inconseguenza d’espressione, è forse il difetto principale del film. Il quale nella seconda parte, più debole, delude un po’ le promesse della prima. Esso è, tuttavia, un buon film, e degli attori principali (Deborah Kerr, Anton Walbrook, e Roger Livesey), non si sa chi lodare di più.

    (Elsa Morante, La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951, a cura di Goffredo Fofi, Torino, Einaudi, 2017, pp. 94-95, published by arrangement with The Italian Literary Agency)




    mercoledì 13 giugno 2018

    Elsa Morante / Madrigale in forma di gatto



    Elsa Morante
    BIOGRAPHY
    Madrigale in forma di gatto 

    Elsa Morante / Madrigal en forma de gato

    La rosa è la forma delle beatitudini. 
    Beata l’angoscia in forma di rosa. 
    Beato il disordine e la libidine sanguinosa 
    la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e 
    le orge funebri 
    il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltranza 
    le corazze dell’ignoranza 
    i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli stracci 
    le carità pretestuose le immondizie deificate 
    i pregiudizi di casta l’alibi storicistico 
    le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei, la 
    paura della castrazione 
    il candido tradimento il pianto vantone 
    la corda sentimentale e la spada della ragione 
    beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio 
    la mistificazione 
    quando finalmente s’aprono in forma di rosa! 
    Il ragazzo che si intende protagonista del mondo 
    protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito… 
    starà sempre beato al centro della rosa. 
    E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa 
    e al bando di se stessi 
    non protagonisti del mondo 
    non leggenda di se stessi 
    soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto 
    e nessuna rosa 
    Il gatto che non crepa.



    DE OTROS MUNDOS

    DANTE



    venerdì 8 giugno 2018

    Le fuge (e le lettere) di Alberto Moravia

    moravia
    Elsa Morante & Alberto Moravia
    di Annalena Benini pubblicato 27 novembre 2015 ·
    Il 28 novembre 1907 nasceva a Roma Alberto Moravia: ricordiamo lo scrittore italiano con un pezzo di Annalena Benini uscito sul Foglio, ringraziando l’autrice e la testata (fonte immagine).
    Caro Morra, Sono tornato a Roma e tutto va già in quel modo assurdo che avevo già preveduto (…), poi c’è la T. che è tirannica senza perché, bisognerebbe che stessi tutto il giorno con lei e ancora non sarebbe abbastanza, gelosa della mia vita irrequieta in modo spasmodico – e siccome penso che vederci troppo non serve né a me né a lei credo che finirò per inventare qualche cosa, una occupazione fittizia – e le cose sono appena cominciate, figuriamoci in seguito.


    Alberto Moravia, lettera a Umberto Morra
    Non si è scoperto chi fosse questa signora o signorina T., a cui Moravia faceva riferimento in un lettera scritta tra il 1929 e il 1934, l’ultima di una raccolta appena pubblicata da Bompiani, Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto. Moravia aveva circa venticinque anni, e lei poteva forse essere una ragazza tedesca conosciuta a Sorrento, Trude.




    mercoledì 22 luglio 2015

    Alberto Moravia / Elsa Morante / Storia di una disperata dedizione

    Elsa Morante e Albert

    Morante, Moravia: 
    storia di una "disperata dedizione"

    Blog post del 24/01/2015
    Bizzarro il destino.
    Per ragioni di semplice ordine alfabetico, sugli scaffali delle librerie i loro nomi saranno per sempre vicini. Morante-Moravia. Un amore sfortunato e a tratti violento quello che unì due dei più grandi letterati del secolo scorso. Fughe e ritorni, distacchi e riavvicinamenti, scenate e dispetti. Furibondi litigi in pubblico e "disperata dedizione", come lo scrittore romano ebbe a definire il sentimento che Elsa Morante provava per lui.
    La loro storia comincia nel 1936 quando Alberto Moravia, di solida famiglia borghese e già reduce dal successo de Gli Indifferenti, il suo romanzo d’esordio, conosce Elsa, nata come lui a Roma nel 1912.
    «Quando l'ho conosciuta - dirà nel 1971 allo scrittore e amico Enzo Siciliano - Elsa abitava in un piccolo appartamento molto carino a corso Umberto. Non aveva letteralmente di che mangiare. Viveva compilando tesi universitarie. Non era capace di fare altro: era molto accurata nelle ricerche e scriveva bene. Mi ricordo che fece una tesi su Albertazzi e un'altra su Lorenzino de' Medici; me ne parlava continuamente. Quando ci siamo sposati, ho dovuto pagare le sue cambiali; neanche io avevo molti soldi e dovetti pensare a come guadagnarli.»
    Elsa è una ragazza di famiglia modesta: la madre è maestra elementare, il padre istitutore in un riformatorio per minorenni. Collabora con giornali e riviste, non avendo completato gli studi in Lettere. Sin dall’inizio la loro è una relazione tormentata, segnata da allontanamenti e ritorni, comunicazione e distacco, bisogno di autonomia ed esigenza di affetto. Una maternità mancata, o non abbastanza voluta, è poi motivo di grande sofferenza per la giovane Elsa.
    Straordinaria testimonianza di quegli anni è un suo diario, pubblicato postumo col nome di Diario 1938 (ma il titolo originale èLettere ad Antonio). Un “Libro dei sogni” che trascina nell’onirismo della giovane autrice ventiseienne, tra pensieri, ricordi e immagini da questi suscitati. Vi compaiono a più riprese allusioni a una figura maschile, A. (Moravia), e ad altre persone della famiglia: la madre, il padre, la sorella, i fratelli, alcuni amici. Al centro ci sono lei e le sue paure. Interrogativi, talvolta angosciosi, sull’infanzia, la maternità, l’erotismo, l’amore tormentato per A.
    «Sonno interrotto e sogni confusi. Ricordo solo di aver sentito da casa squilli di campanelli lontani che mi chiamavano, e di aver percorso le scale drappeggiata in un lenzuolo e in una coperta, e così procedendo di aver incontrato un uomo piuttosto basso e pallido vestito di grigio. Sonno interrotto da telefonate di A., notte tutta piena di dolcissimi turbamenti lascivi. Mi atterrisce il domani incerto. Amo terribilmente A.»
    «A. mi vuole bene – scrive nel 1938 all’amica Luisa Fantini - ma ogni tanto scappa via verso i più lontani paesi. Poi dice che bisogna finirla e poi mi prega di non finirla per carità. Ecc. Ora poi ho scoperto che io non sto stare al mondo e da quel momento siamo diventati una specie di favola perché in qualunque luogo e in mezzo a qualunque consesso rispettabile non finisce mai di farmi delle prediche e di arrabbiarsi a vuoto perché io al mondo non ci saprò mai stare. Vorrei, non so come dirti, fargli sentire delle parole bellissime, una musica tanto potente da riuscire a spiegargli che cosa è la vera bellezza della vita e del mondo. Lo vedo aggirarsi in quella sua specie di sotterraneo, agitarsi, dare schiaffi, annoiarsi e per quanto mi sforzi non riesco a portarlo via di là».
    Il 14 aprile 1941, lunedì dell’Angelo, Moravia e Morante si sposano e si stabiliscono in un piccolo appartamento in via Sgambati, a Roma. Di lì a due anni saranno travolti dalle vicende belliche, che condizioneranno profondamente anche la loro produzione letteraria.
    «Una mattina dopo l’8 settembre - scrive Moravia - un ungherese che presiedeva l’Associazione della Stampa estera mi disse: “Guardi che lei è nelle liste delle persone da arrestare”».
    L’accusa è di antifascismo. Morante e Moravia lasciano così Roma per Napoli in fretta e furia ma restano bloccati dalle parti di Fondi: per sfuggire ai bombardamenti e alle retate s’inerpicano sulle montagne della Ciociaria, vivendo per otto mesi in una capanna dalle parti di Sant’Agata in compagnia di altri sfollati. Saranno liberati solo alla fine di maggio del ’44: a giugno rientrano nella capitale.
    Gli otto mesi passati alla macchia lasciano un segno indelebile in entrambi. Moravia, anni dopo, ebbe a dire che due furono gli eventi che cambiarono significativamente la sua esistenza: la tubercolosi ossea contratta a nove anni e la guerra.
    «Il signor Alberto – scrive Davide Marrocco, il contadino che ospitò la coppia a Fondi - tirava su l’acqua dalla cisterna. La signora Elsa cucinava, strapazzava le uova nella padella. “Alberto, Alberto tu sei quello che mangia di più”, gli diceva lei. Mia madre ogni mattina scaldava l’acqua per il bagno della signora Elsa e poi, durante la giornata, l’accudiva. La giornata del signor Alberto era questa. Alle sette di mattina saliva sulla montagna insieme a due o tre giovani sfollati, dove il pericolo d’essere intercettati dai tedeschi che perlustravano la zona era minore. Poi al tramonto tornavano alla capanna. Stava volentieri a parlare con gli altri sfollati, ma la maggior parte del tempo lo passava scrivere sui suoi quaderni. Si metteva dentro la baracca, a volte anche la signora Elsa gli faceva compagnia».
    Dall’esperienza vissuta Moravia pubblicherà nel 1957 La Ciociara: sarà film nel ‘60 per la regia di Vittorio De Sica con Sophia Loren e Jean-Paul Belmondo e varrà alla Loren l’Oscar per la migliore attrice protagonista.
    Dopo la guerra le condizioni economiche di Morante e Moravia vanno via via migliorando ed Elsa visita per la prima volta la Francia e l’Inghilterra. Il rapporto tra i due continua a essere tormentato.
    «Le coppie di letterati sono una peste – scrive una trentaseienne Elsa, che ha appena concluso Menzogna e sortilegio, all’amica Maria Valli, moglie dell’editore dei racconti di Moravia. «Tu mi domandi dell'amore…Esso va male, nel senso che mi pare impossibile d'averlo mai provato e di poterlo provare ancora. Com'era? Che cos'era? Eppure mi sembrava d'esser tanto versata in questa materia, invece ho dimenticato tutto. In compenso il mio libro (Menzogna e sortilegio, nda) è pieno d'amore. Vorrei riposare e riposare e riposare, soffro di astenia e di esaurimento psichico fin nella radice dei capelli. Sono tormentata dai ricordi, dai rimorsi e dal futuro. Questo non vuol dire affatto che io sia infelice: forse basterebbe ch'io stessi un poco in alta montagna. Ho passato i tuoi saluti al “grande” Moravia (l'attributo è tuo, lo mettesti tu nella tua lettera, se ricordi - io te lo restituisco fedelmente)».
    Nell’agosto 1948 Menzogna e Sortilegio vince il premio Viareggio. La coppia abbandona la casa degli scampati e acquista un attico nei pressi di Piazza del Popolo, in via dell’Oca, 27. Famoso e ricco, Moravia introduce la moglie nell'ambiente culturale romano, tra pittori, intellettuali e poeti. Ma Elsa, come dimostrano le sue lettere, sin dall'inizio vi si muove prima con grande imbarazzo poi con grande fastidio. Nonostante la sua insofferenza, sono anni di successo per entrambi: Moravia fonda la rivista Nuovi Argomenti, che sarà protagonista di numerosi dibattiti letterari, filosofici e politici. Morante, dopo il successo di Menzogna e Sortilegio, pubblica nel 1957 L’isola di Arturo, che vince il Premio Strega.
    Nel gennaio 1961 partono entrambi con l’amico Pasolini in India: saranno a Calcutta, Bombay e nel sud del Paese. Di questo viaggio ci restano due reportage: Un’idea dell’India di Moravia, e L’Odore dell’India di Pasolini.
    Intanto l’amore si sta consumando: dopo 26 anni di matrimonio, nel 1962, si lasciano definitivamente. Moravia conosce Dacia Maraini, che sarà la sua compagna fino al 1976 quando comincia a frequentarsi con Carmen LLera, di 45 anni più giovane di lui. Morante, dopo una breve relazione con il regista Luchino Visconti, conosce il pittore americano Bill Morrow a New York, che si suiciderà poco dopo. Non avrà più relazioni sentimentali.
    «Forse tra noi due si era cristallizzata – dirà Moravia - una forma di rivalità psicologica. Ma è vero anche che non so neppure io quali sono stati i miei veri rapporti con Elsa. Mi sembra che sia stata lei a volerli troncare. Cioè, ho idea che abbia reso la nostra vita talmente difficile che sentivo che avrei rasentato la follia se non ci fossimo separati».
    Elsa Morante muore a Roma nel 1985, sola e infelice.
    «Ho appreso la morte di Elsa a Bonn, in Germania, dove mi trovavo in viaggio per un’inchiesta giornalistica. Era pieno inverno, aveva nevicato moltissimo. Allora sono uscito, ho camminato a lungo nella neve. Ero commosso e cercavo di dissipare la commozione con il gelo della giornata invernale. Tornai a Roma in tempo per il funerale, andai a vedere la salma esposta nella bara. Il viso di Elsa negli ultimi anni si era trasformato nel senso di una vecchiaia un po’ funesta. Con la morte era tornato a un aspetto quasi infantile, sereno, forse sorridente. Nella corsa del carro funebre i fiori, probabilmente male assicurati alla corona, volarono via uno dopo l’altro e andarono a schiacciarsi sull’asfalto: quei fiori che volavano via tra il carro funebre di Elsa e la mia macchina mi fecero un’impressione delirante e simbolica: così era volata via Elsa dalla mia vita».
    Alberto Moravia muore a Roma nel 1990.