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sabato 29 luglio 2017

Diario di uno scandalo / La bruciante ferita della solitudine dell’anima


Diario di uno scandalo

La bruciante ferita della solitudine dell’anima

12 GIUGNO 2015, 
LUISA MARIANI

Diario di uno scandalo è un film del 2007 diretto da Richard Eyre, tratto dall’omonimo romanzo di successo di Zoe Heller. Ecco la storia. Ci troviamo in un liceo della periferia di Londra, Barbara, anziana insegnante, è una donna sola, rigida, si presenta con una maschera di durezza e impenetrabilità, una sorta di sergente di ferro che è odiata dagli alunni e mal tollerata dai colleghi per la sua cattiveria e insensibilità, nessuno può supporre che, a casa, nel suo spazio privato, tenga un diario segreto su cui annota scrupolosamente i suoi pensieri e le sue sensazioni, come se fosse un’adolescente, e dove si permette di pensare e provare sentimenti in libertà.


Questo suo mondo triste e scontato cambia improvvisamente quando nella scuola arriva Sheba, una giovane professoressa di arte, bionda, sottile, dall’aspetto angelico, delicato, a cui Barbara, dopo averla osservata e studiata a distanza, si avvicina cautamente; sembra non avere paura di lei come lo è solitamente del genere umano, si permette di fidarsi, la sente buona, inoffensiva. Nella vita di Barbara si accende un barlume di speranza e di gioiosità, la fatica del vivere è compensata da questa nuova presenza che pare abbia la funzione benefica di ammorbidire la sua aridità e di riappacificarla con il mondo. Il suo diario accompagnerà con vivezza questa esperienza, dove lo spettatore assiste alla creazione di un legame affettivo impensabile e partecipa con simpatia e benevolenza all’insperata opportunità di sconfiggere la solitudine più nera che aveva incupito l’esistenza di Barbara e dentro cui si era ostinatamente blindata. Sheba, a differenza di Barbara, ha una vita familiare, con due figli di cui uno portatore di handicap e un marito affezionato, di parecchio più anziano di lei.

Judy Dench e Cate Blanchett

Tra le due donne inizia un’amicizia che si fa sempre più intensa, tanto che la giovane rende Barbara partecipe della sua vita privata e sembra “adottarla” con generosità offrendole uno spazio reale e affettivo. Il loro rapporto prende una piega anomala quando Barbara, che si sta insinuando in maniera sempre più sottile e richiestiva nella vita di Sheba, scopre che l’amica ha instaurato una relazione amorosa con un allievo di quindici anni. All’inizio si mostra sconvolta, scandalizzata, si indigna e, a condizione della rottura di quel rapporto moralmente e socialmente inaccettabile, potrà perdonare l’amica ed eviterà di denunciarla al preside della scuola risparmiandole le inevitabili conseguenze sul piano personale e professionale. In realtà, l’anziana donna, con una mente molto più complessa e contorta di quello che appare, non tollera la frustrazione per questo tradimento e, solo allora, si scoprirà la sua inconfessabile passione per l’amica. A questo punto, diventando l’unica custode del segreto di Sheba, Barbara metterà in atto i mezzi più abietti, ordirà un gioco di ricatti, complicità perverse e confessioni che riveleranno un piano preciso e ben architettato per legare a sé la giovane donna che sarà vittima delle mire della donna e della propria ingenuità. L’ira di Barbara, la ferita del tradimento, diventeranno un’ossessione che la porterà a disintegrare la vita dell’amica, ma di conseguenza anche se stessa.
Diario di uno scandalo

Dietro la trama manifesta degli accadimenti del film si cela una sconvolgente storia di anime tormentate da una complessità inestricabile, che lottano furiosamente in una disperata ricerca di felicità. Con la scoperta dell’inconscio la psicoanalisi dà voce e legittimazione all’ambiguità, al mistero, all’inconoscibile, che è parte dell’umano e differenzia, di conseguenza, l’essere dall’apparire. Con la bella metafora dell’iceberg, Freud ha esemplificato il funzionamento mentale, attribuendo alla punta emergente del ghiacciaio la parte conscia, conoscibile e razionale della persona, mentre assegna a quella grossa parte sommersa dalle acque, nascosta e invisibile, la funzione dell’inconscio che soggiace, influenza e codetermina l’intero ghiacciaio.
La maschera e il volto sono immagini significative che parlano di questa complessità dell’essere umano, dove l’essenza, la verità ultima della persona sembra davvero essere inconoscibile e impensabile, perché è intollerabile, irraggiungibile e suscita terrore. La maschera può essere vista come una forma di travestimento per combattere stati di paura e di debolezza, la si può considerare altresì un mezzo ambiguo perché, da un lato è funzionale alla verità che ama nascondersi per salvaguardare la sua profondità, dall’altro è utilizzata per non vedere la realtà, addirittura per fuggire da essa. Questa doppia attitudine è codificata nella psicoanalisi dalle parole Conscio e Inconscio, dove si presume che nell’Inconscio sia custodita la verità dell’esistenza, mentre nel Conscio si nutra l’illusione concessa all’individuo per poter vivere e che, secondo Schopenhauer, corrisponderebbe alla maschera.
Gli artisti molto prima degli scienziati hanno visto, intuito, sognato, rappresentato queste contorsioni del mondo interno e, a riprova di questo, anche il film di Richard Eyre rappresenta in maniera intrigante quello straordinario doppio che è appunto il volto e la maschera. Le due coprotagoniste si fanno avanti con un impeto prepotente tanto quanta è la prepotenza della verità emotiva mascherata che trasmettono; è un film che tocca in profondità gli spettatori perché parla il linguaggio comune, universale, dell’uomo che in esse si riconosce, sono personaggi che esprimono la complessità di cui è intessuto l’essere umano, comunicano in maniera forte la fatica di vivere, il disagio della civiltà, la paura delle emozioni, il terrore dell’incontro, ma esprimono anche l’anelito alla felicità e il bisogno ineluttabile dell’altro, a qualsiasi costo.
Cate Blanchett

In questo bel film ci imbattiamo in un’adolescenza non incontrata, mal vissuta, temuta, disconosciuta, che allora, proprio per questo si fa viva in età adulta con una nostalgia ineffabile e reclama di essere riconosciuta, ascoltata, sperimentata anche se, purtroppo, fuori tempo, con un triste anacronismo che la rende patetica, stonata, fuori dalle righe, quindi, in un certo senso perversa. La storia delle due donne rappresenta dunque magistralmente l’adolescenza, età di confusione, di scoperta di sé, di nascondimenti, di costruzione dell’identità, di oscillazione tra stati mentali contrapposti, momento di fluttuazioni tra euforie e depressioni, ma soprattutto età in cui la domanda ontologica è: Chi sono io? Cosa desidero? La maschera adombra bene questo inquietante enigma dove il sé si colora di differenti aspetti e dove l’adolescente fatica a trovarsi e a farsi trovare. Davvero le adolescenti Barbara-Sheba per sopravvivere hanno bisogno di celarsi dietro un’immensa maschera e occorrerà un fatto traumatico prima che il mistero della verità possa emergere. In età adolescenziale si ha bisogno di proteggere il vero sé, si teme di esporlo a sguardi malevoli, ma c’è anche la paura di scoprirsi irriconoscibili, quasi mostruosi, come succede nel film per le due donne. Oltretutto, con la maschera ci si può permettere di sperimentarsi illimitatamente, è come un lasciapassare che non obbliga a precludersi ogni tipo di possibilità di essere, di sentire, passando da infatuazioni erotiche omo ed eterosessuali, a fantasie onnipotenti o suicide, da rabbie devastanti e avversione verso il mondo che obbliga a un contatto con le regole della realtà.
Il nascondimento inteso, dunque, come salvezza dalla paura di perdersi, come modo per creare mondi che siano più facilmente abitabili, come ammortizzatore di verità inconoscibili e soprattutto insopportabili. Per l’adolescente la maschera è uno stato fisiologico di attraversamento del guado della confusione, è paragonabile al segreto, è il salvagente che lo accompagna nella ricerca appassionata e spaventata del suo volto, per l’adulto la maschera è segnale di una difficoltà a riconoscere e a convivere con il vero Sé e a rapportarsi al reale. Bion ne L’elogio della menzogna, paradossalmente, riconosce la funzione protettiva della bugia quando l’incontro con la verità potrebbe essere troppo ustionante per la pelle mentale. Il bisogno di mascherarsi, allora, può essere pensato non più come strategia di falsità avvilente l’uomo e distruttiva della mente, ma anche come metafora, come difesa necessaria per digerire dolori intollerabili in certi momenti della vita, riconoscendo che, come dice Schopenhuer, “intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera”.

Judy Dench

Barbara e Sheba sono due donne intelligenti e sensibili, costrette dentro un insanabile conflitto tra desiderio e divieto, che le obbliga ad assumere ruoli che sentono stretti e inadeguati, ma indispensabili per rientrare nelle regole sociali, e sono indotte a camuffarsi con maschere di perbenismo per non lasciar trapelare desideri, vuoti e il vissuto di una realtà pesante e deludente. Sono simili e, allo stesso tempo, differenti: Barbara sente lo scorrere del tempo e le sfuggono di mano le illusioni della giovinezza che non si stanno realizzando; Sheba, splendida quarantenne, si sente altrettanto sola e fragile di fronte a prove dolorose e, a volte, impensabili. Reagiscono alla durezza della vita cercando sentimenti intensi, esperienze ustionanti che sono anche vie di fuga, una sorta di “antidepressivi”, modi per uscire da una normalità noiosa e frustrante: questo è il segreto che le unisce e che diventerà il fulcro della storia. Tutte e due si incontrano in un momento in cui la stanchezza del vivere, il bisogno di conforto e di un aggrappamento, la ricerca di un rispecchiamento consolidante urge famelicamente e l’incontro con un altro da sé che funga da sostegno alla pericolosità traballante dell’esistenza diventa un’esigenza imperdibile: ognuna ha bisogno dell’altra e parlando quella particolare lingua che è l’inconscio riconoscono la reciproche valenze affettive aperte a un legame.
Judy Dench e Cate Blanchett in una scena del film

C’è come un magnetismo che le attrae in una complicità di intenti: è una storia di solitudini che si riflette nelle due donne, diverse per età e vita sociale, ma accomunate dal doloroso vuoto interiore mal contenuto da un rigido controllo emozionale e da una incontrollabile bulimia affettivo-passionale. Solitudine e passione sono i due elementi del loro mondo emotivo per cui si riconoscono e si affidano l’una all’altra. Ma sono muri di dolore e vuoti esistenziali le basi fragili su cui si innestano e galleggiano le storie di Barbara e Sheba. L’incontro con Sheba, così eterea e seducente, risveglia in Barbara una passione latente sfogata nelle pagine del suo diario in cui si ritrae affettivamente dipendente da figure femminili più giovani, figure che si illude rispecchino il suo Sé ideale e che la mantengano in una giovinezza eterna. L’apparente ascetismo di Sheba sarà una molla scatenante il suo bisogno di controllo e di possesso. Mentre Sheba avrà modo di riempire il suo vuoto quando un allievo la corteggia con passione e lei si lascia facilmente sedurre dall’irruenza di questo amore impetuoso, che riattiva la sua parte adolescenziale travolta da un turbine di sessualità non addomesticabile. Ma quanto l’età e la vitalità del ragazzo possono anche adombrare una valenza riparatoria, sostitutiva, negante il pensiero atrocemente doloroso e indigeribile di avere un figlio maschio portatore di handicap?
Il titolo del film Diario di uno scandalo, diario che farà da leit-motiv allo scorrere del film, è rivelatore del dramma che si sta consumando attraverso la storia che racconta: parla di un mondo adolescenziale, out of time, ma intensamente e inesorabilmente vissuto dalle due donne. È un film che narra le debolezze umane, le angosce, le solitudini, i dolori della solitudine o le prove eccessive a cui la vita impietosamente espone. Il regista sa trattare con stile, misura, partecipata sensibilità, chiarezza, senza cadere nel moralistico o nel trash, temi delicati e inquietanti, ancora oggi annusati dai benpensanti con rigido distacco, con disprezzo o con giudizi rinneganti.
Cate Blanchett

Richard Eyre riesce a empatizzare con le difficoltà delle due donne, le accompagna con una pietas che non dà spazio alla morbosità o alla condanna perbenista, non c’è una mentalità rigida e preconcetta, ma si identifica con loro, dando immagine e trama a ciascuna, rispecchiando con sensibilità il loro mondo interno e relazionale. La possessività, la debolezza, la fiducia tradita, il bisogno di conforto, la pusillanimità, la vigliaccheria, la cattiveria, la passionalità incontrollabile, la gelosia, l’invidia, l’egoismo, la tenerezza, la vulnerabilità, la tristezza sono sentimenti che il regista fa entrare in scena come reali personaggi dando anima e corpo alla trama filmica; sono sentimenti che funzionano da motore implacabile e indomabile, spasmi emotivi che urlano aiuto e vicinanza e non riescono a controllare l’incontenibile fame dell’altro quale balsamo ineffabile alla bruciante ferita della solitudine dell’anima.


venerdì 3 aprile 2015

Cate Blanchett / I film sulle donne fanno un sacco di soldi

Cate Blanchett
Cate Blanchett

«I film sulle donne
fanno un sacco di soldi»

Hollywood si affanna a cercare il prossimo George Clooney o il prossimo Brad Pitt, ma farebbe meglio ad approfittare delle star che ha già a disposizione: le donne





di Costanza Rizzacasa d’Orsogna
27 marzo, 2015

Ci ha messo 15 secondi. In 15 secondi, all’interno del suo acceptance speech – il discorso di ringraziamento per l’Oscar alla miglior attrice per Blue Jasmine-, allegramente come aveva appena urlato “Attaccati!” alla rivale Julia Roberts e “Sedetevi, siete troppo vecchi per stare in piedi” alla platea del Dolby Theatre, Cate Blanchett ha fatto un grande statement femminista.
Dopo aver sottolineato quanto significasse per lei quel premio “in un anno di – ancora una volta – performance femminili straordinarie”, dopo aver segnalato come la mancata presenza in sala di Judi Dench, candidata perPhilomena, fosse dovuta al fatto che “il suo film (Marigold Hotel, ndr) è andato così bene che a 79 anni è in India a girarne il sequel”, l’attrice australiana ha chiamato in causa “quanti nel nostro settore si aggrappano ancora, scioccamente, all’idea che i film che parlano di donne, con protagoniste donne, siano esperimenti di nicchia. Non lo sono. Il pubblico vuole vederli e anzi, fanno un sacco di soldi”. Poi, mentre il teatro quasi veniva giù per gli applausi, ha gridato: “Il mondo è rotondo, gente!”

Cate Blanchett
Annie Leibovitz
Una “F-bomb” in piena regola, dove la “F” non sta per la nota imprecazione, ma per “feminist” – termine, peraltro, già usato dall’attrice per descrivere se stessa. Un discorso perfetto. Tanto che il New Yorker, nel valutare gli acceptance speech delle star, le ha dato una “A-”, quasi il massimo. Lo stessoThe Atlantic, uno dei giornali che più si spende per la cosiddetta “questione femminile”, nel raccontare l’episodio ha ammesso: “Non avremmo potuto dirlo meglio”. E chi fosse tentato di liquidare quella di Blanchett come “solita retorica femminista” sappia che alcuni dei film di maggiore incasso del 2013 – da Gravity a Hunger Games: La Ragazza di Fuoco –hanno come protagonista una donna in un ruolo non stereotipato. Perfino un film d’animazione come Frozen – Il Regno di Ghiaccio, il blockbuster della Disney protagoniste due sorelle, non a caso co-diretto da una donna, proponeva un nuovo modello di principessa, che non ha più bisogno del bacio (cioè del timbro d’approvazione) del principe per essere “degna”, confermando l’orientamento della casa madre della Bella Addormentata, leader mondiale dell’intrattenimento per l’infanzia, verso una rappresentazione femminile sempre meno cliché.
Non è la prima volta che Blanchett si scaglia pubblicamente contro i vertici di Hollywood per la marginalizzazione delle attrici, per aver iniziato solo da poco, e solo per convenienza, a riparare alla storica mancanza di ruoli femminili complessi e di spessore. Lo aveva fatto durante la promozione diBlue Jasmine, osservando che per tutti i passi avanti che le donne stanno facendo ci sono altrettanti passi indietro, e la parità è ancora lontanissima e guai ad abbassare la guardia. Lo ha fatto di nuovo ai recenti SAG Award, gli Oscar della sceneggiatura, dove ha sottolineato come siano rarissimi gli sceneggiatori che creino con una certa regolarità personaggi femminili sfaccettati. Addirittura, sul red carpet, Blanchett aveva “redarguito” il sessismo delle telecamere di E!, colpevoli di indugiare sulla sua figura, interessate più al suo aspetto e alla sua mise che alle sue parole. “Fate così anche con gli uomini?”, aveva chiosato, accovacciandosi per mimare il movimento della telecamera che ne riprendeva le parti basse del corpo.
Per fortuna, Blanchett non è l’unica a combattere quello che nel gergo si chiama “celluloid ceiling”, il soffitto di celluloide, materiale evidentemente più duro del cristallo. A dicembre, in un articolo intitolatoDalla Terra a Hollywood, gioco di parole sul noto film di fantascienza Dalla Terra alla Luna, proprio l’Atlantic – denunciando la decisione della Warner di cassare una sceneggiatura che vedeva Wonder Woman, il più amato fra i supereroi dei fumetti DC Comics, finalmente protagonista di un film, riducendola a mera spalla di Superman nel prossimo Batman vs. Superman– osservava come il record d’incassi di The Hunger Games 2 (864 milioni di dollari) e di Gravity (703 milioni di dollari) segnalano che il pubblico è pronto per un film su una supereroina, ed è ora di smetterla con il solito cliché degli alti papaveri di Hollywood, secondo cui i supereroi donne al botteghino fanno fiasco.


A Blanchett fa eco poi l’attrice e regista Jennifer Siebel Newsom, il cui documentario, Miss Representation (gioco di parole col termine “misrepresentation”, rappresentazione falsata), presentato al Sundance nel 2011, esce proprio in questi giorni in Gran Bretagna. Il film, di cui sono protagoniste da Katie Couric a Nancy Pelosi, da Condoleezza Rice a Gloria Steinem, denuncia come la raffigurazione stereotipata e screditata delle donne al cinema e in tv sia corresponsabile delle minori posizioni di potere ottenute dalle donne, e finisca per incidere gravemente sulla loro vita: dalla disparità di retribuzione alla difficoltà di fare carriera dopo aver avuto un figlio, dai disturbi del comportamento alimentare al boom della chirurgia estetica. “La maggioranza dei fruitori di media sono donne”, osserva Siebel in un’intervista al Guardian. “E però negli USA le donne possiedono solo il 5,8% delle televisioni e il 6% delle radio, e solo il 5% delle posizioni di peso nei media sono appannaggio di donne. Nel cinema, in particolare, c’è un enorme scarto tra domanda e offerta. Metà degli spettatori sono donne, come è donna il 51% della popolazione mondiale, ma solo il 15% dei protagonisti dei film lo è. Addirittura, dei primi 100 film per incasso nel 2012, solo il 28,4% di personaggi parlanti (quelli cioè che pronunciano anche solo una parola) era donna. E a differenza degli uomini, si tratta spesso di adolescenti o di bambine. Di più: solo il 6% di questi film rispondeva ai criteri di uguaglianza di genere”. Per non parlare dei ruoli tecnici, dove le donne anziché aumentare diminuiscono. Dal 1977 a oggi, delle 216 pellicole candidate all’Oscar per il Miglior Film, solo 12 sono statedirette da donne. E solo una donna, Kathryn Bigelow, ha portato a casa la statuetta di Best Director. Pregiudizi che vengono poi replicati nell’acquisto dei film dalla tv. Su Primafila di Sky, per dirne una, quasi tutti i titoli sono d’azione, seguiti dalle commedie caciarone destinate a un pubblico prevalentemente maschile. Se vogliamo vedere un film che parli di noi, insomma, non abbiamo molta scelta. “Eppure”, osserva Siebel, “le platee diGravity e Hunger Games 2 dimostrano che è una sonora stupidaggine pensare che gli uomini non andrebbero a vedere film con protagoniste donne in ruoli non cliché”.
Insomma, mentre Hollywood si affanna a cercare il prossimo George Clooney o il prossimo Brad Pitt – della cui difficoltà si lamentava proprio Variety qualche giorno fa -, farebbe meglio ad approfittare delle star che ha già a disposizione: le donne.

CORRIERE DELLA SERA