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domenica 14 marzo 2021

Carrère scopre che raccontare il suo matrimonio è appropriazione culturale

 


JOEL SAGET / AFP

La coppia è mia e la gestisco io

Carrère scopre che raccontare il suo matrimonio è appropriazione culturale

L’ex moglie dello scrittore francese, turbata dal modo in cui lui descrive la loro relazione (finita), non ci sta a lasciargli la narrazione della loro vita coniugale. Forse si dovrebbe istituire un risarcimento per chi svolge l’ingrato ruolo di materiale narrativo per l’ispirazione del partner


GUIA SONCINI

1 Ottobre 2020


A chi appartiene una storia? Se pensate che la risposta sia facile («a chi l’ha vissuta»), state sottovalutando un dettaglio: tutto ciò che raccontiamo (non necessariamente in un libro: valgono anche le storie con cui intratteniamo i commensali) non ci è successo da soli. Le storie che vale la pena raccontare coinvolgono in genere conversazioni, sentimenti, litigi, riappacificazioni; insomma: coinvolgono altri.

A parte il mal di testa (che, ci ricordava Vasco Rossi, quando ce l’ho «ce l’ho io, mica te», e se lo racconto non sto rubando storie altrui), tutto quel che raccontiamo si appropria di storie (anche) altrui. Chi ha diritto di raccontare una storia? Toccherà a chi trova per primo una chiave per farlo? O a chi è più abile come affabulatore? Forse a chi è più prepotente?In un film francese d’un paio d’anni fa, uscito in Italia con il terribilissimo titolo “Il gioco delle coppie”, alla presentazione d’un libro un lettore chiedeva conto all’autore d’una polemica: la sua ex moglie era furiosa per il suo ultimo romanzo, autobiografico. E aveva ragione, ipotizzava il lettore: ora, se lei volesse scrivere quella storia, non potrebbe più farlo. Lui gliel’ha sottratta. Non aveva diritto di usare una storia che forse apparteneva a lei. Il tapino obiettava che la sua vita erano le relazioni che aveva con gli altri: se si toglievano quelle, non gli restava materiale narrativo.

Dev’essere un problema assai sentito in Francia, la proprietà delle storie. E la natura delle storie.Almeno a guardare il caso Carrère.

Prologo. Emmanuel Carrère pubblica un libro, “Yoga”. In esso si raccontano il suo esaurimento nervoso e la fine del suo matrimonio (riporto, fidandomi, dagli articoli francesi: io aspetto l’edizione pastellata Adelphi per leggerlo; uscirà l’anno prossimo). “Yoga” esce in Francia il 23 di agosto, e tre settimane dopo comincia a dipanarsi lo scandalo.

Parte dalla radio, dove un altro scrittore parla di «cause legali minacciate»; prosegue su un sito che allude a modifiche al testo fatte su richiesta degli avvocati; e infine arriva su un quotidiano che spiega che Hélène Devynck, già moglie dell’autore, non ha approvato i passaggi che la riguardano.

Chi si ricorda di “Affari di cuore” avrà un déjà-vu. Nora Ephron (sceneggiatrice, regista, eroina delle sentimentali con uso d’umorismo) e Carl Bernstein (quello del Watergate) divorziarono dopo che lui ebbe la gentilezza di cornificarla mentre lei era incinta.

Lei ci scrisse un romanzo (come non capirla): cambiò i nomi, ma tutti sapevano che era lui quello «che sarebbe capace di scoparsi gli scuri della finestra». Il cornificatore dichiarò che certo, avrebbe preferito il libro non fosse stato scritto, «ma ho sempre saputo che scrive i fatti suoi: Nora va al supermercato e lo usa come materiale narrativo» (come non capirla).

Quando il romanzo stava per diventare un film, però, Bernstein pretese che nell’accordo di divorzio venisse inserita una clausola che tutelasse la sua immagine: aveva diritto a leggere le stesure della sceneggiatura, a vedere il primo montaggio, a pretendere d’essere rappresentato come un buon padre.

Sebbene sappia che Jack Nicholson fu un rimpiazzo (la prima scelta per interpretare Bernstein non funzionò), mi piace credere fosse invece una delle condizioni imposte dal vanesio ma bruttino Carl: «Potete fare il film solo se m’interpreta quello strafigo di Jack».

Se un anatroccolo può cercare d’impedire la realizzazione d’un film in cui lo interpreta il più cigno dei cigni, figuriamoci se l’ex signora Carrère non può stizzirsi per come la racconta il suo ex.

Finché non era ex, ha portato pazienza. Finché stavano insieme, «Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, tuffarsi nel mio lutto, nei miei dolori, nella mia sessualità». Era perché, se devi litigare per chi porta giù l’umido, non puoi metterti a litigare anche sugli autobiografismi, con tutti i diritti d’autore che ne arrivano sul conto comune? Macché: era perché il tutto era fatto con amore, e il modo in cui il materiale veniva lavorato le assicurava «d’essere rappresentata in un modo che si attagliava a entrambi».

Già vedo le femministe dei cancelletti agitarsi: si tratta chiaramente d’una donna plagiata, vessata, sfruttata. Macché: la signora ha tutta l’aria di sapersi difendere.

Quando si lasciano, gli fa firmare un contratto. (E qui ci dividiamo in due. Le sfruttatrici di materiale autobiografico pregano che a nessun loro amante venga mai in mente di pretendere un contratto. Le sfruttate da scrittori si chiedono: maledizione, perché non m’è mai venuto in mente di farmi fare un contratto per il ruolo d’ispiratrice, di musa, di materiale narrativo?).

Quando l’ha firmato, però, le arriva il manoscritto di “Yoga”. Con un biglietto in cui Emmanuel, re dei paraculi, ha scritto «Non dovrebbe essere una sopresa, per te, ch’io scriva libri autobiografici. Questa storia risulterebbe incomprensibile senza il contesto».

Nella lettera che ha scritto all’edizione francese di Vanity Fair la signora chiosa questo messaggio con le parole «Nel caso, il contesto ero io». («Le contexte, c’était moi» sta tra il «Madame Bovary, c’est moi» di Flaubert e il «L’enfer, c’est les autres» di Sartre: cos’aspetterà Hélène, la vera scrittrice di casa, a fornirci un Rashomon matrimoniale scrivendo la sua versione dei fatti, santo cielo).

La lettera prosegue con altri elementi incendiari per il cancellettismo: «Per aver detto “sì” altre volte, non posso più dire “no”?» (il consenso, il sopruso, il maschilismo tossico; oltretutto, come eroina e simbolo della rivalsa, Hélène è assai più presentabile di Asia).

«Il mio personaggio è stato sputtanato in una fantasia sessuale accompagnata da rivelazioni spiacevoli sulla mia vita privata. È stato sgradevole». Se avete visto “Harry a pezzi”, uno dei più bei film di Woody Allen, non può non venirvi in mente la scena sublime in cui l’ex moglie fa una piazzata all’ex marito che ha scritto un romanzo con tutti i cazzi loro, e il picco dei suoi insulti coincide col momento in cui lo sfruttatore di vite altrui cerca di nascondersi dietro alla formula «liberamente ispirato». «Non dirmi “liberamente”, testa di cazzo: cosa pensi che sia, una di quelle conduttrici televisive ritardate?».

Come insegnano i poeti, l’inferno non conosce furia pari a quella d’una donna tradita, e quindi Hélène provvede a sputtanare Emmanuel: ha raccontato in maniera assai più lieve i suoi episodi psicotici, e ha trasformato in mesi un weekend a Lero a vedere da vicino i profughi. Ma il colpo davvero basso non è questo.

È il passaggio della lettera in cui, come Judy Davis (che interpretava la moglie di Woody Allen), ammette che certo, ci sono degli elementi romanzati nel non romanzo. Per confondere le acque, ma – soprattutto – per strizzare l’occhio al Goncourt.

La polemica era già partita prima della lettera della protagonista tradita: il più prestigioso premio letterario francese forse escluderà “Yoga” dai possibili vincitori, giacché premia romanzi e non memoir (ragione per la quale era stato escluso “La traversata”, il memoir di Philippe Lançon, editorialista di Charlie Hebdo).

Che criterio fesso: come se i romanzi non fossero perlopiù memoir coi nomi cambiati. Come se non fosse tutto autobiografico, «sia che scriva “nacqui nel tal anno nel tal posto”, sia che scriva “c’era un re che aveva tre figli”», diceva un certo Borges.

Ho una proposta alternativa alla cancellazione del maschio tossico dal premio. Dateglielo, il premio. Qualche anno fa Slate calcolò che il Goncourt quintuplica le vendite, e che gli incassi, per la casa editrice che pubblica il vincitore, possono arrivare a tre milioni di euro nelle otto settimane successive all’assegnazione del premio (immagino c’entri anche l’effetto Natale, visto che il vincitore viene proclamato il 10 novembre).

Fate vincere Emmanuel, con la clausola che la sua percentuale dei tre milioni vada a Hélène. Oltre ai soldi che spero già le assegni quel contratto, le cui clausole spero un qualche giornalista investigativo ci sveli presto: abbiamo bisogno di sapere quali sono le tariffe di mercato per continuare a fare da materiale narrativo dopo il divorzio.


LINKIESTA




lunedì 8 aprile 2019

David Levine / Proust



David Levine
MARCEL PROUST


Marcel Proust è lo scrittore francese più tradotto e diffuso al mondo ed uno dei più importanti della letteratura europea del Novecento.

La sua vita si snoda nel periodo compreso tra la repressione della Comune di Parigi e gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale; la trasformazione della società francese in quel periodo, con la crisi dell'aristocrazia e l'ascesa della borghesia durante la Terza Repubblica, trova nell'opera maggiore di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, una approfondita rappresentazione del mondo di allora. 

L'importanza di questo scrittore è tuttavia legata alla potenza espressiva della sua originale scrittura e alle minuziose descrizioni dei processi interiori legati al ricordo e al sentimento umano; la Recherche infatti è un viaggio nel tempo e nella memoria che si snoda tra vizi e virtù.






mercoledì 6 settembre 2017

Emmanuel Carrère / “Sono un genio perché vi metto in imbarazzo”

Emmanuel Carrère, scrittore e sceneggiatore, è nato a Parigi nel 1957. Tra le sue opere, «La settimana bianca», «Limonov», «L’Avversario» (storia di Jean-Claude Romand, che ha vissuto una vita di menzogne prima di sterminare i famigliari, trasformata in film da Nicole Garcia, con Daniel Auteuil), «Il Regno», «Io sono vivo, voi siete morti» (sulla vita vera e sognata di Dick) e il reportage «A Calais» nella baraccopoli dei migranti (tutti pubblicati da Adelphi; che ha rilanciato lo scrittore portato in Italia da Einaudi a metà Anni 90)

Emmanuel Carrère
“Sono un genio perché vi metto in imbarazzo”


Articoli, reportage, appunti di lettura, discorsi e lettere che attraversano venticinque anni di carriera


Per provare a capire il grado di realismo di un racconto, Emmanuel Carrère propone il «criterio dell’imbarazzo». Se incontriamo un dettaglio che l’autore deve avere verosimilmente pensato di eliminare perché imbarazzante o in qualche modo scomodo, avvertiamo un istintivo «senso di verità». Non è solo una dichiarazione di principio ma anche un criterio operativo in grado di attraversare l’intera opera di Carrère, o almeno la sua fase più nota, quella della non-fiction. Pochi autori contemporanei hanno fatto come Carrère del culto – e dell’esibizione- del dettaglio scomodo, delle pulsioni che i più preferirebbero tacere, un marchio di fabbrica.


Ogni appassionato dello scrittore francese ricorda la lunga lettera erotica alla compagna pubblicata sulle pagine di Le Monde (oggi contenuta all’interno dello splendido La mia vita come un romanzo russo) una storia con un epilogo che sarebbe stato sommamente umiliante se solo il primo ad esibirlo non fosse Carrère con quel misto di stoicismo ed egocentrismo dichiarato che contraddistingue il suo stile. I lettori si dividono fra chi è infastidito da una prospettiva così apertamente egotica e chi invece coglie i due messaggi sottintesi a questo approccio. Il primo è: sono fallibile e imperfetto come tutti gli altri, seppur a modo mio - come appunto tutti gli altri. Il secondo, forse ancora più importante, è che l’unico racconto onesto possibile sia quello dichiaratamente soggettivo.


(Emmanuel Carrère «Propizio è avere ove recarsi», 
trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi pp. 429, € 22)



Propizio è avere ove recarsi è uno zibaldone il cui titolo è una risposta dell’I Ching, l’antico libro oracolare cinese, ed è composto di articoli, reportage, recensioni, discorsi e lettere che attraversano venticinque anni di carriera. Una raccolta con cui è possibile entrare nel cantiere aperto del lavoro dello scrittore francese e dove è spesso lui stesso a riflettere apertamente sulle tecniche che utilizza e sui loro significati. Centrale in questo senso è il discorso su A Sangue freddo di Truman Capote, uno dei testi fondanti della non-fiction contemporanea, un paradigma ingombrante con cui Carrère si confronta quando decide di scrivere un libro su Jean-Claude Romand, un impostore che dopo aver fatto a credere a tutti per anni di essere un medico quando in realtà era nemmeno laureato, sterminò la famiglia, i genitori e il cane. All’ultimo momento, quando dopo anni di ricerche Carrère si è ormai deciso ad abbandonare il progetto anche a causa dell’incapacità di convivere con il fantasma di Capote, riesce finalmente a sbloccarsi inserendo nella storia sé stesso, la sua famiglia e il suo mondo.



Come un fisico quantistico Carrère riconosce l’impossibilità di indagare nel profondo della materia senza che il suo scrutare causi dei cambiamenti nell’oggetto osservato, ed è questa consapevolezza a cambiare tutto. In campo scientifico tutto ciò si chiama «principio d’indeterminazione», in campo letterario si traduce in un approccio in cui l’onestà intellettuale non deriva più dalla pretesa equidistanza di un narratore onnisciente dai personaggi del racconto, ma al contrario dalla dichiarazione esplicita della peculiarità dell’osservatore, del peso ineliminabile non solo del suo agire ma anche delle sue convinzioni pregresse, delle sue aspirazioni e della sua storia personale. Qualsiasi cosa sia «La Verità» in Carrère rimane sullo sfondo come una particella inconoscibile o un noumeno kantiano, quello su cui possiamo invece mettere le mani è la versione del narratore, accuratamente filtrata dalle sue idiosincrasie e ossessioni. Nel caso di Carrère questo si traduce in uno scrittore che non fa mistero della sua estrazione alto borghese e del fatto di vivere con una giornalista «in una zona decisamente radical chic» di Parigi, capitale di un Paese «in una fase di lento declino» e di «mobilità sociale ridotta». 


Se in certi momenti il maggior desiderio di Carrère sembra essere per sua stessa ammissione comprare una casa in Grecia, a questo orizzonte aspirazionale ben delimitato e apparentemente privo di rischi, corrispondono una serie di ossessioni personali per la violenza, la morte, la follia, ma anche l’ammirazione per la freddezza della madre (il motto materno «Never explain, never complain» risuona in tutta l’opera di Carrère come una sorta di stella polare irraggiungibile, ne è prova il fatto che la sua, di freddezza, Carrère l’argomenta per mestiere) o ancora un’attrazione per una Russia a metà fra avamposto di frontiera senza legge e luogo dell’anima dove sono ancora possibili sentimenti non viziati dall’ironia post-moderna che affligge la vita di un intellettuale parigino benestante che ritiene di aver già visto tutto. 

È così che nelle pagine di Propizio è avere ove recarsi vediamo Carrère piangere a dirotto al cospetto di un coro di bambini di una scuola elementare di Mosca che prendono molto sul serio il loro compito. È chiaro, dati questi presuppo sti, che il racconto di Carrère non ha mai la pretesa di essere oggettivo, ammette ad esempio di non sapere fin dove arrivi il vero Limonov e dove inizi invece quello della sua fantasia. 

Ogni tanto nelle sue storie appare un’interferenza rivelatrice, come quando intervistando una giovane fotoreporter individua nella sua sicurezza i segni di un’origine benestante, ipotesi che la diretta interessata smentisce fra le risate. Piccoli episodi a parte la controprova manca quasi sempre – e dovremmo comunque affidarci alla volontà dell’autore di riportarla- bisogna quindi fidarsi ed in fondo va bene così, è il senso dell’intera operazione e a ben guardare è qualcosa che finiremmo per fare comunque anche partendo da presupposti diversi, meno trasparenti. Il tutto funziona anche perché l’abilità nel mettere in dubbio l’io narrante, l’autoanalisi impietosa e destrutturante della sua psiche è forse la più notevole delle qualità letterarie di Carrère, un capacità di decodifica di portata tale che si gli perdonano alcuni vizi minori come una pressoché totale mancanza di ironia, qualità temuta e un po’ disprezzata per ragioni che lui stesso ci suggerisce appunto biografiche. 

Il libro ha molto da offrire anche ai lettori meno interessati a questioni tanto teoriche, contiene reportage memorabili sul misterioso autore del bestseller degli anni 70 L’uomo dei dadi o sul meeting economico di Davos, un ottimo profilo biografico di Alan Turing, un buon numero di viaggi in Russia e uno in Romania sulle tracce di Dracula. Tutto materiale che ricorda come prima ancora di essere un’anima tormentata che ha osato dichiarare il peso del punto di vista nella scrittura, elefante nella stanza del conformismo letterario, Carrère sia un eccezionale narratore. 


LA STAMPA





lunedì 4 maggio 2015

Jean Cocteau / Il gesto della Morte

Jean Cocteau

Il gesto della Morte 

.
Un giovane giardiniere persiano dice al suo principe: - Salvami! Ho incontrato la Morte stamattina. Mi ha fatto un gesto di minaccia. Stanotte, per miracolo, vorrei essere a Isfahan.
Il buon principe gli presta i suoi cavalli. Nel pomeriggio, quel principe incontra la Morte - Perché, lui le domanda, stamattina hai fatto al nostro giardiniere un gesto di minaccia?
- Io non ho fatto un gesto di minaccia, quella risponde, ma un gesto di sorpresa. Perché lo vedevo lontano da Isfahan questa mattina, e ad Isfahan lo devo prendere stanotte.


(Tradotto dalle Oeuvres complètes de Jean Cocteau, Marguerat 1946)




domenica 18 gennaio 2015

Michel Houellebecq / L’ ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro


Houellebecq, l’ ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro

Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia»

di Stefano Montefiori
Corriere della Sera
8 gennaio 2015 | 08:07




Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica.

È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah.

Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato.


L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!».



Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. 


Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Era un dibattito avvincente, toccava tutti. Il massacro a Charlie Hebdo lo rende ancora più centrale ma tutto è già cambiato, la Francia non sarà più la stessa. Michel Houellebecq, atteso giovedì sera alla trasmissione di punta a Canal Plus, dovrà decidere se, e come, partecipare.



sabato 17 gennaio 2015

Michel Houellebecq / Niente in Francia sarà più come prima

Michel Houellebech

L'intervista lo scrittore francese

Michel Houellebecq: 

«Niente in Francia sarà più come prima. Sì, ho paura anch’io...»

Il giorno del massacro era uscito nelle librerie il suo ultimo libro Sottomissione, da domani disponibile anche in Italia

di Stefano Montefiori, nostro corrispondente a Parigi


Corriere della Sera
14 gennaio 2015 | 08:03


Dopo l’attentato a Charlie Hebdo, il più celebre scrittore francese Michel Houellebecq ha lasciato Parigi, protetto dalla polizia. Il giorno del massacro alla redazione, il 7 gennaio, è uscito in Francia per Flammarion il suo ultimo romanzo,Sottomissione, che sarà nelle librerie italiane domani, edito da Bompiani. Houellebecq immagina una Francia del 2022 dove il presidente musulmano Ben Abbes vince le elezioni, islamizza la società e progetta di ricreare in Europa e nel Mediterraneo una sorta di impero romano, unito dall’Islam. Houellebecq aveva sospeso la promozione del suo libro, ma ha scelto di mantenere l’impegno preso con il Corriere della Sera . 


«l’Islam è la religione piu stupida del mondo»
Michel Houellebecq




Michel Houellebecq, lei ha paura? 

«Sì, anche se è difficile rendersi conto completamente della situazione. Cabu per esempio, uno dei disegnatori uccisi, non era del tutto cosciente del rischio, c’era in lui l’anima sessantottina mescolata con una vecchia tradizione di mangiapreti, e in Francia essere un mangiapreti espone a un processo in tribunale che in genere si vince. Penso che Cabu non abbia colto che la questione è ormai di un’altra natura. Siamo abituati a un certo livello di libertà di espressione, e non ci siamo fatti una ragione del fatto che le cose sono cambiate. Anche io sono un po’ così, a livello inconscio. Ma l’idea della minaccia ti viene in mente, ogni tanto...». 

Come ha vissuto il 7 gennaio, che avrebbe dovuto essere la sua giornata, quella della pubblicazione del libro atteso da mesi ? 
«Quando ho saputo dell’attacco a Charlie Hebdo ho chiamato il mio amico Bernard (l’economista Bernard Maris, tra le vittime, ndr), ma non pensavo che fosse coinvolto. Collaborava con loro, non immaginavo che fosse alla riunione di redazione. Ho continuato a chiamarlo, dalle 12 alle 16, non rispondeva. Poi ho saputo». 

Pensa che dopo gli attentati di Parigi la libertà di espressione sarà più difficile da esercitare? Nonostante l’immensa manifestazione di domenica?
«Sì, certo. Niente sarà più come prima. Sicuramente è più dura, per esempio per un disegnatore che comincia adesso». 

Ma «Charlie Hebdo» ricomincia con un nuovo numero che ha in copertina Maometto. Forse quel che è successo potrebbe al contrario dare forza ai giovani. 
«Adesso non c’è problema, faranno lo stesso tutti i disegnatori di Francia anzi del mondo. Dopo non so». 

Lei è sulla copertina del numero uscito la mattina stessa della strage. Il nuovo «Charlie Hebdo» riparte da Maometto. Che cosa pensa di questa scelta?
«Sì, è quel che bisogna fare, è la scelta giusta. Charlie Hebdo ha sotto la testata la scritta “giornale irresponsabile”. È questo il loro motto, ed è giusto che restino fedeli alla loro linea». 

Lei aveva paura anche mentre scriveva il suo romanzo? 
«No, per niente. Quando si scrive non si pensa affatto a come verranno accolte le proprie parole. Scrittura e pubblicazione sono due fasi separate. È adesso che uno capisce i rischi». 

Il libro non mi è sembrato islamofobo, anzi al limite islamofilo. Ma in fondo neanche quello, l’Islam viene abbracciato un po’ per opportunismo.
«È così. I miei grandi riferimenti in letteratura sono Dostoevskij e Conrad. Entrambi hanno dedicato romanzi all’argomento di attualità più importante dell’epoca, ossia gli attentati anarchici e nichilisti, la rivoluzione russa che covava. Sono molto diversi nel modo di trattare il soggetto, ma questi rivoluzionari per loro si dividono in due tipi: farabutto cinico o naif assurdo, talvolta altrettanto pericoloso. Io descrivo invece, quasi unicamente, dei farabutti cinici attraversati talvolta da un pizzico di sincerità». 

Questa parte di sincerità, che finisce per essere sconfitta, la si vede anche nel momento chiave del romanzo, quando il protagonista François si rivolge alla Vergine nera di Rocamadour, ma desiste, non trova la fede.
«Sì quella è la svolta del romanzo. È li che ho deluso i miei lettori cattolici, oltre a quelli laici. Nel progetto iniziale il protagonista si converte al cattolicesimo, ma non sono riuscito a scriverlo. L’avanzata islamica mi è parsa più credibile». 

La settimana scorsa era cominciata con la parola chiave «Sottomissione»; si è conclusa con titoli come «La rivolta di Parigi», «La Francia in piedi», a proposito della marcia. È sorpreso dalla reazione dei suoi concittadini? 
«Non credo che quella marcia pur immensa avrà enormi conseguenze. La situazione non cambierà nel profondo, torneremo con i piedi per terra». 

Davvero per lei è solo un episodio quindi?
«Sì. Non vorrei sembrare cattivo... Ma invece un po’ sì. Quando c’è stato l’incendio della redazione, il primo attentato a Charlie Hebdo nel 2011, non pochi dei colleghi giornalisti e dei politici dissero “sì, la libertà va bene, ma bisogna essere un po’ responsabili”. Responsabili. Questa era la parola fondamentale». 

Anche a lei, di recente, è stato chiesto se non sente di avere una responsabilità in quanto grande scrittore. La trova appropriata questa domanda?
«No, io mi sento sempre irresponsabile e lo rivendico, altrimenti non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo non è aiutare la coesione sociale. Non sono né strumentalizzabile, né responsabile». 

Qual è il problema alla base di tutto, in Francia?
«È il punto di partenza del libro. Il Paese è sempre più a destra ma la rielezione di un presidente di sinistra non è totalmente impensabile. E questo è destabilizzante». 

Il Front National era assente dalla marcia di Parigi.
«Sì, sembra che non li abbiano voluti. Se vogliamo parlare nello specifico del Front National, hanno due deputati e il 25% dei voti (alle Europee, ndr)... C’è uno scarto evidente. Il Front National ha un peso nella società che non corrisponde affatto alla sua rappresentanza parlamentare. Mi domando fino a che punto una situazione simile sia sostenibile, con questa astensione poi. C’è un sistema che dovrebbe essere democratico e che non funziona più». 

Hollande ha detto che leggerà il suo libro. È curioso di conoscere la sua opinione?
«No, dell’opinione letteraria dei politici mi interessa poco. Se François Hollande sarà rieletto presidente nel 2017 forse molte persone emigreranno. Per ragioni fiscali ed economiche, per l’idea che è difficile fare granché in Francia, un Paese che appare bloccato. E poi potremmo vedere qualcuno alla destra del Front National che si innervosisce e passa a un’azione violenta». 

Nel suo romanzo la guerra civile sembra cominciare, poi per fortuna si ferma subito. Ma lei mi sta dicendo che nella realtà questa le sembra un’ipotesi possibile
«Sì, è un’ipotesi possibile. Sono allarmista, certo. Declinista no, perché ci sono cose bizzarre e positive che accadono in Francia, per esempio abbiamo una demografia molto alta, una cosa tutto sommato misteriosa». 

Il grande soggetto del suo libro è in generale il ritorno della religione.
«Sì, è un fenomeno che i media non riescono a cogliere, pensano che la religione sia un fenomeno passato di moda. Ma prima di domenica le grandi manifestazioni di piazza sono state le manif pour tous. Fatte da cattolici molto diversi da quelli che mi ricordavo da giovane, ovvero gente complessata e all’antica oppure di sinistra insopportabilmente perbenista (ride, ndr)». 

Ha letto «Il Regno», il romanzo di Emanuel Carrère, e il suo testo su «Sottomissione» pubblicato dal «Corriere»?
«Si. Carrère ha capito certe cose fondamentali del mio libro». 

Per esempio la tentazione di liberarsi della libertà?
«Si. Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. È un piacere parlare di Emanuel Carrère e del suo libro che ho molto amato». 

Carrère spera che possa esserci una relazione feconda tra l’Islam e la libertà cara alla civiltà europea erede dei Lumi. È uno scenario possibile?
«I miei valori non sono quelli dell’Illuminismo. Ora, senza andare verso un progetto di fusione grandioso alla Carrère, diciamo che Cattolicesimo e Islam hanno dimostrato di poter coabitare. L’ibridazione è possibile con qualcosa che è davvero radicato in Occidente, il Cristianesimo. Mentre con il razionalismo illuminista mi pare inverosimile». 

Rispetto al 2001 e alla sua celebre dichiarazione «l’Islam è la religione piu stupida del mondo», lei ha chiaramente cambiato opinione sull’Islam. Come mai?
«Ho riletto con attenzione il Corano, e una lettura onesta porta a supporre un’intesa con le altre religioni monoteiste, che è gia molto. Un lettore onesto del Corano non ne conclude affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente». 

È il dibattito cruciale. I terroristi sono pazzi che stravolgono il messaggio dell’Islam, o la violenza è inerente alla natura stessa di quella religione?
«No, la violenza non è connaturata all’Islam. Il problema dell’Islam è che non ha un capo come il Papa della Chiesa cattolica, che indicherebbe la retta via una volta per tutte». 

I suoi romanzi hanno sempre una parte di osservazione della società e un tocco profetico, a cominciare dal capitalismo applicato ai sentimenti di «Estensione del dominio della lotta»... 
«Sì, è stata la mia prima scoperta (ride, ndr)». 

...per continuare con turismo sessuale e terrorismo di massa, clonazione, Francia trasformata in parco giochi per ricchi turisti, fino alla sottomissione all’Islam.
«Comincio dall’osservazione della realtà, ma resta letteratura. So che è difficile da credere ma l’Islam, nel romanzo, all’inizio non c’era. Uno dei motivi che mi hanno fatto scrivere il libro, oltre al fatto che essere ateo mi è diventato insopportabile, è che tornando in Francia dall’Irlanda mi sono reso conto che la situazione era molto peggiore di quanto pensassi. Ho pensato che le cose potevano precipitare in modo spiacevole, e questo mi ha sorpreso». L’intervista finisce, ci salutiamo. «Spero che avremo l’occasione di rivederci in circostanze più felici», conclude lo scrittore.