domenica 14 marzo 2021

Carrère scopre che raccontare il suo matrimonio è appropriazione culturale

 


JOEL SAGET / AFP

La coppia è mia e la gestisco io

Carrère scopre che raccontare il suo matrimonio è appropriazione culturale

L’ex moglie dello scrittore francese, turbata dal modo in cui lui descrive la loro relazione (finita), non ci sta a lasciargli la narrazione della loro vita coniugale. Forse si dovrebbe istituire un risarcimento per chi svolge l’ingrato ruolo di materiale narrativo per l’ispirazione del partner


GUIA SONCINI

1 Ottobre 2020


A chi appartiene una storia? Se pensate che la risposta sia facile («a chi l’ha vissuta»), state sottovalutando un dettaglio: tutto ciò che raccontiamo (non necessariamente in un libro: valgono anche le storie con cui intratteniamo i commensali) non ci è successo da soli. Le storie che vale la pena raccontare coinvolgono in genere conversazioni, sentimenti, litigi, riappacificazioni; insomma: coinvolgono altri.

A parte il mal di testa (che, ci ricordava Vasco Rossi, quando ce l’ho «ce l’ho io, mica te», e se lo racconto non sto rubando storie altrui), tutto quel che raccontiamo si appropria di storie (anche) altrui. Chi ha diritto di raccontare una storia? Toccherà a chi trova per primo una chiave per farlo? O a chi è più abile come affabulatore? Forse a chi è più prepotente?In un film francese d’un paio d’anni fa, uscito in Italia con il terribilissimo titolo “Il gioco delle coppie”, alla presentazione d’un libro un lettore chiedeva conto all’autore d’una polemica: la sua ex moglie era furiosa per il suo ultimo romanzo, autobiografico. E aveva ragione, ipotizzava il lettore: ora, se lei volesse scrivere quella storia, non potrebbe più farlo. Lui gliel’ha sottratta. Non aveva diritto di usare una storia che forse apparteneva a lei. Il tapino obiettava che la sua vita erano le relazioni che aveva con gli altri: se si toglievano quelle, non gli restava materiale narrativo.

Dev’essere un problema assai sentito in Francia, la proprietà delle storie. E la natura delle storie.Almeno a guardare il caso Carrère.

Prologo. Emmanuel Carrère pubblica un libro, “Yoga”. In esso si raccontano il suo esaurimento nervoso e la fine del suo matrimonio (riporto, fidandomi, dagli articoli francesi: io aspetto l’edizione pastellata Adelphi per leggerlo; uscirà l’anno prossimo). “Yoga” esce in Francia il 23 di agosto, e tre settimane dopo comincia a dipanarsi lo scandalo.

Parte dalla radio, dove un altro scrittore parla di «cause legali minacciate»; prosegue su un sito che allude a modifiche al testo fatte su richiesta degli avvocati; e infine arriva su un quotidiano che spiega che Hélène Devynck, già moglie dell’autore, non ha approvato i passaggi che la riguardano.

Chi si ricorda di “Affari di cuore” avrà un déjà-vu. Nora Ephron (sceneggiatrice, regista, eroina delle sentimentali con uso d’umorismo) e Carl Bernstein (quello del Watergate) divorziarono dopo che lui ebbe la gentilezza di cornificarla mentre lei era incinta.

Lei ci scrisse un romanzo (come non capirla): cambiò i nomi, ma tutti sapevano che era lui quello «che sarebbe capace di scoparsi gli scuri della finestra». Il cornificatore dichiarò che certo, avrebbe preferito il libro non fosse stato scritto, «ma ho sempre saputo che scrive i fatti suoi: Nora va al supermercato e lo usa come materiale narrativo» (come non capirla).

Quando il romanzo stava per diventare un film, però, Bernstein pretese che nell’accordo di divorzio venisse inserita una clausola che tutelasse la sua immagine: aveva diritto a leggere le stesure della sceneggiatura, a vedere il primo montaggio, a pretendere d’essere rappresentato come un buon padre.

Sebbene sappia che Jack Nicholson fu un rimpiazzo (la prima scelta per interpretare Bernstein non funzionò), mi piace credere fosse invece una delle condizioni imposte dal vanesio ma bruttino Carl: «Potete fare il film solo se m’interpreta quello strafigo di Jack».

Se un anatroccolo può cercare d’impedire la realizzazione d’un film in cui lo interpreta il più cigno dei cigni, figuriamoci se l’ex signora Carrère non può stizzirsi per come la racconta il suo ex.

Finché non era ex, ha portato pazienza. Finché stavano insieme, «Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, tuffarsi nel mio lutto, nei miei dolori, nella mia sessualità». Era perché, se devi litigare per chi porta giù l’umido, non puoi metterti a litigare anche sugli autobiografismi, con tutti i diritti d’autore che ne arrivano sul conto comune? Macché: era perché il tutto era fatto con amore, e il modo in cui il materiale veniva lavorato le assicurava «d’essere rappresentata in un modo che si attagliava a entrambi».

Già vedo le femministe dei cancelletti agitarsi: si tratta chiaramente d’una donna plagiata, vessata, sfruttata. Macché: la signora ha tutta l’aria di sapersi difendere.

Quando si lasciano, gli fa firmare un contratto. (E qui ci dividiamo in due. Le sfruttatrici di materiale autobiografico pregano che a nessun loro amante venga mai in mente di pretendere un contratto. Le sfruttate da scrittori si chiedono: maledizione, perché non m’è mai venuto in mente di farmi fare un contratto per il ruolo d’ispiratrice, di musa, di materiale narrativo?).

Quando l’ha firmato, però, le arriva il manoscritto di “Yoga”. Con un biglietto in cui Emmanuel, re dei paraculi, ha scritto «Non dovrebbe essere una sopresa, per te, ch’io scriva libri autobiografici. Questa storia risulterebbe incomprensibile senza il contesto».

Nella lettera che ha scritto all’edizione francese di Vanity Fair la signora chiosa questo messaggio con le parole «Nel caso, il contesto ero io». («Le contexte, c’était moi» sta tra il «Madame Bovary, c’est moi» di Flaubert e il «L’enfer, c’est les autres» di Sartre: cos’aspetterà Hélène, la vera scrittrice di casa, a fornirci un Rashomon matrimoniale scrivendo la sua versione dei fatti, santo cielo).

La lettera prosegue con altri elementi incendiari per il cancellettismo: «Per aver detto “sì” altre volte, non posso più dire “no”?» (il consenso, il sopruso, il maschilismo tossico; oltretutto, come eroina e simbolo della rivalsa, Hélène è assai più presentabile di Asia).

«Il mio personaggio è stato sputtanato in una fantasia sessuale accompagnata da rivelazioni spiacevoli sulla mia vita privata. È stato sgradevole». Se avete visto “Harry a pezzi”, uno dei più bei film di Woody Allen, non può non venirvi in mente la scena sublime in cui l’ex moglie fa una piazzata all’ex marito che ha scritto un romanzo con tutti i cazzi loro, e il picco dei suoi insulti coincide col momento in cui lo sfruttatore di vite altrui cerca di nascondersi dietro alla formula «liberamente ispirato». «Non dirmi “liberamente”, testa di cazzo: cosa pensi che sia, una di quelle conduttrici televisive ritardate?».

Come insegnano i poeti, l’inferno non conosce furia pari a quella d’una donna tradita, e quindi Hélène provvede a sputtanare Emmanuel: ha raccontato in maniera assai più lieve i suoi episodi psicotici, e ha trasformato in mesi un weekend a Lero a vedere da vicino i profughi. Ma il colpo davvero basso non è questo.

È il passaggio della lettera in cui, come Judy Davis (che interpretava la moglie di Woody Allen), ammette che certo, ci sono degli elementi romanzati nel non romanzo. Per confondere le acque, ma – soprattutto – per strizzare l’occhio al Goncourt.

La polemica era già partita prima della lettera della protagonista tradita: il più prestigioso premio letterario francese forse escluderà “Yoga” dai possibili vincitori, giacché premia romanzi e non memoir (ragione per la quale era stato escluso “La traversata”, il memoir di Philippe Lançon, editorialista di Charlie Hebdo).

Che criterio fesso: come se i romanzi non fossero perlopiù memoir coi nomi cambiati. Come se non fosse tutto autobiografico, «sia che scriva “nacqui nel tal anno nel tal posto”, sia che scriva “c’era un re che aveva tre figli”», diceva un certo Borges.

Ho una proposta alternativa alla cancellazione del maschio tossico dal premio. Dateglielo, il premio. Qualche anno fa Slate calcolò che il Goncourt quintuplica le vendite, e che gli incassi, per la casa editrice che pubblica il vincitore, possono arrivare a tre milioni di euro nelle otto settimane successive all’assegnazione del premio (immagino c’entri anche l’effetto Natale, visto che il vincitore viene proclamato il 10 novembre).

Fate vincere Emmanuel, con la clausola che la sua percentuale dei tre milioni vada a Hélène. Oltre ai soldi che spero già le assegni quel contratto, le cui clausole spero un qualche giornalista investigativo ci sveli presto: abbiamo bisogno di sapere quali sono le tariffe di mercato per continuare a fare da materiale narrativo dopo il divorzio.


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