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mercoledì 9 agosto 2017

Belgrado-Novisad, il cuore ad Est / Diario di bordo

La piazza principale di Novisad




Belgrado-Novisad, il cuore ad Est

Diario di bordo

29 MARZO 2017, 
ANNA VITIELLO


Vorrei parlarvi del mio viaggio a Belgrado, delle passeggiate in riva al Danubio e degli incontri che hanno cambiato la mia vita. Potrei raccontarvi delle corse fatte per arrivare in tempo nel punto in cui l'incantevole città si lascia ammirare da un binocolo. E ancora degli amici persi, fedeli compagni di viaggio ma poi diventati esseri dalle sconosciute sembianze.
Una corsa verso la vita in un tempo fermo, immortale, statico. Il tempo della riconciliazione. Si riconcilia l'anima assieme al cuore quando sei lì, mentre qualcuno attorno a te s'incammina e imbocca strade diverse. Lì a Belgrado di sbocchi non ce ne sono, la città è solo un cuore che pulsa. Dall'interno l'unica prospettiva è quella dell'equilibrio.

Il cuore di Novisad

Da Belgrado a Novisad il viaggio è unidirezionale, sai già che nel luogo dove approderai troverai gli stessi strascichi, le stesse ferite, gli stessi solchi nell'anima. La stessa malinconia negli occhi delle persone. Occhi un po' a mandorla, occhi verde bottiglia.
Qui a Novisad una fortezza sovrasta la città, imponente, fiera, padrona. La vita sembra snodarsi dalla vetta, diramarsi verso il centro, dove stradine strette e luci soffuse rendono magica e spettrale l'atmosfera già tetra. Anche se dimentico i nomi delle persone so scandire le emozioni ad una ad una. Secoli di storia distrutti dai bombardamenti e offuscati dalle polveri, urla strazianti di madri che ancora si disperano, bambini divenuti uomini che non parlano della guerra se non sei tu a far loro delle domande. Un tatto che noi occidentali probabilmente non abbiamo mai avuto.

Tramonto sulle guglie della cattedrale di Novisad

Chiese ortodosse sembrano comparire dal nulla tra una bottega e l'altra mentre profumi di spezie pervadono i sensi. Si cammina senza fretta perché tutto è sospeso un po' nel passato e forse anche nel presente. La sensazione infatti di essere sospesi, di stare in un limbo e di travalicare il labile confine tra realtà e finzione. Anche questa è magia serba. Anche questa è vita e morte, è ricordare e dimenticare.
Il tempo della riconciliazione in un luogo dalle tante contraddizioni. La bellezza di questi posti stride con la sofferenza ancora oggi così visibile sul volto di chi osserva, diffidente e silenzioso i viandanti. Ci sarà un altro tempo per queste persone? Me lo sono chiesta tante volte. Un tempo per loro ma anche per me perché è il posto dove vorrò sempre tornare, dove avrò sempre qualcosa da andare a prendere, dove mi hanno insegnato talmente tante cose che ho provato a scriverne.
E perché il mio cuore batte incessantemente ad Est.



lunedì 7 agosto 2017

Anna Vitiello / Tratto di treno


Tratto di treno

Come si raccontano certe storie se non hanno inizio?

29 OTTOBRE 2015, 
ANNA VITIELLO

Potrei cominciare dal mio ma preferisco credere di non averlo mai scritto. Tuttavia, nel mio inizio, ci è finito lui, dal primissimo giorno in cui lo incontrai. L'inizio e la fine in una sola volta. Lui si chiama come sempre l'ho chiamato io, prima che conoscessi il suo nome reale. Il nome di una persona è molto più importante di quanto si possa credere perché lì risiede l'alfabeto della sua esistenza. B. me lo diceva sempre. B., ad esempio, girava spesso con il mio nome tratteggiato al collo, collegato al cuore tramite una catenina d'argento. Il legame indossolubile, simile al ferro ma che mai si spezza.




E tutto questo oggi lo racconto a lei, la inserisco nel mezzo della storia perché è sempre stata presente, pur avendo visto presto la fine partecipando dall'inizio. Come dicevo, B. andava in giro così, con il mio nome e poi il suo. Andava in giro con le sue ancore di salvezza. Un giorno di Novembre decidemmo che ci saremmo viste lì, dove sapevamo noi. Allora io l'aspettai al binario e tutto d'un tratto la vidi correre (eccome se correva!) verso di me, ad abbracciarmi mentre mi crollava il mondo addosso e tentava in tutti i modi di stringermi affinché non ne sentissi né il rumore né il peso. Insomma, se il mondo avesse deciso di schiacciarci, saremmo state chiamate a difenderci entrambe.




Da quella volta ho cominciato a credere nelle coincidenze, quello che perdevo, mi veniva puntualmente regalato da lei e avremmo potuto chiamarlo sodalizio se solo fossimo state più romantiche. Se solo ci fossimo adeguate alla dolcezza sprecata del mondo. Non tutte le storie hanno bisogno di romanticismo. Nel frattempo, qualcuno scese dal treno, altri salirono, qualcuno sbagliò destinazione, come spesso succede quando a tutto pensiamo tranne che a giungere in un luogo. Anche i luoghi hanno le loro coincidenze.



Fu proprio sullo stesso binario, infatti, che incontrai quell'uomo dal colore incerto dei capelli e lo sguardo stanco. Quello al quale ho voluto attribuire io un nome. Più volte lo incontrai, un giorno viaggiammo assieme e ci dicemmo tutto con gli occhi ma vorrei nemmeno questo passasse per romanticismo; io con occhi negli occhi intendo qualcosa di più violento, infantile, disarmante, incontrollabile. Uno schianto. Viaggiammo assieme per un tratto di treno.



Foto di Henri Cartier-Bresson

Noi tre c'eravamo già incontrati, camminando per gli stessi luoghi, salutandoci sul binario. Noi, senza nome, che non abbiamo avuto né inizio né fine, dal momento in cui ho scritto, solo uniti attraverso un piccolo tratto che collega il cuore ai ricordi come in una corsa affannosa verso quel treno.



sabato 5 agosto 2017

Anna Vitiello / La dama in nero


La dama in nero

Notte amica, notte nemica

28 FEBBRAIO 2017, 
ANNA VITIELLO


La notte arriva,
fedele compagna, immancabile momento di pace, la quiete dopo la tempesta.
La notte si riposa,
dopo le corse del giorno, mentre la vita a singhiozzi si manifesta.
Di notte, nessun lamento.
Le pareti ti stringono e ti accerchiano, mentre il sonno diventa più profondo.
Gli oggetti inanimati osservano lo svolgersi del ripetuto evento.
La notte compare, poi scompare. Arriva e se ne va.
Ti lascia sola quando vuole, ti accoglie quando sa che hai bisogno di lei.
Ma non si lascia afferrare, prendere, impugnare. Solo lei può. Solo lei sa.
E quando parli, sai che ti ascolta. Sveglia assieme a te, madre preoccupata.
Ansia che va e viene. Insonne, perché ha voglia di parlare. Gelida, quando dà spazio anche al dolore. Incomprensibile notte, autentico momento di vita.
Covo di lacrime, porto sicuro, calorosa amante. Mille sfaccettature per un unico colore. Monocromatica emozione.
Va via quando vorresti scappare anche tu. E quando cerchi la luce, il suo buio mantello ti avvolge. Forse ha i capelli cobalto, le mani lunghe e affusolate, le labbra di un rosso intenso.
Impercettibile figura dalle sembianze umane. Simile a noi, quest'elegante signora.
Impenetrabile, la saggia notte sa dirci quando è tempo che il giorno faccia la sua parte e quando, invece, è necessaria la sua amara compagnia.
Nessuna stella, se la Notte vuole. Nessun fischio nelle orecchie di quegli assordanti venti, suoi amici, messaggeri di morte.
Diabolica, la nostra signora, ci aspetta e a volte ci consola.
Ci culla, silenziosamente, quando tra le sue braccia cadiamo ormai stanchi.
La notte, non conosce inganni e false speranze. Detentrice di verità spaventa gli uomini, esseri umani fragili, foglie cadute.
Robusta, implacabile, severa. Spavalda, intransigente, austera.
La notte pianta le sue forti radici.
Ti lascia con mille domande, e lei ancora e sempre sola, sommersa dal peso di ciò che il giorno non è stato in grado di fare.
La notte, dispensatrice di consigli sa stare anche in silenzio. Così lontana dal chiasso quotidiano, diversa nei colori e nella forma, si piega.
Spiega ciò che il giorno non dice.
Non accetta compromessi, questa conturbante dama in nero.
Accanto a te si distende, riposando gli occhi stanchi. Perfettamente allineata alla tua figura, docile e dolce. Un'onda che mai si infrange eppure delicatissima. Un suono soave.
Unica, eppure ambivalente.
Fredda ma dalle mani calde.
Distante quando può.
Vicina quando necessario.
Notte amica,
notte nemica.
La notte,
nel suo doppio,
resta l'unica salvezza.


WSI



venerdì 7 luglio 2017

Le notti di Cabiria / Il capolavoro di Federico Fellini vincitore dell'Oscar nel 1958

Una scena de "Il pellegrinaggio" ne "Le notti di Cabiria"


Le notti di Cabiria

Il capolavoro di Federico Fellini vincitore dell'Oscar nel 1958

29 GENNAIO 2017, 
ANNA VITIELLO

Per me, il neorealismo non è in ciò che si mostra, ma nel come lo si mostra. È semplicemente un modo di guardarsi attorno senza convenzioni e senza pregiudizi. Certa gente è ancora convinta che il neorealismo serva solo a mostrare un determinato tipo di realtà, precisamente la realtà sociale. Ma allora sarebbe soltanto propaganda. Si proporrebbe un programma: mostrare soltanto certi aspetti della vita. Qualcuno mi ha definito un traditore della causa neorealistica, mi ha accusato di essere troppo individualista, troppo individuo. Sono invece convinto che i film che ho fatto finora siano stilisticamente legati al primo cinema neorealista, che cioè raccontino con semplicità le vicende di certe persone. E tutte le volte che racconto la storia di qualcuno, cerco di mostrare qualche verità.
(Federico Fellini)
Queste le parole di Federico Fellini in cui sono evidenti le intenzioni di un regista che si difende e, anche in maniera piuttosto decisa, da alcune accuse che gli furono rivolte sul suo modo di intendere e fare cinema, neorealista, in questo caso. Considerato l'avantesto della Dolce VitaLe notti di Cabiria vince l'Oscar come miglior film straniero nel 1958.

L'indimenticabile Giulietta Masina ne "Le notti di Cabiria" di Federico Fellini, 1957

Ho trovato davvero molto attuale la figura di quest'esile e atipica donna che lotta per trovare la sua dimensione e affermare la sua esistenza nel mondo. Per tutta la durata del film, ho interpretato le azioni di Cabiria come il chiaro tentativo di gridare il suo bisogno di essere riconosciuta come una persona che ha diritto, non meno di altre, di guadagnarsi i suoi preziosi momenti di felicità. La sua è una storia di morte sfiorata e rinascita. A un passo dalla morte si trova già all'inizio del film, quando rischia di annegare nel Tevere, dove viene gettata dal suo amato Giorgio, il quale pensa bene di derubarla e lasciarla dov'è. Così come rischia di morire alla fine del film, quando Oscar tenta di ucciderla nel lago di Albano. Non si accorge, Cabiria, delle vere intenzioni di questi uomini senza amore, la sua ingenuità non glielo consente perché è un personaggio ingenuo, dai sentimenti buoni e che tale resterà fino alla fine del film.

Il divo e la donna di borgata. L'incolmabile distanza tra i due

Lei è bello come la sua casa

Con assoluta ingenuità vive anche l'incontro con il suo divo Alberto Lazzari che, semplicemente per trascorrere del tempo, la invita a stare da lui per una serata. Ecco, questo momento per Cabiria rappresenta probabilmente la realizzazione di uno dei suoi grandi sogni: una vita alla quale ha sempre pensato, che le fa spalancare gli occhi e la catapulta a tutti gli effetti in una dimensione onirica. La casa in cui viene ospitata Cabiria è quasi un monumento al divismo, un luogo di culto, ricco di oggetti esotici (abitudine molto frequente di alcuni registi quella di inserire oggetti fuori dall'ordinario). Grandi armadi a specchio si aprono e si chiudono quasi seguissero una musichetta. Cabiria si guarda attorno estasiata mentre il divo sempre più distante è assorto nei suoi pensieri, non l'ascolta nemmeno. Seppure ripresi nella stessa camera, è come se li dividesse un muro altissimo.


La disperata voglia di vivere di Cabiria


Il culmine di questa lontananza anche emotiva tra i due, probabilmente, è nel momento in cui il divo fa partire la Quinta di Beethowen e lei, sempre più piccola, ascolta e umilmente dice la sua, riportando l'intera situazione alla realtà, volendola quasi ridimensionare, livellando la palese distanza. ... manco io, domani non ci credo più! In un certo senso, è come se, con la sua spontaneità, rendesse il suo interlocutore più umano. Alberto Lazzari è, infatti, una figura cinica e realistica, incarna il divo per eccellenza che non ha bisogno di conferme dal mondo esterno.
Arriva l'amante di Alberto Lazzari, Jessie, e Cabiria sparisce di scena. Rinchiusa nel bagno, subodora quella realtà tanto sognata e la spia dal buco della serratura, provando un piacere senza dubbio voyeuristico, come se assistesse a un film e noi assieme a lei. Questo momento è significativo anche per una motivazione precisa e importante: diventa centrale lo sguardo femminile, ossia quello della spettatrice che ora è consumatrice di film.
Cabiria e il Night Club

La nostra protagonista inciampa in una realtà che non le appartiene e ci inciampa due volte quando è costretta ad andar via da quella casa e batte la testa nel vetro della porta ritornando subito alla sua vita, quella vera. Cabiria non è l'attrice che ci si aspetterebbe di vedere sullo schermo in quegli anni ancora post-bellici, dove il modello femminile che prevale è sicuramente un altro. Il suo atteggiamento è caricaturale, è quasi una macchietta e nella gestualità somiglia a un burattino.
Dunque, da una parte il divo che il pubblico già conosce e ammira, indifferente, come se fosse anch'egli una vittima inconsapevole di quel sistema di mercificazione dei ruoli cinematografici e non. Dall'altra, Cabiria che non sa ancora chi è e cosa vuole e spera solo in una vita diversa. E, fino alla fine, si illude che questo possa accadere, investe tutte le sue speranze in un uomo, Oscar, che scoprirà volerla uccidere. Crolla ancora una volta il suo castello di illusioni e Cabiria esprime la volontà di voler morire, in un crescendo di grida che racchiudono tutto il senso della disperazione finale.

Amedeo Nazzari in una scena del film

In questo suo spasmodico desiderio di amare ed essere amata, Cabiria è una donna in transizione, che agisce per conto suo, assecondando emozioni e istinto. Per quanto non sia sostenuta da nessuna struttura sociale in senso rivoluzionario è una donna che rivoluziona, o almeno ci prova, uno status di cose. Rischia tutto fino alla fine, non teme le conseguenze e porta avanti con coraggio il suo ideale di libertà personale.
Federico Fellini


L'elemento onirico/magico e l'elemento religioso

Dopo aver realizzato solo tardi che Giorgio l'ha lasciata annegare ('t'ha buttata a fiume, le dice Wanda), Cabiria decide di dar fuoco ai vestiti e agli oggetti di lui, in un gesto simile a un rito magico. Il fuoco è una presenza costante nel film. La luce è lunare, netta e in contrasto con il buio più cupo e inquietante. Forse è anche nel contrasto tra luce e ombra che possiamo cogliere la dimensione onirica. Siamo proiettati in questa dimensione onirica già quando entriamo in casa di Alberto Lazzari, lì Cabiria sogna e immagina una vita diversa.
Il momento culmine di questa dimensione onirica risiede nel gioco del prestigiatore che sottopone Cabiria a un'ipnosi in cui tocca abilmente tutte le corde della sua anima e che le permette, ormai avulsa dalla realtà, di esprimere i suoi desideri e mostrare le sue debolezze. Cosa desidera realmente Maria "Cabiria" Ceccarelli? Alla fine di quest'esperimento ignora ciò che le è appena successo. Il fascio di luce che illumina il suo volto la isola dal resto della sala e anche da noi spettatori. Un palcoscenico nel palcoscenico, se vogliamo, dove si manifesta la sua illusione più grande.
E in questa finzione, addirittura il prestigiatore sente come necessario il bisogno di riportare tutti alla realtà, palesemente scosso dal dramma individuale messo in scena Cabiria. Dentro questa finzione, il prestigiatore ricorda molto il regista, produttore di immagini. In questo momento, è come se fossimo seduti in sala con gli altri ad assistere allo spettacolo.
Interessante è il modo in cui il mondo religioso e quello laico dialoghino tra loro. Cabiria decide di accodarsi alla processione diretta verso la chiesa del Divino Amore per chiedere la grazia, cioè quella di essere salvata. La processione sembra quasi incastrata nella trama del film, è un momento che arriva in maniera improvvisa. Se è vero che l'elemento religioso non è sempre negativo, è anche vero che qui nessuno assiste al miracolo e la fede non porta da nessuna parte. Anche le prostitute, sue amiche, sperano di essere salvate dalla strada, sperano in un ''miracolo''. Si salverà mai Cabiria? Ci chiediamo …

Giulietta Masina e François Périer

Ha suscitato non poche polemiche la presenza dell'uomo con il sacco che aiuta i più bisognosi e compie opere di bene. Quest'episodio era stato inizialmente censurato dalla chiesa perché si vedeva il mondo laico muoversi per l'assistenza volontaria. Cabiria si fa accompagnare a casa, profondamente turbata dalle scene pietose a cui aveva assistito. Laica è anche la figura del frate al quale Cabiria si rivolge prima di sposarsi con Oscar e che non può confessarla proprio perché laico.

Federico Fellini

Il dramma individuale di Cabiria

Non si tratta di un film sulle prostitute; ho scelto una prostituta come protagonista, sia per un mio gusto per le esemplificazioni estremiste, sia perché oggettivamente il rapporto di un uomo con una prostituta è forse uno dei più brutali che esistano.
(Federico Fellini)
Il mondo che viene rappresentato smette di essere caricaturale probabilmente nel momento in cui il dramma individuale di Cabiria si fa sempre più evidente. La nostra protagonista non si vergogna della sua vita da prostituta, è solo una piccolo-borghese che ambisce a uno status sociale più elevato e che sogna continuamente. Nel momento in cui sale in macchina con Alberto Lazzari, entra perfettamente nella finzione cinematografica, compare e scompare dallo schermo, presagio forse del suo destino.
Noi spettatori partecipiamo al dramma di Cabiria dall'inizio alla fine e non sappiamo quando si consumerà, fino a quando è lei a rivolgerci un rapido sguardo, una sorta di ammiccamento, un invito a lasciarsi andare alla bellezza della vita, nonostante tutto, nonostante la sua sconfitta e le speranze rese ormai vane. Dentro di sé, coltiva ancora la gioia di vivere che è resa esplicita dalla danza dei ragazzi che incontra sulla strada. Ma Cabiria, per essere felice, deve davvero trovare marito? Cosa cerca? La sua storia è senza conclusione.


domenica 28 maggio 2017

Gli eterni interrogativi / El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha



Gli eterni interrogativi

El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha


29 APR 2017 
di 
In tanti hanno cercato di classificare l'opera di Miguel de Cervantes in un genere narrativo. Se si pensa che nemmeno lo stesso autore è stato in grado di farlo, ci rendiamo conto della sua complessità intrinseca. Infatti è infinita è la letteratura a riguardo.
Alcuni lo collocano in una cosiddetta ''zona grigia''perché più che di romanzo vero e proprio è preferibile parlare di ''atteggiamento romanzesco''. Le domande dei cervantisti restano le stesse per molto tempo: se il romanzo nasce come parodia del genere cavalleresco allora cos'è? Una novella? Un historia? Un romanzo idealista pre-moderno o forse un romanzo moderno? Nulla di tutto ciò. Quando si parla del Don Chisciotte ci riferiamo a un romanzo che accoglie in sé i più diversi generi della letteratura, dal romanzo d'avventura a quello picaresco e moresco dei quali ne infrange chiaramente le regole.
A creare variatio all'interno del testo le famose novelle intercalate che seguono un percorso verticale a cui potremmo aggiungere, secondo Segre, discorsi a spirale che consistono nel passare da un punto di vista all'altro senza che siano mai delineate con precisione le idee di fondo dell'autore. Proprio per questo Cervantes utilizza l'escamotage dell'autore arabo (e per questo considerato un infedele) Cide Hamete Benengeli, al quale attribuisce spesso la responsabilità di alcune sue posizioni. Diviso in due parti, la prima parte del libro viene pubblicata nel 1605 mentre la seconda, pubblicata quasi di fretta nel 1615, è tutta dedicata alla feroce critica contro il presunto Avellaneda, uno sconosciuto autore responsabile dell'apocrifo uscito nel 1614. Ma chi è Don Chisciotte, il famoso hidalgo al quale si seccò il cervello a forza di leggere i più celebri romanzi della tradizione cavalleresca?
Alonso Quijano appartiene all'ultimo rango della cavalleria, classe ormai in crisi nella Spagna post-rinascimentale; il braccio armato del re ora fatica a guadagnarsi un proprio spazio nella società. Non avendo alcuna valvola di sfogo al di fuori della lettura, Alonso Quijano s'immedesima nei grandi cavalieri senza macchia e senza paura che avevano popolato i grandi romanzi del ciclo bretone e arturiano (pensiamo ad Amadigi del quale emula la pazzia nella Sierra Morena). Le avventure del nostro anti-eroe iniziano assieme al suo storico compagno Sancho Panza, così battezzato, fedele servitore del proprio signore al quale viene promessa un'isola. Durante il corso del loro assurdo viaggio (alla ricerca di cosa?) questi due personaggi che sfidano il mondo, così speculari tra loro e così distanti, finiranno per somigliarsi sempre di più e per sfatare continuamente teorie e luoghi comuni. Quaestiones finitae e infinitae (dalla letteratura alla questione delle armi) si alternano nella storia che procede in maniera parallela, soprattutto nella seconda parte. Qui Don Chisciotte sembra sempre meno pazzo mentre Sancho sempre più saggio.
Sancho come Don Chisciotte quindi? Difficile rispondere. Cervantes ci racconta i suoi compagni di viaggio come individui sempre in evoluzione, mai identici e mai scontati nelle scelte. Sarà per questo che, con le loro inimmaginabili imprese, hanno affascinato generazioni e generazioni di lettori? Probabilmente risiede anche in questo la grandezza del Don Chisciotte. Il lettore resta catturato da queste pagine sforzandosi di comprendere cosa sia realmente successo a quest'uomo che poi così pazzo non è.
Ancora oggi restano aperte tutte le domande. Ancora oggi il rinsavimento finale di Alonso stimola in noi una non facile riflessione su quel labile confine che mescola caoticamente finzione e realtà. La cosa certa è che nasce con il Don Chisciotte l'atteggiamento critico, tipico della modernità.

lunedì 9 maggio 2016

Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre / Gli amanti del Café de Flore


Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre

Simone De Beauvoir 

e Jean-Paul Sartre

Gli amanti del Café de Flore

29 APR 2016
di
ANNA VITIELLO

La sua morte ci separa. La mia morte non ci riunirà. È così; è già bello che le nostre vite abbiano potuto essere in sintonia così a lungo
Non sappiamo se possiamo definirla ''storia d'amore'' quella tra Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir, “gli amanti del Café de Flore'' ma certo è che i due erano legati visceralmente l'uno all'altro, in un sodalizio amoroso ma soprattutto intellettuale, culturale e politico. Un legame indissolubile tra due personalità a quei tempi carismatiche, rivoluzionarie e anticonformiste e che, tutt'oggi, fanno ancora discutere.
Ci troviamo in Francia, in un periodo davvero difficile del Novecento europeo, in un periodo in cui spesso accade che ci si schieri a fianco di un partito condividendo idee alle volte anche diverse, vuoi per convenienza, vuoi perché la confusione era talmente grande che portare avanti il proprio ideale era una sfida contro il tempo.
Simone De Beauvoir (Parigi, 9 gennaio 1908-Parigi, 14 aprile 1986), di buona famiglia, studia alla Sorbona, viene abilitata all'insegnamento di filosofia e verso la fine degli anni venti conosce Jean-Paul Sartre, al quale resta legata per tutto il resto della sua vita. Entrambi influenzati dalle stesse idee politiche, scrivono per la stessa rivista, Le Temps Modernes insieme ad altri intellettuali dell'epoca, sposando ogni causa con uguale fervore, e partecipano attivamente a ogni forma di rivolta che li vede coinvolti in prima linea (come nel caso del Maggio Francese, evento in cui marciano assieme ai manifestanti), come individui inseriti in quel preciso contesto che alcuni esistenzialisti vogliono chiamare ''umano''.
Due facce della stessa medaglia la De Beauvoir e Sartre, due intellettuali. Da una parte, una donna concreta che mira ad arrivare al lettore attraverso la sua opera. Dall'altra, un filosofo con la “f” maiuscola fermo e concentrato sulle sue idee, intransigente e, per certi versi, più astratto. Sesso, angoscia, felicità, libertà e una politica esemplare sono i temi affrontati e i punti cardine della loro riflessione. La letteratura d'impegno politico della Beauvoir se rischiava di sembrare non sempre di facile comprensione e fruibile da chiunque, era sostenuta dal suo agire quotidiano, in difesa delle donne e in quella che è definita una vera e propria lotta contro il maschilismo radicato, in difesa della libertà individuale che ogni donna deve prendere coscienza di avere.
Simone De Beauvoir tiene famosissimi discorsi e lezioni sulla condizione della donna, crede nel riscatto, nella trasformazione della società e nelle potenzialità che risiedono nell'essere umano, a prescindere dal sesso e dal corpo. La sua opera più famosa Il secondo sesso la consacra come madre assoluta del femminismo e, in questo, sempre sostenuta dall'unica persona in grado di completarla: Jean-Paul Sartre. In un rapporto di tacito accordo e consenso, i due sembrano invincibili e inseparabili, animati dallo stesso spirito di ribellione, certi della costanza dei loro sentimenti, uniti da un filo sottile che li svincolava anche da ogni responsabilità nei confronti dei vari amanti che minavano il loro saldo equilibrio. Una coppia a confronto, dunque, che probabilmente avrebbe meritato di più e che la Francia può difendere con orgoglio, ben oltre le feroci critiche.
E non è certo sulle differenze che possiamo cogliere l'immensità di questi due grandi intellettuali che, tenendosi per mano, si sono prodigati per ''preparare l'avvenire'', bensì su una sincronia perfetta tra due anime allineate.
Anna Vitiello
Ho cominciato a scrivere all'età di sei anni. Da quel momento in poi, non mi sono più fermata. Ho sempre ritenuto che la scrittura, oltre che una dote, sia uno strumento potentissimo e una grandissima opportunità di veicolare le idee. La mia esperienza sul web è iniziata nel lontano 2004. Ho collaborato, in questi anni, con diversi blog e testate online, occupandomi prevalentemente di cultura, eventi e letteratura e diventando, nel frattempo, membro di alcune associazioni culturali e club letterari.
Nel 2011, alcuni miei scritti sono stati selezionati e pubblicati nell'antologia "Di tanta rabbia"e, nel 2012, ho preso parte alla kermesse artistica “La metamorfosi di Calliope”, presso il Convitto Nazionale di Napoli. Inoltre, ho collaborato e collaboro con Domenico Ruggiero, fotografo e responsabile della DiVision Lab Fotografia, che ho affiancato per un lavoro realizzato con l'attrice Jun Ichikawa.
Laureata in Lettere presso l'Università Federico II di Napoli, ho studiato per un determinato periodo alla Sorbona e, attualmente, mi dedico a quella che resta la mia grande passione, scrivere. I miei pensieri e i miei scritti sono spesso contaminati e influenzati dalla cultura dell'Est Europa, luoghi e popoli che continuo a indagare e studiare per una naturale attrazione, senza dimenticare mai le mie radici e Napoli, la mia città.