giovedì 13 febbraio 2014

Ketty La Rocca / Il mio corpo dall'Io al Tu


Ketty La Rocca
You

Ketty La Rocca: il mio corpo dall'Io al Tu

Le parole della Poesia Visiva

13 FEBBRAIO 2014, 
Aprirsi al mondo. Scrutarlo. Mescolarsi ad esso e nel cuore di questa amalgama frugare avidamente parole. Parole immediate, parole comuni. Parole in connubio e parole in contrasto. Parole nuove. Parole vuote. Parole sbraitanti e fuori dal coro. In un silenzio visuo-spaziale, parole e immagini a fare un impasto. L’hanno chiamata “Poesia Visiva”: teste e texture. Una ricerca verbo-visuale che ha indagato la forma – come anche la sostanza –, del linguaggio usuale e delle immagini di massa, nutrendosi di un’estetica da rotocalco e pubblicità.
Nata nel clima eclettico e Neoavanguardista degli anni Sessanta, questa tendenza ha spinto la parola stessa a ridosso di ordinarie iconografie. Linguaggio verbale e linguaggio visivo si sono imbrattati l’uno dell’altro, in perfetta antitesi con le coeve ricerche linguistico-espressive. Si è trattato, dunque, di una sorta di sperimentazione Pop-testuale, ma dai prodromi ritracciabili nel Paroliberismo Marinettiano di matrice Futurista. Del resto, Tommaso Marinetti aveva dichiarato di aver generato le prime parolibere in seguito alla visione notturna di quel saettante susseguirsi di insegne luminose osservato dal finestrino della sua auto. Dunque è chiaro come una analoga fascinazione abbia agito su artisti e autori come Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti, Ugo Carrega, Adriano Spatola. Tra questi artisti, poi, vi era anche una donna. Ketty La Rocca.

Ketty La Rocca
You

Nata nel 1938 all’estremo levante ligure, nella città di La Spezia, Ketty mostrò subito una predilezione per le arti e per il verbo. A soli diciotto anni decise di trasferirsi a Firenze per studiare musica elettronica al Conservatorio Luigi Cherubini. Quello stesso Conservatorio situato all’angolo tra via Ricasoli e via degli Alfani che io stessa, negli anni Novanta, ho costeggiato innumerevoli volte per recarmi nelle aule dell’Accademia di Belle Arti. Proprio a Firenze Ketty si innamorò, si sposò e diede alla luce Michelangelo. La città che aveva cullato la rivoluzione Giottesca, il Primo Rinascimento, la Commedia di Dante e i versi di Sibilla Aleramo le permise inoltre di imbastire le sue prime parole. Ketty prese a scrivere. Dapprima furono poesie. Poi divennero Collages. E l’incontro con il Gruppo 70 , fondato da Miccini e Pignotti nel 1963, fu in tal senso determinante. Frequentando questa congrega costituita da pittori, poeti e musicisti affermanti l’interdisciplinarietà delle arti, Ketty scoprì infatti la possibilità di restituire al linguaggio comune una nuova densità e una nuova dignità.
Tra il 1964 e il 1965 realizzò collages di denuncia, contro la mercificazione dell’immagine femminile e la manipolazione maschilista delle coscienze operata dalla politica come anche dalla Chiesa Cattolica. Nacquero con questo intento opere come Top Secret ed Elettroaddomesticati. Erano gli anni della rivolta. Anni in cui a New York nascevano gruppi come il WAR (Women Artists in Revolution) e il Redstocking Artists e in cui ventidue coraggiose artiste aprirono una sorta di contenitore creativo per sole donne, la A.I.R. Gallery. In Italia, poi, Carla Lonzi firmò e pubblicò il Manifesto di Rivolta Femminile, con l’obiettivo di donare uno spazio comunicativo a legioni di donne che attendevano da tempo il diritto alla parola. Contestualizzata in tale clima, la ricerca di Ketty La Rocca si fa più leggibile ed esplicita. Nel 1966 iniziò a rappresentare le sue sperimentazioni linguistiche. Dal collage passò all’uso del proprio corpo. La sua prima performance, dal titolo Poesia e no, venne realizzata presso la Libreria Feltrinelli di Firenze. Nel 1968, invece, il Gruppo 70 si sciolse, ma lei perseverò nella sua ricerca, cibandosi degli scritti di Roland Barthes e Umberto Eco.

Ketty La Rocca
You

Allo sbocciare degli anni Settanta, poi, pervenne ad una sintesi linguistica capace di riassumere in un’unica lettera-oggetto, il senso ultimo del suo lavoro. Si trattò di veri e propri monogrammi in PVC: lettere singole fra cui ricorrevano la J che in francese sta per “Je” e la I, che in italiano sta per “Io”. Era qui che l’identità femminile gridava autoaffermazione. In questo periodo, Ketty La Rocca impegnò le proprie energie anche nella progettazione di una installazione mai realizzata, ma per la quale riempì pagine e pagine di studi e appunti: Il Punto di Vista. Aveva immaginato un ambiente scrutabile attraverso un foro praticato su un telo scuro. La scommessa era semantico-visiva: trasformare un luogo comune in una realtà visibile. L’Io, però, così solo e così isolato impazzisce. Per esistere ed insistere ha bisogno di un’alterità. Perché un punto di vista si affermi è necessario il versante opposto. È necessario l’incontro con l’altro.
Il percorso artistico e linguistico di Ketty si convertì quindi dall’Io al Tu. E si trattò di un Tu che fortifica l’esistenza dell’Io. Nel 1972 realizzò Appendice per una Supplica, uno dei primi video della storia dell’arte contemporanea. Sulla pellicola scorrevano mani. E sulla pelle nuda di queste mani la parola “you” si tatuava in mille sé. Coppie di mani afferravano un vuoto nero e desolante. E chiamavano – a pugni stretti e dita intrecciate – un Tu che pareva godere della sua stessa assenza. Per questo progetto performativo e video-fotografico, presentato poi alla XXXVI Biennale di Venezia insieme al suo libro d’artista Principio erat, Ketty La Rocca utilizzò le proprie mani. Mani chiare, dalle dita lunghe e affusolate, che sbocciavano da un fondale nero. Implorando l’altro. Come in un loop. Lo stesso “you” si riproporrà qualche anno dopo, per la precisione nel 1975, in Le mie parole. E tu? una performance realizzata prima presso la Galleria Nuovi Strumenti di Brescia e poi presso la Galleria Tartaruga di Roma.
Ketty descrisse la sua ultima azione comportamentale con queste parole: “In questa azione che chiamerei coniugazione io sono esempio a me stessa e agli altri di un totale asservimento al linguaggio (…) gli altri che partecipano all’azione coniugano sia un dramma reale che il mio dramma interiore (…) il linguaggio non determina libertà seppure illusorie, ma prolifica contagiosamente, crea vittime che coniugano la loro stessa condizione e la definiscono 'tu'”. Tu. Tu ancora. Tu che non dai requie e Tu che non da tregua. Tu. “Le mie parole. E tu?” fu l’ultima apparizione pubblica di Ketty prima che un tumore alla testa la uccidesse.
Morì di una morte ingiusta e precoce; una fine alla quale non volle rassegnarsi. Ed infatti fu a colpi d’arte che provò a sfidare il male che l’aveva colpita. Prese le radiografie del proprio cranio e le rielaborò, intervenendo su di esse con l’impressione fotografica della propria mano raccolta in un pugno. E ancora una volta - persino qui o soprattutto qui - ricamò l’immagine di “you” . Craniologie, questo fu il titolo della serie che la tenne impegnata a partire dal 1973. E mi tornano alla mente i versi di una poesia di Jacqueline Risset che si intitola Il toccare e dice:
“ma chi

potrebbe ora toccarmi

se non tu?” (Jacqueline Risset)

In quegli innumerevoli “you”, tuonava il fervore di una vita che ancora avrebbe voluto vivere. Quando Ketty morì io non ero ancora nata. Era il 7 febbraio 1976. Aveva solo 38 anni. Pressappoco la mia età di adesso. Si spense nella mia Firenze. Ed è probabilmente a causa di tutte queste comunanze – età, città, percorsi e concetti – che 



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mercoledì 5 febbraio 2014

50 anni di jazz / Nel cosmo immenso delle musiche possibili


50 anni di jazz

Nel cosmo immenso delle musiche possibili

5 FEBBRAIO 2014, 

1964, un anno, che assieme a tutto il decennio, fu fondamentale nella storia degli Stati Uniti, con riverberi che illuminarono anche la vecchia Europa.
Nel 1964 vennero approvati il Civil Rights Act e il Voting Rights Act, frutto di una profonda ondata di movimenti politici e di manifestazioni di piazza che avevano alle spalle la presa di coscienza della contestazione studentesca, della protesta nera e della rivoluzione femminile e femminista. Se a questi sconvolgimenti sociali sommiamo il trauma degli assassinii di Kennedy, di Malcom X e di Martin Luther King, si può immaginare quale miscela esplosiva avesse investito la società in quegli anni. Inevitabile, quindi, che anche il mondo della cultura e dell’arte ne fosse influenzato e, in particolare il jazz, che da sempre è stato l’espressione dei fermenti sotterranei, delle pulsioni sociali e individuali di una società in trasformazione.


Scorrere e analizzare la lista degli LP usciti in questo fatidico 1964 risulta una vera, emozionante scoperta della ricchezza di una musica che stava toccando la sua fase più creativa e che più di ogni altra forma d’arte esprimeva quello che stava succedendo intorno. Se nei movimenti sociali c’era una componente “moderata” e una “rivoluzionaria”, la stessa cosa la possiamo notare nei musicisti e nei complessi jazzistici. Ad esempio, la gloriosa casa discografica Blue Note raccoglieva una ricca e qualificata schiera di “riformisti”, che sapevano coniugare il “bop” degli anni cinquanta, con le innovazioni del nascente “free”: basti citare quel magnifico pianista, dall’inconfondibile stile poliritmico che fu Andrew Hill (fra l’altro uno dei pochi ad essere capace di rinnovarsi creativamente anche oltre il 2000), che sfornò tre bellissimi album: Andrew!!!Judgement e Point of Departure. Più tradizionale, ma sempre sanguigno e trascinante un altro pianista col suo classico quintetto, Horace Silver, di cui uscì Song for my father e poi tutta la schiera dei comprimari di Miles Davis, da Herbie Hancock con Empyrean Isles, a Wayne Shorter con JujuNight Dreamer e Speak No Evil, a Tony Williams con Life time.


E a proposito del “divino” Miles, bisogna sottolineare che in quell’anno uscirono ben tre LP, che indicavano il travaglio del trombettista, che, sistemata la raffinatissima sezione ritmica con Hancock al piano, Ron Carter al basso e Tony Williams alla batteria, doveva ancora scegliere il proprio partner al sax tenore. In Four and more troviamo Georg Coleman, troppo tradizionalista (era stato prima partner di un fine trombettista “cool” come Chet Baker), in Miles in Tokyo c’è Sam Rivers, troppo audace e che diventerà una colonna del “free”, infine, in Miles in Berlin ecco il musicista ideale, Wayne Shorter, sassofonista, compositore, arrangiatore, che per cinque anni sarà punta insostituibile del più intelligente e calibrato quintetto di jazz moderno.


In quel prolifico anno la discografia più radicale, che potremmo apparentare all’ideologia e alla prassi di Malcom X, fu rappresentata da un iconoclasta come Albert Ayler, che uscì con Spiritual Unity e Eric Dolphy con Out to lunch!. Quel Dolphy che negli anni precedenti era stato membro del combo di John Coltrane, che, a sua volta, nel '64, pubblicò per la Impulse il suo capolavoro, A Love Supreme (che merita un discorso a parte) e Crescent. Sempre nel '64, Coltrane, in un'intervista a Melody Maker, parlava del suo sempre più pressante interesse per la musica etnica mondiale e, infatti, la sua tavolozza espressiva diventava sempre più capace di coniugare oriente e occidente, la dodecafonia con la tradizione indiana e con i ritmi africani, perché per lui il desiderio principale di un musicista doveva essere quello di “dare un'immagine delle molte e meravigliose cose che sa e che percepisce dell'universo”. Una musica che si poteva accomunare, dunque, a una religiosità cosmica, in cui non dovevano esistere barriere storiche e geografiche, perché, per Coltrane, la musica era un modo per ringraziare il Dio. Così il cerchio si chiudeva e l'universalità del jazz coltraniano diventava l'espressione dell'universalità del senso del sacro che la musica doveva farci percepire. Dopo cinquant'anni cos'è rimasto di questo stupendo fiorire di personaggi, di complessi e di stili?



Se lo chiedono molti critici e studiosi di jazz: per Marcello Piras, storico e ricercatore: “La fase creativa del jazz, quella che guardava al futuro, si è fermata al 1979. L'ultima generazione di creativi è quella nata negli anni '50 … in Italia il linguaggio non si è evoluto e si assiste troppo frequentemente a modelli scolastici. E questo riguarda anche le superstar”. Filippo Bianchi, per anni direttore della decana della riviste italiane dedicate alla musica afroamericana, Musica Jazz, denuncia che il proliferare di “neo” o “post” stili jazzistici sembra indicare una musica sosia del suo passato: “La coazione a ripetere, alla lunga, diventa una patologia. La riluttanza ad assumere nuovi modelli estetici, alla lunga, esaurisce le fonti del racconto”.
Certo, come abbiamo visto, ogni arte, e così la musica, è anche la traccia estetica ed emotiva di quello che bolle nella società e il jazz, di quei mitici anni sessanta aveva colto tutte le speranze, le insoddisfazioni, le pulsioni di un mondo in vertiginoso cambiamento. E quello che stiamo vivendo che tempo è? “Parrebbe un tempo – riflette ancora Bianchi – in cui i progetti collettivi si dissolvono, svaniscono, il patrimonio diventa più ingombrante. E a esso ci si rivolge, più che a disegnare un domani dai contorni incerti”.


Allora, solo il genio può essere capace di “uccidere” il padre pericolosamente rassicurante della tradizione, perché sa che potrà rappresentare un mondo nuovo, dove rischiare, senza temere di lasciarsi trascinare da tutto quello che c'è intorno, senza punti fermi, senza salvagente. E questo è stato Miles Davis, l'“uomo nero”: “Il jazz lo uccise proprio lui, sciogliendone i contenuti nel cosmo immenso delle musiche possibili, delle musiche del futuro, dove vivranno di nuovo in altre forme, in una musica che combina e sintetizza tanti elementi diversi, come quella che Davis ha suonato e sognato per tutta la vita, come il jazz, appunto.”
Bibliografia:

Filippo Bianchi, Il secolo del jazz, Imola, Bacchilega, 2008

Richard Cook, Blue Note Records, Roma, Minimum fax, 2011
Chris DeVito, Coltrane secondo Coltrane, EDT/Siena Jazz, Siena, 2010


Giovanni Zaccherini
Laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano, ha insegnato materie letterarie, storia, filosofia e storia dell’arte negli istituti superiori. Ha collaborato e collabora con il Comune e il Circolo Filologico milanesi alla selezione e divulgazione di autori e testi inediti e all'organizzazione di eventi culturali.
Giornalista pubblicista, “Premio Guidarello per il giornalismo d'autore” 2010 per la sezione cultura, ha pubblicato e pubblica sulle terze pagine dei quotidiani “Avvenire”, “il Corriere di Romagna”, “il Resto del Carlino”, “La Voce di Romagna”, “Prealpina”, “Varese News” e sui periodici “la Ludla”, “la Piê”, “Libro Aperto”, “Stanza Letteraria” con rubriche di critica d'arte, musica, storia e letteratura. Ha compilato le voci “Dialetto”, “Folclore” e “Proverbi” per l'enciclopedia “Sguardi sulla Romagna” e ha collaborato all’ “Antologia della letteratura romagnola” di prossima uscita.
Ma, al di là di questi sintetici dati, nella mia vita e nella mia professione c’è soprattutto il desiderio di vivere con gli altri quella cultura che ci rende più “umani” e vicini in una comune condivisione. Ricordo le mie prime esperienze, come animatore del Comune di Milano, quando mi aggiravo nelle nebbie delle periferie per ricercare, raccogliere e insegnare a leggere e scrivere agli ultimi analfabeti che venivano dal sud. Poi, gli anni di insegnamento nei licei della Milano “bene”, anzi della Milano “da bere” … situazioni ed ambienti diversissimi, che mi hanno messo in grado di saper apprezzare e godere di culture e persone tanto lontane.
Per questo, anche nella mia attività giornalistica ho sempre rifuggito dallo specialismo e mi è piaciuto scrivere, mettendomi in sintonia con generi e periodi diversi: dall’ultima edizione di “Kind of blue” di Miles Davis, ai concerti grossi di Corelli, ai cori delle mondine. Oppure, cambiando campo, dalle eroine di Crepax, ai tesori della grafica rinascimentale, all’architettura liberty. Ecco, lo scrivere è come un dono, il dono di un piacere condivisibile e condiviso, un essere per sé e per gli altri.