1964, un anno, che assieme a tutto il decennio, fu fondamentale nella storia degli Stati Uniti, con riverberi che illuminarono anche la vecchia Europa.
Nel 1964 vennero approvati il Civil Rights Act e il Voting Rights Act, frutto di una profonda ondata di movimenti politici e di manifestazioni di piazza che avevano alle spalle la presa di coscienza della contestazione studentesca, della protesta nera e della rivoluzione femminile e femminista. Se a questi sconvolgimenti sociali sommiamo il trauma degli assassinii di Kennedy, di Malcom X e di Martin Luther King, si può immaginare quale miscela esplosiva avesse investito la società in quegli anni. Inevitabile, quindi, che anche il mondo della cultura e dell’arte ne fosse influenzato e, in particolare il jazz, che da sempre è stato l’espressione dei fermenti sotterranei, delle pulsioni sociali e individuali di una società in trasformazione.
Scorrere e analizzare la lista degli LP usciti in questo fatidico 1964 risulta una vera, emozionante scoperta della ricchezza di una musica che stava toccando la sua fase più creativa e che più di ogni altra forma d’arte esprimeva quello che stava succedendo intorno. Se nei movimenti sociali c’era una componente “moderata” e una “rivoluzionaria”, la stessa cosa la possiamo notare nei musicisti e nei complessi jazzistici. Ad esempio, la gloriosa casa discografica Blue Note raccoglieva una ricca e qualificata schiera di “riformisti”, che sapevano coniugare il “bop” degli anni cinquanta, con le innovazioni del nascente “free”: basti citare quel magnifico pianista, dall’inconfondibile stile poliritmico che fu Andrew Hill (fra l’altro uno dei pochi ad essere capace di rinnovarsi creativamente anche oltre il 2000), che sfornò tre bellissimi album: Andrew!!!, Judgement e Point of Departure. Più tradizionale, ma sempre sanguigno e trascinante un altro pianista col suo classico quintetto, Horace Silver, di cui uscì Song for my father e poi tutta la schiera dei comprimari di Miles Davis, da Herbie Hancock con Empyrean Isles, a Wayne Shorter con Juju, Night Dreamer e Speak No Evil, a Tony Williams con Life time.
E a proposito del “divino” Miles, bisogna sottolineare che in quell’anno uscirono ben tre LP, che indicavano il travaglio del trombettista, che, sistemata la raffinatissima sezione ritmica con Hancock al piano, Ron Carter al basso e Tony Williams alla batteria, doveva ancora scegliere il proprio partner al sax tenore. In Four and more troviamo Georg Coleman, troppo tradizionalista (era stato prima partner di un fine trombettista “cool” come Chet Baker), in Miles in Tokyo c’è Sam Rivers, troppo audace e che diventerà una colonna del “free”, infine, in Miles in Berlin ecco il musicista ideale, Wayne Shorter, sassofonista, compositore, arrangiatore, che per cinque anni sarà punta insostituibile del più intelligente e calibrato quintetto di jazz moderno.
In quel prolifico anno la discografia più radicale, che potremmo apparentare all’ideologia e alla prassi di Malcom X, fu rappresentata da un iconoclasta come Albert Ayler, che uscì con Spiritual Unity e Eric Dolphy con Out to lunch!. Quel Dolphy che negli anni precedenti era stato membro del combo di John Coltrane, che, a sua volta, nel '64, pubblicò per la Impulse il suo capolavoro, A Love Supreme (che merita un discorso a parte) e Crescent. Sempre nel '64, Coltrane, in un'intervista a Melody Maker, parlava del suo sempre più pressante interesse per la musica etnica mondiale e, infatti, la sua tavolozza espressiva diventava sempre più capace di coniugare oriente e occidente, la dodecafonia con la tradizione indiana e con i ritmi africani, perché per lui il desiderio principale di un musicista doveva essere quello di “dare un'immagine delle molte e meravigliose cose che sa e che percepisce dell'universo”. Una musica che si poteva accomunare, dunque, a una religiosità cosmica, in cui non dovevano esistere barriere storiche e geografiche, perché, per Coltrane, la musica era un modo per ringraziare il Dio. Così il cerchio si chiudeva e l'universalità del jazz coltraniano diventava l'espressione dell'universalità del senso del sacro che la musica doveva farci percepire. Dopo cinquant'anni cos'è rimasto di questo stupendo fiorire di personaggi, di complessi e di stili?
Se lo chiedono molti critici e studiosi di jazz: per Marcello Piras, storico e ricercatore: “La fase creativa del jazz, quella che guardava al futuro, si è fermata al 1979. L'ultima generazione di creativi è quella nata negli anni '50 … in Italia il linguaggio non si è evoluto e si assiste troppo frequentemente a modelli scolastici. E questo riguarda anche le superstar”. Filippo Bianchi, per anni direttore della decana della riviste italiane dedicate alla musica afroamericana, Musica Jazz, denuncia che il proliferare di “neo” o “post” stili jazzistici sembra indicare una musica sosia del suo passato: “La coazione a ripetere, alla lunga, diventa una patologia. La riluttanza ad assumere nuovi modelli estetici, alla lunga, esaurisce le fonti del racconto”.
Certo, come abbiamo visto, ogni arte, e così la musica, è anche la traccia estetica ed emotiva di quello che bolle nella società e il jazz, di quei mitici anni sessanta aveva colto tutte le speranze, le insoddisfazioni, le pulsioni di un mondo in vertiginoso cambiamento. E quello che stiamo vivendo che tempo è? “Parrebbe un tempo – riflette ancora Bianchi – in cui i progetti collettivi si dissolvono, svaniscono, il patrimonio diventa più ingombrante. E a esso ci si rivolge, più che a disegnare un domani dai contorni incerti”.
Allora, solo il genio può essere capace di “uccidere” il padre pericolosamente rassicurante della tradizione, perché sa che potrà rappresentare un mondo nuovo, dove rischiare, senza temere di lasciarsi trascinare da tutto quello che c'è intorno, senza punti fermi, senza salvagente. E questo è stato Miles Davis, l'“uomo nero”: “Il jazz lo uccise proprio lui, sciogliendone i contenuti nel cosmo immenso delle musiche possibili, delle musiche del futuro, dove vivranno di nuovo in altre forme, in una musica che combina e sintetizza tanti elementi diversi, come quella che Davis ha suonato e sognato per tutta la vita, come il jazz, appunto.”
Bibliografia:
Filippo Bianchi, Il secolo del jazz, Imola, Bacchilega, 2008
Richard Cook, Blue Note Records, Roma, Minimum fax, 2011
Chris DeVito, Coltrane secondo Coltrane, EDT/Siena Jazz, Siena, 2010
Giovanni Zaccherini
Laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano, ha insegnato materie letterarie, storia, filosofia e storia dell’arte negli istituti superiori. Ha collaborato e collabora con il Comune e il Circolo Filologico milanesi alla selezione e divulgazione di autori e testi inediti e all'organizzazione di eventi culturali.
Giornalista pubblicista, “Premio Guidarello per il giornalismo d'autore” 2010 per la sezione cultura, ha pubblicato e pubblica sulle terze pagine dei quotidiani “Avvenire”, “il Corriere di Romagna”, “il Resto del Carlino”, “La Voce di Romagna”, “Prealpina”, “Varese News” e sui periodici “la Ludla”, “la Piê”, “Libro Aperto”, “Stanza Letteraria” con rubriche di critica d'arte, musica, storia e letteratura. Ha compilato le voci “Dialetto”, “Folclore” e “Proverbi” per l'enciclopedia “Sguardi sulla Romagna” e ha collaborato all’ “Antologia della letteratura romagnola” di prossima uscita.
Ma, al di là di questi sintetici dati, nella mia vita e nella mia professione c’è soprattutto il desiderio di vivere con gli altri quella cultura che ci rende più “umani” e vicini in una comune condivisione. Ricordo le mie prime esperienze, come animatore del Comune di Milano, quando mi aggiravo nelle nebbie delle periferie per ricercare, raccogliere e insegnare a leggere e scrivere agli ultimi analfabeti che venivano dal sud. Poi, gli anni di insegnamento nei licei della Milano “bene”, anzi della Milano “da bere” … situazioni ed ambienti diversissimi, che mi hanno messo in grado di saper apprezzare e godere di culture e persone tanto lontane.
Per questo, anche nella mia attività giornalistica ho sempre rifuggito dallo specialismo e mi è piaciuto scrivere, mettendomi in sintonia con generi e periodi diversi: dall’ultima edizione di “Kind of blue” di Miles Davis, ai concerti grossi di Corelli, ai cori delle mondine. Oppure, cambiando campo, dalle eroine di Crepax, ai tesori della grafica rinascimentale, all’architettura liberty. Ecco, lo scrivere è come un dono, il dono di un piacere condivisibile e condiviso, un essere per sé e per gli altri.
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