Visualizzazione post con etichetta Oliver Sacks. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Oliver Sacks. Mostra tutti i post

mercoledì 28 giugno 2023

Il mondo della traduzione raccontato da Isabella Blum

 




Oliver Sacks
di T.A.

Il mondo della traduzione raccontato da Isabella Blum

Un’intervista alla traduttrice italiana di alcune opere di Oliver Sacks e di altri autori.

A cura di Silvia Barsotti

Aprile 25, 2023

Silvia Barsotti – Per prima cosa vorrei chiederle in quale modo ha deciso di avvicinarsi al mondo della traduzione, so che è un ambito molto sottovalutato, al quale non viene data l’importanza che a parer mio gli spetterebbe. Proprio per questo sono curiosa di cosa la abbia spinta ad entrare a farne parte, se è stata consigliata o indotta da qualcuno o se l’ha fatto di sua spontanea volontà.

Isabella Blum – Domanda interessante, entriamo subito nel vivo. In che misura l’immagine di una professione, il suo «prestigio» percepito, attira le persone, le spinge ad avventurarcisi? Dalla mia attuale prospettiva, a posteriori, quell’immagine non dovrebbe contare affatto. A spingerti a imboccare una strada dovrebbe essere quanto quella strada effettivamente ti attrae, quanto ti interessa. Ti piace fare X? E allora fallo. Provaci. E comunque, se io avessi effettuato la mia scelta affidandomi anche a una valutazione del «prestigio», non avrei avuto alcuna esitazione. In casa, da bambina, ho sempre sentito parlare di traduzione come di un’attività di alto profilo, importante, interessante. C’era una carissima amica di mio padre e mia madre che era un’importante traduttrice di romanzi. Quindi sono cresciuta vedendo lei, il suo mondo, il suo lavoro – e di conseguenza il tradurre libri in generale – come un’attività bella, importante, attraente. La consapevolezza che invece, in alcuni ambiti, la percezione del tradurre fosse diversa, diciamo più problematica, l’ho avuta dopo, quando avevo già cominciato a lavorare. Dall’interno, e non dall’esterno.

Resta da dire come sono entrata in quel mondo. All’università io ho studiato biologia, mi stavo preparando per una carriera da ricercatrice. La mia idea sarebbe stata, all’epoca, di restare a lavorare all’università, ma era un momento in cui gli spiragli per i giovani in ambito accademico erano veramente prossimi a zero. E siccome io avevo bisogno di lavorare, feci domanda per essere assunta in una casa farmaceutica. Mi fissarono un colloquio, andò bene e mi presero a lavorare con loro: non nel settore ricerca, però, bensì in quello della produzione dei testi scientifici relativi ai prodotti dell’azienda. In pratica, mi occupavo per otto ore al giorno di traduzioni e scrittura (sono stati anni in cui ho imparato moltissimo, sia sul piano scientifico, sia su quello della comunicazione e della scrittura/traduzione). E così sono entrata in quel mondo: il mondo di una traduzione scientifica molto tecnica. Poi da lì mi sono spostata verso il campo editoriale, e verso tipologie di testi ugualmente densi, ugualmente ricchi di scienza, ma di tutt’altra natura – la saggistica scientifica.  Ed è stato un gran bel colpo di fulmine.

Silvia Barsotti – Un traduttore ha la stessa importanza dell’autore nella scrittura di un libro, in particolare, dovuta alla grande responsabilità che gli viene affidata. Deve essere molto complicato rispettare, traducendo da altre lingue, la volontà dei primi autori, riportando con parole diverse, ciò che essi hanno voluto dire ai propri lettori, un lavoro di “archeologia” come lo ha detto lei in una delle sue conferenze. Le volevo chiedere perciò se sente il peso di questa responsabilità, se le è mai capitato di essere criticata per aver tradotto qualcosa in modo sbagliato, non rispettando ciò che era scritto nel testo originale, e inoltre in quale modo stabilisce se inserire una parola o un’espressione anziché un’altra.

Isabella Blum – Il traduttore affianca l’autore, con un ruolo ben preciso e con vincoli che ne delimitano il campo di intervento. Di fatto, il traduttore consente la diffusione del libro in un paese di lingua diversa da quella in cui è stato scritto: dà voce al testo in una lingua altra, realizzando un’importante operazione di mediazione tra autore, testo e pubblico – e nel farlo deve rispettare quei vincoli, il che spesso si rivela un’impresa poco meno che funambolica. Un autore americano arriva al pubblico italiano grazie al lavoro del traduttore, attraverso le sue parole – come non sentire questa responsabilità? Non bisogna lasciarsene schiacciare, ma ovviamente la si avverte. Ed è giusto che sia così. Sulla questione degli errori: è capitato che qualche lettore mi abbia chiesto di motivare passaggi che non lo convincevano, cosa che puntualmente ho fatto spiegando i ragionamenti che stavano alla base di certe scelte. Di errori mi è capitato alcune volte di trovarne io stessa, sul libro ormai stampato, e in quel caso ho avvertito l’editore affinché correggesse nelle edizioni successive. In quarant’anni di attività, o poco meno, ne avrò commessi moltissimi senza che siano stati rilevati o che io me ne sia accorta. In genere, chi non ha familiarità con il lavoro editoriale e vede il libro solo come l’oggetto finito che si acquista in libreria, tende a considerarlo come una sorta di metafora della perfezione (parli come un libro stampato): eppure un libro è un’opera umana – è impossibile pensare che non contenga errori. Io ne trovo anche nei testi originali su cui lavoro, ma questo non sminuisce la considerazione che ho del loro autore. Sarebbe ingenuo pensare che chiunque possa scrivere trecento o quattrocento pagine senza commettere errori, senza una svista. Fortunatamente, gran parte di questi problemi viene risolta nel corso della lavorazione – dai revisori, dai redattori, dai correttori; perché questo è un altro mito da sfatare – il libro non è opera di un autore solitario (al massimo coadiuvato, in altri paesi, dai suoi traduttori): un libro è un’opera collettiva, a cui partecipano diverse figure professionali, molto spesso non percepite dal pubblico – ma estremamente incisive. Gli errori si cerca di evitarli, di ridurli al minimo, di eliminare quelli macroscopici… ma la perfezione resta una chimera.

Silvia Barsotti – Dalla stessa conferenza, che ho citato prima, ho appreso il fatto che lei è il frutto del connubio tra ambito scientifico e letterale, i suoi genitori infatti, appartenenti a mondi opposti, le hanno dato la possibilità di interessarsi a qualcosa che li unisse, come per l’appunto la traduzione, apparentemente un lavoro di ambito letterario, ma che come ha detto lei, presenta un appurato lavoro da scienziati: una prima lettura del testo, una seconda, la formulazione di ipotesi e la raccolta di dati e informazioni. Vedendo la lista dei libri da lei tradotti, non ho potuto non notare la grande passione verso l’ambito scientifico anche nel loro genere. Tutti questi libri parlano di argomenti complessi, perciò mi sorge spontanea una domanda: prima di tradurli ha dovuto intraprendere un percorso di formazione scientifica che l’ha portata a conoscere bene l’ambito?

Isabella Blum – Sul fatto che ambito scientifico e letterario siano mondi opposti, si potrebbe discutere a lungo. Spesso sono presentati così, ma in realtà il confine che li separa è molto meno netto di quanto spesso si dà ad intendere. Per rispondere alla domanda: io ho una laurea e un perfezionamento in Scienze biologiche; ho inoltre lavorato, come dicevo prima, per una casa farmaceutica. Quindi ho una formazione scientifica nel campo delle scienze biomediche che ovviamente mi risulta molto utile. Occorre però precisare due cose: in primo luogo, quello che è più importante a mio avviso non è tanto la vastità delle conoscenze in un campo specifico, quanto la forma mentis – in questo caso, una forma mentis scientifica. Se si ha un’impostazione di quel tipo, poi si riesce ad applicare quell’approccio anche a campi diversi. Del resto, e questo è il secondo punto, oggi non è pensabile essere pronti e competenti su tutti i temi della scienza. Perfino nel mio campo, quello della biologia, ci sono moltissime aree che mi sono meno note, e altre con le quali ho invece maggiore dimestichezza. L’importante in effetti è sapere dove e come muoversi per ottenere le informazioni che mancano. E poi un’altra cosa. Saper anche valutare quando occorre consultare qualcuno che sia più competente di noi in un certo ambito. Alcune informazioni relativamente generiche si possono reperire in autonomia, ma certi discorsi molto complessi vanno affrontati con l’aiuto di qualcuno che non li senta troppo alieni, toppo distanti da sé. Perciò: approccio scientifico, capacità di reperire informazioni valide e attendibili, capacità di individuare passaggi problematici che richiedono consulenze.

Silvia Barsotti – Ha avuto la possibilità di tradurre libri di importanti scrittori, partendo da Oliver Sacks, per poi passare a S.J. Gould e Antonio Damasio. Nel corso della sua carriera ha avuto la possibilità di entrare in stretto contatto con loro? Qual è il rapporto solitamente che si instaura tra autore e traduttore? É previsto uno scambio di opinioni tra i due?

Isabella Blum – Ho intrattenuto un colloquio esclusivo con loro «dialogando» sulle loro pagine per moltissime ore, specialmente con Sacks. Con nessuno ho avuto un rapporto al di fuori di questo (salvo un caso molto circoscritto, ultimamente: ho chiesto al mio autore un’informazione che mi era necessaria, e mi è stata data con infinita cortesia). So però di colleghi che invece intrattengono o hanno intrattenuto scambi molto intensi con i loro autori. Credo dipenda dalle circostanze, dal metodo di lavoro, anche dai problemi oggettivi che si incontrano durante la traduzione. In ogni caso, l’interpretazione di un testo deve poter essere affrontata anche a prescindere dallo scambio con l’autore – altrimenti ci precluderemmo la possibilità di tradurre le voci del passato.

Silvia Barsotti – Di recente, grazie anche ad un mio professore, ho potuto interessarmi ad uno degli autori di libri da lei tradotti, cioè Oliver Sacks. Ho adorato il modo di scrivere dei casi dei suoi pazienti, la sua grande empatia nei loro confronti e la sua voglia di parlare al mondo raccontando storie, che alle volte sembrano quasi provenire da un film, ma che al contrario sono reali, di cui lui è stato partecipe e nelle quali si è trovato di fronte a chi le ha vissute veramente. Vorrei sapere se le è piaciuto tradurre i suoi libri e quale in particolare, se anche lei è rimasta toccata dai suoi racconti e cosa ha provato nel doverli raccontare a sua volta.

Isabella Blum – Uno degli aspetti più belli della scrittura di Sacks, per me, è che – pur trattando di casi che ci appaiono davvero molto singolari, pur descrivendo situazioni che molti di noi non hanno mai incontrato né mai incontreranno nella propria vita, forse neanche per sentito dire – non scade mai nel sensazionalismo. Narra il vero, in tutta la sua incredibilità, sempre con un’ammirevole pacatezza, con rispetto della diversità. È una grande lezione, la sua – in un momento in cui molti pseudo-divulgatori si sentono in dovere di esasperare il dato scientifico, di fare della diversità un fenomeno da circo, di esaltarla presentandola come estrema, se non addirittura mostruosa – ecco: con la sua scrittura, Sacks ci dice che non occorre alcuna enfasi, nessuna spettacolarizzazione. La meraviglia della natura è nel suo essere sempre diversa, la meraviglia della scienza nel suo avere sempre una scheggia di ignoto da trascinare fuori dall’ombra. È tutto già talmente bello, che a noi basta descriverlo così com’è. Semplicemente. Il che non significa con freddezza, con distacco – anzi. In Sacks c’è sempre una straordinaria partecipazione umana, una grande empatia nei confronti dei suoi casi. Ma quest’empatia nulla sottrae al suo approccio essenziale, scientifico. Tutto questo è molto bello: è una grande lezione davvero. Da traduttrice, ovviamente, devo cercare di trasmettere la meraviglia, l’incanto, senza scadere nel sensazionalistico. Questo comporta, per esempio, una scelta molto attenta delle parole, la cui intensità deve essere calibrata con attenzione.

Silvia Barsotti – Come ultima cosa le vorrei chiedere di spiegare cosa ha significato per lei l’arte della traduzione negli anni e di fare un invito a tutti coloro che vorrebbero avviare un percorso in questo ambito.

Isabella Blum – La traduzione mi ha consentito di rimanere nel campo della scienza – non dalla parte di chi la fa, ma da quella di chi la racconta. Così facendo ho potuto assecondare non solo la mia passione scientifica, ma anche quella per la lettura, per la scrittura, in generale per la letteratura. E questo ha avuto un valore inestimabile per me. Soprattutto, mi gratifica il quotidiano esercizio della scrittura. Il che mi porta alla seconda parte della sua domanda. Il tema della scrittura in lingua madre è molto importante per chi desidera accostarsi alla traduzione.  Chi vuole tradurre deve pensare non soltanto ad affinare la conoscenza della lingua straniera da cui tradurrà. Né è sufficiente costruirsi una buona base in qualche settore specifico (arte, storia, filosofia, scienza). Occorre tenere sempre presente che il prodotto del nostro lavoro sarà in lingua italiana. La padronanza della scrittura non deve essere data per scontata. È qualcosa che va coltivato giorno per giorno, con grande cura. Chi vuole tradurre, chi vuole accostarsi alla traduzione, deve scrivere, quotidianamente, magari solo poche righe, ma con scrupolosa attenzione. Lo ripeto: la padronanza della scrittura in lingua madre non può e non deve essere data per scontata.

A chi vuole accostarsi a questo mondo, direi poi anche questo. In primo luogo, pensateci bene, e fatevi avanti solo se siete convinti, se siete davvero attratti. Non sempre traduciamo autori che amiamo. Non sempre traduciamo libri che – da semplici lettori – acquisteremmo in libreria. Allora l’amore per la traduzione non va confuso con l’amore per la lettura, per un dato argomento, o per un dato autore. Deve essere amore per il tradurre. Il piacere che traggo dalla mia attività, viene proprio dal tradurre – deve piacermi tradurre (a prescindere dal materiale che sto traducendo). Poi, ovviamente, quando capita di lavorare su autori con i quali ci sentiamo in sintonia, be’… quelli sono momenti enormemente gratificanti. Ma ad attrarre verso questa attività deve essere proprio l’operazione del tradurre, anche se il materiale su cui si lavora non è il massimo che ci si potrebbe augurare. Se facendo un’analisi di se stessi si scopre quel genere di passione, allora credo che si possa tentare l’impresa con buone probabilità di resistere alle difficoltà che immancabilmente ci si pareranno davanti.

LEVIAGRAVIA



giovedì 3 settembre 2015

Oliver Sacks / «Lasciai i ragazzi del mio reparto bruciando i manoscritti come Swift»


Oliver Sacks

«Lasciai i ragazzi del mio reparto bruciando i manoscritti come Swift»

(Traduzione di Isabella C. Blum 

Pubblichiamo un estratto dal libro di Oliver Sacks «In movimento», pubblicato in aprile nella versione originale inglese, che esce in Italia il 15 ottobre per Adelphi.

di Oliver Sacks
31 agosto 2015


I membri del personale sanitario, che si erano unanimemente opposti alla nostra escursione prevedendo che si sarebbe conclusa in un disastro, sembrarono infuriarsi quando ci ascoltarono descrivere il buon comportamento di Steve, la sua evidente felicità all'orto botanico, e la sua prima parola. Fummo accolti da facce scure. Avevo sempre cercato di evitare le grandi riunioni dello staff che si tenevano il mercoledì, ma il giorno dopo la nostra uscita con Steve il dottor Taketomo insistette perché ci andassi. Ero in apprensione per quello che avrei potuto sentire, e ancora di più per quello che avrei potuto dire. Apprensione pienamente giustificata.

Lo psicologo responsabile del reparto affermò che era stato istituito un programma di modificazione comportamentale, che il programma era bene organizzato e dava buoni risultati, e che io lo stavo mettendo a rischio con le mie idee di «gioco» svincolato da gratificazioni o punizioni esterne. Risposi difendendo l’importanza del gioco e criticando il modello gratificazione-punizione. Dissi che secondo me costituiva un mostruoso abuso a danno dei pazienti, perpetrato in nome della scienza, a volte in odore di sadismo. La mia replica non fu accolta troppo gentilmente, e la riunione si concluse in un silenzio carico di risentimento.

Due giorni dopo Taketomo salì da me e disse: «Gira voce che lei stia abusando sessualmente dei suoi giovani pazienti». Ero scioccato, e risposi che una cosa del genere non mi sarebbe mai passata per la mente. Io consideravo i pazienti come persone affidate a me, sotto la mia responsabilità, e non avrei mai usato il mio potere di figura terapeutica per approfittare di loro.

Mentre la rabbia mi montava dentro, aggiunsi: « Forse saprà che, quando era un giovane neurologo, Ernest Jones - collega e biografo di Freud - lavorò a Londra con bambini ritardati e disturbati finché non cominciarono a circolare voci che stesse abusando di loro. Quelle voci lo indussero ad abbandonare l’Inghilterra e ad andarsene in Canada».

Taketomo disse: «Sì, lo so. Ho scritto una biografia di Ernest Jones». Volevo rivoltarmi e dirgli: «Brutto pezzo di idiota, perché mi hai messo in questa situazione?», ma non lo feci; probabilmente pensava di non essere altro che il mediatore di una discussione civile.

Andai da Leon Salzman e gli raccontai la situazione; lui fu comprensivo e si irritò molto, prendendo le mie parti, ma pensava che - nel mio interesse - lasciare il Reparto 23 fosse la cosa migliore da fare. Nell’abbandonare i miei giovani pazienti provai un senso di colpa schiacciante, benché irrazionale, e la sera della partenza gettai nel camino i ventiquattro pezzi che avevo scritto su di loro. Avevo letto che Jonathan Swift, in un momento di disperazione, aveva gettato nel fuoco il manoscritto dei Viaggi di Gulliver , e che il suo amico Alexander Pope l’aveva recuperato. Ma io ero da solo, e non avevo un Pope che salvasse il mio libro.

Il giorno dopo la mia partenza, Steve fuggì dall’ospedale e si arrampicò in cima al Throgs Neck Bridge; per fortuna lo trassero in salvo prima che potesse buttarsi. Questo mi fece capire che l’improvviso abbandono dei miei pazienti, a cui ero stato costretto, era duro e pericoloso per loro almeno quanto lo era per me.

Lasciai il Reparto 23 ribollente di sensi di colpa, rimorsi e rabbia: senso di colpa perché abbandonavo i pazienti, rimorso per aver distrutto il mio libro, e rabbia per le accuse. Erano false, ma mi misero profondamente a disagio; così pensai che tutto quanto avevo espresso in poche parole decisive, a proposito della gestione del reparto, in quella riunione del mercoledì, l’avrei adesso rivelato al mondo intero, in un libro di denuncia che si sarebbe intitolato Reparto 23. 



mercoledì 2 settembre 2015

Oliver Sacks / Il dottore paziente

Oliver Sacks

Oliver Sacks

Il dottore paziente

Addio al neurologo e scrittore diventato celebre per «Risvegli» Un’avventura intellettuale ora restituita dall’autobiografia che in Italia uscirà postuma

di Livia Manera
31 agosto 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 12:06)


«Credo davvero che l’analisi dei miei pazienti mi abbia salvato la vita più di una volta. Nel 1966 i miei amici pensavano che non sarei arrivato ai trentacinque anni, e ne ero convinto anch’io. Ma con l’analisi, buoni amici, con le soddisfazioni del lavoro clinico e della scrittura, e, soprattutto, con una buona dose di fortuna, ho superato gli ottant’anni contro ogni aspettativa».


È un Oliver Sacks molto diverso da quello a cui ci hanno abituati libri comeRisvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, quello che scriveva queste parole in On the Move, l’autobiografia destinata a uscire postuma da Adelphi il 15 ottobre con il titolo In movimento, dopo che il grande neurologo si è spento ieri a ottantadue anni stroncato dal cancro. A parlare in questo libro-testamento non è per una volta il medico inglese in magica sintonia con i suoi pazienti, ma un uomo fragilissimo e a disagio nel mondo: un concentrato di autodistruttività che gioca con la morte e che malgrado ripetuti e plateali fallimenti trova l’armonia che pareva fuori della sua portata grazie al lavoro clinico e alla scrittura.

Ci sono molti modi di leggere In movimento: come l’opera in cui Sacks sapendosi malato terminale affronta finalmente l’argomento di un’omosessualità sofferta e rarissimamente praticata – dopo un’avventura a quarant’anni ne sono seguiti trentacinque di celibato, fino a quando si è innamorato «(Per dio!) a settantasette anni» del compagno che gli è sopravvissuto Billy Hayes; come la cronaca di una serie di manie difficilmente associabili a un intellettuale lucido – dall’ossessione per le motociclette e la velocità, al sollevamento pesi che tocca punte di 600 chili; come la confessione di una passione per l’anfetamina che a trent’anni lo aveva già portato al delirium tremens; e come l’elenco dei sensi di colpa che per tutta la vita lo hanno torturato insieme all’onta (e a quel tempo il crimine) di essere omosessuale nell’Inghilterra che condannava un genio come Alan Turing alla castrazione chimica. A questo si aggiunga la vergogna di non avere fatto abbastanza per un fratello schizofrenico, la cui malattia ha spinto Sacks appena ventenne a fuggire un ambiente famigliare e culturale opprimenti per rifugiarsi in un altrove geografico (gli Stati Uniti) e mentale (la scrittura), e il quadro di un’esistenza torturata è completo.

Ma al di là delle confessioni e dei mea culpa, ciò che affascinerà il lettore di In movimento è la lezione che si annida nelle sue pagine scritte con una semplicitàche si accompagna a una singolare reticenza sul piano psicologico — un tratto paradossale, per un medico che ci ha insegnato a leggere le vite dei malati di Tourette, autismo, afasia e amnesia, come altrettante avventure di coraggio, resistenza e creatività. È come se in seguito alla scoperta della malattia terminale che gli ha fatto guardare alla propria vita «da una grande altitudine, come una specie di paesaggio, con un senso più profondo dei legami tra le sue parti», Sacks avesse sentito l’urgenza di raccontarsi, ma senza spiegarsi. Dicendo: sono nato in una famiglia di medici e scienziati ebrei nella Londra straniata dalla guerra; sono stato esiliato come tanti altri bambini inglesi in un collegio dai metodi sadici; ho deluso e fatto infuriare i miei genitori quando da adolescente mi sono confessato omosessuale (la madre gli disse: «Vorrei che non fossi mai nato»); sono fuggito negli Stati Uniti dopo che mio fratello Michael è diventato psicotico e l’aria in casa si è fatta irrespirabile; ho perso la verginità a ventitré anni ubriacandomi fino a perdere i sensi e la memoria dell’accaduto; mi sono innamorato di uomini sbagliati, ho spezzato cuori e ho avuto il mio a pezzi; ho corteggiato la morte con la velocità, il bodybuilding estremo e con le anfetamine; e solo quando mi hanno cacciato dai laboratori di ricerca perché ormai facevo solo disastri, e per ripiego ho cominciato dedicarmi ai pazienti, ho capito che la mia vita poteva avere uno scopo e non ho più lasciato quell’ancora di salvezza.

Ma la vera sorpresa per i lettori italiani sarà scoprire che Emicranie, il primo successo di Oliver Sacks, gli è costato la perdita del posto e un temporaneo esilio – il capo della clinica in cui lavorava gli disse: se pubblichi questa roba ti giuro che ti licenzio e non lavorerai mai più negli Stati Uniti. E che Risvegli, la commovente raccolta di casi di malati di encefalite letargica che lo ha reso famoso, gli ha procurato la diffidenza dell’ambiente scientifico ma anche accuse infamanti, come quella di avere abusato sessualmente di pazienti minori. Divulgare le storie private dei pazienti (col loro consenso, sebbene a volte dubbio) ha dato a Sacks un successo planetario, è vero, ma solo ora scopriamo a che prezzo. Quando suo padre gli ha mostrato la prima recensione (positiva) di Emicranie, lo ha fatto con il Times che gli tremava nelle mani. Una cosa era armarsi di curiosità, pazienza e compassione, e aiutare i pazienti a raccontare le loro storie — trovando in questo modo un rapporto con il genere umano che altrimenti la sua patologica timidezza gli avrebbe impedito. Un’altra era divulgare quelle storie al resto del mondo. Il paladino dei diritti dei disabili Tom Shakespeare ha detto che «Oliver Sacks è l’uomo che ha scambiato i suoi pazienti per una carriera letteraria». Persino il suo editore inglese, Faber & Faber, davanti al manoscritto di Risvegli ha avuto un sussulto etico e l’ha rifiutato.

Dunque questa è la vera storia di Oliver Sacks, e questa , se vogliamo, è anche la sua meravigliosa lezione: quella di uno scrittore che ha superato ostacoli giganteschi come la perdita di manoscritti, il rifiuto degli editori, il licenziamento dal lavoro e l’ostracismo della propria comunità professionale, per aver lavorato sulla linea che separa la scienza dalla letteratura, infrangendo un tabù. È una storia di resilienza, quella di Sacks. Di spregiudicatezza, anche. E una storia d’amore. Perché, come ha raccontato lui stesso in questo libro, «l’atto di scrivere, quando va bene, mi dà un piacere, una gioia, che non somiglia a nessun’altra. Mi porta in un altrove che mi assorbe interamente facendomi dimenticare tutto, ansie, preoccupazioni e persino il passare del tempo. In quel raro, paradisiaco stato della mente arrivo a scrivere senza sosta fino a che non riesco più a vedere il foglio. E solo allora scopro che è scesa la sera…».