mercoledì 28 aprile 2021

Cosa leggeva Italo Calvino / L'immaginario dello scrittore

 

Italo Calvino

COSA LEGGEVA ITALO CALVINO: L’IMMAGINARIO DELLO SCRITTORE

I libri d’infanzia e dell’adolescenza

di  6 marzo 2018

C’è qualcosa di emozionante nel ripercorrere la biblioteca di un lettore alla luce del suo essere diventato una delle penne più importanti del nostro Novecento. Tanto più che, a leggere i racconti e i romanzi di Italo Calvino, nulla sembra trasparire del suo scrivere «con molta fatica» – come dirà a Costanzo Costantini in un’intervista del 1982 – perché le sue opere sembrano essere scaturite in maniera spontanea da uno squisito esercizio di lettura.

I libri di Italo Calvino rappresentano un’eccezione tra le biblioteche d’autore da un punto di vista materiale e geografico, dal momento che gli oltre settemila volumi conservati nella sua abitazione romana si presentano ancora come lui li ha lasciati: ordinati in doppie file tra scaffali di legno e di vetro in quasi tutte le stanze della casa e persino sulle scale, secondo un criterio di collocazione in cui era il solo a orientarsi. Una mole di libri che lo scrittore ha costantemente sottoposto a selezione per via dei suoi spostamenti tra le città che ha abitato, ma in cui è difficile distinguere nettamente le letture per diletto, per studio e per mestiere. Una biblioteca che oggi non è aperta al pubblico – a meno che non si trovi il coraggio di citofonare all’interno 6 di piazza Campo Marzio 5, dove il secondo campanello dall’alto a sinistra riporta ancora i nomi Calvino e Singer – ma che si può ricostruire tra le lettere, le interviste, gli scritti in cui l’autore l’ha raccontata.

Per come appare oggi, la biblioteca di Italo Calvino è il frutto dell’accorpamento e della selezione di titoli provenienti dalle sue librerie di Sanremo, Torino e Parigi, approdati a Roma a partire dal 1980. Vi troviamo tracce delle letture dei genitori, Evelina Mameli e Mario Calvino, che comprendono dizionari, testi di botanica, di esoterismo, di magia e rarità scientifiche, nonché romanzi di autori italiani come Deledda, Pirandello, D’Annunzio e Fogazzaro. Lo scaffale di famiglia accoglie anche i libri degli zii materni, Anna e Efisio Mameli, e in particolare la collana Biblioteca Romantica Mondadori, a cui lo zio era abbonato, che sarà per il giovane Italo una fonte preziosa per i suoi primi innamoramenti letterari. Come l’autore ricorderà in uno scritto oggi contenuto nel Meridiano dedicato ai saggi: «Il Gordon Pym di Poe della “Romantica” è stata una delle prime letture impegnative, totali, della mia fanciullezza. Un mio zio era abbonato ai volumi verdi, aveva anzi sottoscritto uno dei primi abbonamenti che davano diritto a ricevere ogni volume con un ex-libris personale; tra i titoli dorati dei dorsi allineati nello scaffale scelsi Gordon Pym e fu un’esperienza tra le più emozionanti della mia vita: emozione fisica, perché certe pagine mi fecero letteralmente paura, ed emozione poetica, come richiamo d’un destino».

 

È sempre Calvino a indicarci – in due interviste del 1985 con Maria Corti e Sandra Petrignani – il punto di partenza per «tentare la ricostruzione d’una biblioteca “genetica”»: «Ogni elenco credo deva cominciare da Pinocchio che ho sempre considerato un modello di narrazione. […] Se una continuità può essere ravvisata nella mia prima formazione – diciamo tra i sei e i ventitré anni – è quella che va da Pinocchio ad America di Kafka, altro libro decisivo della mia vita, che ho sempre considerato “il romanzo” per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in quella». Volendo procedere ancora all’indietro, si può risalire alle prime suggestioni visive dei giornalini d’infanzia: «Da bambino leggevo molto il “Corriere dei piccoli” e prima ancora di leggere lo sfogliavo e attraverso le figure mi raccontavo da me stesso delle storie. Facevo variazioni di storie possibili. Credo che quella sia stata una scuola di immaginazione e di logica delle immagini».

La curiosità di Italo trova alimento nella biblioteca scolastica, soprattutto tra i testi di avventura cui sarà legato per tutta la vita, come si legge in Album Calvino: «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. […] Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling». E se il personaggio alter ego dell’autore nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, si chiamerà proprio Kim, non è un caso.

Agli anni di scuola risale l’abitudine di apporre la firma e la data di acquisizione sul frontespizio del libro per indicarne il possesso. Calvino leggeva con la matita in mano, eppure non era solito postillare i suoi libri: si limitava ad annotare sul primo foglio di guardia i numeri delle pagine su cui tornare. Fanno eccezione alcuni testi di studio degli anni Quaranta, in cui le annotazioni sono significative e testimoniano una capacità critica e di analisi già spiccata in un lettore appena ventenne. Sulla sua copia di studio dell’Antologia di Spoon River (un’edizione Einaudi del 1943) Calvino annota così una pagina dedicata a Walter Simmons: «Ecco un vinto. Ma noi non crediamo, come lui in fondo non ci crede, di non aver genio. […] Non bisogna mai credere ai personaggi, in Lee Masters, se si vuol capire l’autore».

 

Tra i riferimenti dell’adolescenza che diverranno suoi modelli letterari, si incontrano anche molti nomi italiani. Come si legge nelle interviste raccolte in Sono nato in America: «Dovrei indicare qualche libro letto nell’adolescenza e che in seguito abbia fatto sentire il suo influsso sulle cose che ho scritto. Dirò subito: Le confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo, l’unico romanzo italiano dell’Ottocento dotato d’un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con tanta abbondanza nelle letterature straniere». Ancora: «I miei primi rovelli letterari – la mia preistoria – si svolsero sotto la boreale stella di Montale, le pagine di Conversazione in Sicilia, mi diedero la prima urgente sollecitazione a scrivere, a Pavese mi legò una sostanziosa, decisiva discepolanza».

Seguendo l’insegnamento di Pavese e Vittorini, Italo Calvino si avvicinerà negli anni Quaranta alla narrativa americana, «che in quell’epoca rappresentava una grossa apertura per l’orizzonte italiano. Per questo, quando ero giovane, la letteratura americana era molto importante e, naturalmente, ho letto tutti i romanzi che allora arrivavano in Italia».
Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, ma soprattutto Poe che, già amato da bambino, sarà un modello di scrittura per i suoi racconti: «Oggi, se dovessi dire qual è l’autore che mi ha influenzato di più, non solo in ambito americano, ma in senso assoluto, direi che è Edgar Allan Poe, perché è uno scrittore che, nei limiti del racconto, sa fare di tutto. All’interno del racconto è un autore di possibilità illimitate; e poi mi pare come una figura mitica di eroe della letteratura, di eroe culturale, fondatore di tutti i generi di narrativa che saranno poi sviluppati in seguito. Per questo si possono tracciare delle linee che collegano Poe, per esempio, a Borges, o a Kafka: si possono tracciare delle linee straordinarie che non finiscono mai».

È il 1943. La Resistenza è alle porte, c’è una guerra da vincere, una tesi di laurea in Lettere a cui pensare e una collaborazione con la casa editrice Einaudi da intraprendere. E molti di quegli straordinari intrecci tra le pagine da leggere e quelle da scrivere, nella vita di Italo Calvino si devono ancora dipanare.




FLANERI




giovedì 22 aprile 2021

Italo Calvino / L'avventura di un fotografo


Italo Calvino
L'avventura di un fotografo


Con la primavera, a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l'astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate (ansia a cui alcuni aggiungono il sottile piacere delle manipolazioni alchimistiche nella stanza oscura, vietata alle intrusioni dei familiari e acre d'acidi all'olfatto), e solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, solo allora quel torrente alpino, quella mossa del bambino col secchiello, quel riflesso di sole sulle gambe della moglie acquistano l'irrevocabilità di ciò che è stato e non può esser più messo in dubbio. Il resto anneghi pure nell'ombra insicura del ricordo.
Frequentando gli amici e i colleghi, Antonino Paraggi, non-fotografo, avvertiva un crescente isolamento. Ogni settimana scopriva che alle conversazioni di coloro che magnificano la sensibilità d'un diaframma o discettano sul numero dei din s'univa la voce di qualcuno cui fino a ieri egli aveva confidato, sicuro che li condividesse, i suoi sarcasmi verso un'attività per lui così poco eccitante e così priva d'imprevisti.
Come professione, Antonino Paraggi esplicava mansioni esecutive nei servizi distributivi d'un'impresa produttiva, ma la sua vera passione era quella di commentare con gli amici gli avvenimenti piccoli e grandi sdipanando il filo delle ragioni generali dai garbugli particolari; egli era insomma, per atteggiamento mentale, un filosofo, e nel riuscire a spiegarsi anche i fatti più lontani dalla sua esperienza metteva tutto il suo puntiglio. Ora sentiva che qualcosa nell'essenza dell'uomo fotografico gli sfuggiva, il segreto appello per cui nuovi adepti continuavano ad arruolarsi sotto le bandiere dei dilettanti dell'obiettivo, alcuni vantando i progressi delle loro abilità tecniche e artistiche, altri al contrario attribuendo tutto il merito alla bontà dell'apparecchio che avevano acquistato, capace (a sentir loro) di produrre capolavori anche se affidato a mani inette (quali venivano dichiarate le loro, perché là dove l'orgoglio era puntato a esaltare le virtù dei congegni meccanici, il talento soggettivo accettava di venire in proporzione umiliato). Antonino Paraggi capiva che né l'uno né l'altro motivo di compiacimento era decisivo: il segreto stava altrove.
Bisogna dire che questo cercare nella fotografia le ragioni d'un suo malcontento - come di chi si sente escluso da qualcosa - era in parte anche un trucco di Antonino con se stesso, per evitare di prendere in considerazione un altro, e più vistoso, processo che lo andava separando dagli amici. Ciò che stava avvenendo era che i suoi coetanei a uno a uno si sposavano, mettevano famiglia, mentre Antonino rimaneva scapolo. Pure tra i due fenomeni intercorreva un indubbio legame, in quanto spesso la passione dell'obiettivo nasce in modo naturale e quasi fisiologico come effetto secondario della paternità. Uno dei primi istinti dei genitori, dopo aver messo al mondo un figlio, è quello di fotografarlo; e data la rapidità della crescita si rende necessario fotografarlo spesso, perché nulla è più labile e irricordabile d'un infante di sei mesi, presto cancellato e sostituito da quello di otto mesi e poi d'un anno; e tutta la perfezione che agli occhi dei genitori può aver raggiunto un figlio di tre anni non basta ad impedire che subentri a distruggerla la nuova perfezione dei quattro, solo restando l'album fotografico come luogo dove tutte queste fugaci perfezioni si salvino e giustappongano, ciascuna aspirando a una propria incomparabile assolutezza. Nella smania dei genitori novelli d'inquadrare la prole nel mirino per ridurla all'immobilità del bianco-e-nero o della diapositiva- fotocolor, il non-fotografo e non-procreato-re Antonino vedeva soprattutto una fase della corsa verso la follia che covava in quel nero strumento. Ma le sue riflessioni sul nesso iconoteca-famiglia-follia erano sbrigative e reticenti: altrimenti avrebbe compreso che in realtà chi correva il pericolo maggiore era lui, lo scapolo.
Nella cerchia d'amicizie d'Antonino s'usava passare la fine settimana fuori città in comitiva, secondo una consuetudine che per molti di loro durava dagli anni studenteschi, e che s'era estesa alle fidanzate e poi alle spose e alle figliolanze, nonché alle balie e governanti, e in alcuni casi ai parenti acquistati e a nuove conoscenze d'ambo i sessi. Ma poiché la continuità delle frequentazioni e abitudini non era mai venuta meno, Antonino poteva far finta che nulla fosse cambiato col passare degli anni e che quella fosse ancora la comitiva di giovanotti e di ragazze d'una volta, anziché un conglomerato di famiglie in cui egli restava il solo scapolo superstite.
Sempre più spesso, in queste gite montane o marine, al momento della foto di gruppo familiare o interfamiliare, era richiesto l'intervento d'un operatore estraneo, magari d'un passante che si prestasse a premere lo scatto dell'apparecchio già messo a fuoco e puntato nella direzione voluta. In questi casi Antonino non poteva rifiutare i suoi servigi: raccoglieva la macchina dalle mani d'un genitore o d'una genitrice che correvano a piazzarsi in seconda fila sporgendo il collo tra due teste o ad accoccolarsi tra i più piccoli; e concentrando tutte le sue forze nel dito preposto all'uso schiacciava il grilletto. Le prime volte un inconsulto irrigidirsi delle braccia deviava la mira a catturare alberature d'imbarcazioni o guglie di campanili, o a decapitare nonni e zii. Fu accusato di farlo apposta, biasimato per un cattivo genere di scherzi. Non era vero: la sua intenzione era di concedere il dito come docile strumento della volontà collettiva, ma intanto di servirsi della momentanea posizione di privilegio per ammonire fotografi e fotografati sul significato dei loro atti. Appena il polpastrello raggiunse la voluta condizione di distacco dal resto della sua persona e individualità, egli fu libero di comunicare le sue teorie in argomentate allocuzioni, inquadrando nel contempo riuscite scenette d'insieme. (Alcuni casuali successi erano bastati a dargli disinvoltura e confidenza con i mirini e gli esposimetri.)
-... Perché una volta che avete cominciato, - predicava - non c'è nessuna ragione che vi fermiate. Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo. Se fotografate Pierluca mentre fa il castello di sabbia, non c'è ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambinaia lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia. Basta che cominciate a dire di qualcosa: "Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!" e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografarle possibile, oppure considerare fotografarle ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.
- Pazzo e stupido sarai tu, - gli dicevano gli amici, - e per di più rompiscatole.
- Per chi vuole recuperare tutto ciò che passa sotto i suoi occhi, - spiegava Antonino anche se nessuno lo stava più a sentire, - l'unico modo d'agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto, da quando apre gli occhi al mattino a quando va a dormire. Solo così i rotoli di pellicola impressionata costituiranno un fedele diario delle nostre giornate, senza che nulla resti escluso. Se mi mettessi a fotografare io, andrei fino in fondo su questa strada, a costo di perderci la ragione. Voi invece pretendete ancora di esercitare una scelta. Ma quale? Una scelta in senso idillico, apologetico, di consolazione, di pace con la natura la nazione i parenti. Non è soltanto una scelta fotografica, la vostra; è una scelta di vita, che vi porta a escludere i contrasti drammatici, i nodi delle contraddizioni, le grandi tensioni della volontà, della passione, dell'avversione. Così credete di salvarvi dalla follia, ma cadete nella mediocrità, nell'ebetudine.
Certa Bice, ex cognata di qualcuno, e certa Lydia, ex segretaria di qualche altro, gli chiesero se per favore scattava loro un'istantanea mentre giocavano al pallone tra le onde. Accondiscese, ma siccome intanto aveva elaborato una teoria contro le istantanee, si premurò di comunicarla alle due amiche:
- Cosa vi spinge, ragazze, a prelevare dalla mobile continuità della vostra giornata queste fette temporali dello spessore d'un secondo? Lanciandovi il pallone vivete nel presente, ma appena la scansione dei fotogrammi si insinua tra i vostri gesti non è più il piacere del gioco a muovervi ma quello di rivedervi nel futuro, di ritrovarvi tra vent'anni su di un cartoncino ingiallito (sentimentalmente ingiallito, anche se i procedimenti di fissaggio moderni lo preserveranno inalterato). Il gusto della foto spontanea naturale colta dal vivo uccide la spontaneità, allontana il presente. La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull'ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto dell'altro ieri. E la vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di se stessa. Credere più vera l'istantanea che il ritratto in posa è un pregiudizio...
Così dicendo Antonino saltellava in mare attorno alle due amiche per mettere a fuoco i movimenti del gioco ed escludere dall'inquadratura gli abbaglianti riflessi del sole sull'acqua. In una zuffa per il pallone Bice che si slanciava sull'altra già sommersa fu colta col sedere in primo piano volante sulle onde. Antonino per non perdere questo scorcio s'era buttato riverso nell'acqua tenendo sollevata la macchina e mancò poco annegasse.
- Sono venute tutte benissimo, e questa poi è stupenda, - commentarono qualche giorno dopo, strappandosi di mano i provini. Gli avevano dato appuntamento nel negozio del fotografo. - Sei bravo, devi farcene delle altre. Antonino era giunto alla conclusione che occorreva ritornare ai personaggi in posa, in atteggiamenti rappresentativi della loro situazione sociale e del loro carattere, come nell'Ottocento. La sua polemica antifotografica poteva essere condotta solo dall'interno della scatola nera, contrapponendo fotografia a fotografia.
- Mi piacerebbe avere una di quelle vecchie macchine a soffietto, - disse alle amiche, - montate su un trepiede. Credete che se ne trovino ancora?
- Mah, forse da qualche rigattiere...
- Andiamo a cercare.
Le amiche trovarono divertente la caccia all'oggetto curioso; insieme perlustrarono mercati di cianfrusaglie, interpellarono vecchi fotografi ambulanti, li seguirono nei loro stambugi. In quei cimiteri di materiale fuori uso giacevano colonnine, paraventi, fondali dipinti con sfumati paesaggi; tutto ciò che evocava un vecchio studio di fotografo, Antonino lo comprava. Alla fine riuscì a mettere le mani su una macchina a cassetta, con lo scatto a pera. Sembrava funzionasse perfettamente. Antonino la comprò con un assortimento di lastre. Aiutato dalle amiche, in una stanza del suo alloggio installò lo studio, tutto d'oggetti antiquati, tranne due moderni riflettori.
Adesso era soddisfatto. - Bisogna ripartire di qua, - spiegò alle amiche. - Nel modo in cui i nostri nonni si mettevano in posa, nella convenzione secondo la quale venivano disposti i gruppi, c'era un significato sociale, un costume, un gusto, una cultura. Una fotografia ufficiale o matrimoniale o familiare o scolastica dava il senso di quanto ogni ruolo o istituzione aveva in sé di serio e d'importante ma anche di falso e di forzato, d'autoritario, di gerarchico. Questo è il punto: rendere espliciti i rapporti col mondo che ognuno di noi porta con sé, e che oggi si tendono a nascondere, a far diventare inconsci, credendo che in questo modo spariscano, mentre invece...
- Ma chi è che vuoi far posare?
- Venite domani e comincerò a farvi delle foto come dico io.
- Ma di', dove vuoi arrivare? - fece Lydia, presa da un'improvvisa diffidenza. Solo adesso, nello studio installato, vedeva che in esso tutto aveva un'aria sinistra, minacciosa. - Te lo sogni che veniamo a farti da modelle!
Bice ridacchiò con lei, ma l'indomani tornò a casa d'Antonino, sola.
Era vestita di lino bianco, con ricami colorati sui bordi delle maniche e delle tasche. Aveva i capelli divisi da una scriminatura e raccolti sulle tempie. Rideva un po' di sottecchi, inclinando il capo da una parte. Antonino facendola passare studiava, in quei suoi modi un po' vezzosi un po' ironici, quali erano i tratti che definivano il suo carattere vero.
La fece sedere in una grande poltrona, e infilò la testa sotto il drappo nero che guarniva l'apparecchio. Era una di quelle cassette dalla parete posteriore di vetro, dove l'immagine si specchia già quasi come su una lastra, spettrale, un po' lattiginosa, separata da ogni contingenza nello spazio e nel tempo. Ad Antonino parve di vedere Bice per la prima volta. Aveva un'arrendevolezza, nel calare un po' pesante delle palpebre, nel protendere avanti il collo, che prometteva qualcosa di nascosto, così come il suo sorriso pareva nascondersi dietro lo stesso atto del sorridere.
- Ecco, così, no, la testa più in là, alza gli occhi, no abbassa, - Antonino stava rincorrendo dentro quella scatola qualcosa di Bice che improvvisamente gli pareva preziosissimo, assoluto.
- Ora ti fai ombra, vieni più in luce, no, era meglio prima.
C'erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre.
- Non ti prendo, - la sua voce usciva soffocata e lamentosa da sotto alla cappa nera, - non ti prendo più, non riesco a prenderti.
Si liberò dal drappo e si rialzò. Stava sbagliando tutto da principio. Quell'espressione quell'accento quel segreto che gli sembrava d'esser lì lì per cogliere sul viso di lei era qualcosa che lo trascinava nelle sabbie mobili degli stati d'animo, degli umori, della psicologia: era anche lui uno di quelli che inseguono la vita che sfugge, un cacciatore dell'inafferrabile, come gli scattatori d'istantanee.
Doveva seguire la via opposta: puntare su un ritratto tutto in superficie, palese, univoco, che non rifuggisse dall'apparenza convenzionale, stereotipa, dalla maschera. La maschera, essendo innanzi tutto un prodotto sociale, storico, contiene più verità d'ogni immagine che si pretenda "vera"; porta con sé una quantità di significati che si riveleranno a poco a poco. Non era proprio con questo intento che Antonino aveva messo su quel baraccone d'uno studio? Osservò Bice. Doveva partire dagli elementi esteriori del suo aspetto. Nel modo di vestirsi e acconciarsi di Bice, - pensò, - era riconoscibile l'intenzione un po' nostalgica un po' ironica, diffusa nel gusto di quegli anni, di richiamarsi alla moda di trent'anni prima. La fotografia avrebbe dovuto accentuare quest'intenzione: come mai non ci aveva pensato?
Antonino andò a cercare una racchetta da tennis; Bice doveva stare in piedi, di tre quarti, con la racchetta sotto il braccio, atteggiando il viso a un'espressione da cartolina sentimentale. Ad Antonino, da sotto la mantella nera, l'immagine di Bice - in ciò che aveva di snello e adatto a quella posa e in ciò che aveva d'inadatto e quasi incongruo e che la posa accentuava, - parve molto interessante. La fece cambiare più volte di posizione, studiando la geometria delle gambe e delle braccia in rapporto alla racchetta e a un elemento di sfondo. (Nella cartolina ideale che egli aveva in mente ci doveva essere la rete del campo di tennis, ma non si poteva pretendere troppo e Antonino si contentò d'un tavolo da ping-pong).
Però ancora non si sentiva su terreno sicuro: non stava per caso cercando di fotografare dei ricordi, anzi, dei vaghi echi di ricordo affioranti dalla memoria? Il suo rifiuto di vivere il presente come ricordo futuro, al modo dei fotografi della domenica, non lo portava a tentare un'operazione altrettanto irreale, cioè a dare un corpo al ricordo per sostituirlo al presente davanti ai suoi occhi?
- Muoviti, cosa stai lì impalata, alza quella racchetta, accidenti! Fa' come se giocassi a tennis! -s'infuriò tutt'a un tratto. Aveva capito che solo esasperando le pose si poteva raggiungere un'estraneità oggettiva; solo fìngendo un movimento arrestato a metà si poteva dare l'impressione del fermo, del non vivente.
Bice si prestava docilmente a eseguire i suoi ordini anche quando si facevano imprecisi e contraddit-tori, con una passività che era anche un dichiararsi fuori del gioco, eppure in qualche modo insinuando, in questo gioco non suo, le imprevedibili mosse d'una sua misteriosa partita. Quello che ora Antonino attendeva da Bice dicendole di mettere le gambe e le braccia così e così, non era tanto la semplice esecuzione d'un programma, quanto la risposta di lei alla violenza che egli le andava facendo con le sue richieste, una imprevedibile aggressiva risposta a questa violenza che egli era sempre di più portato a esercitare su di lei.
Era come nei sogni, pensò Antonino, contemplando seppellito nel buio quell'improbabile tennista filtrata nel rettangolo di vetro: come nei sogni quando una presenza venuta dalla profondità della memoria s'avanza, si fa riconoscere, e poi subito si trasforma in qualcosa d'inaspettato, in qualcosa che prima ancora della trasformazione già spaventa perché non si sa in che cosa potrà trasformarsi.
Voleva fare la foto ai sogni? Questo sospetto lo ammutolì, nascosto in quel rifugio da struzzo, la peretta dello scatto in mano, come un idiota; e intanto Bice, lasciata a se stessa, continuava una specie di danza grottesca, immobilizzandosi in esagerati gesti tennistici, rovescio, drive, levando alta la racchetta o abbassandola al suolo come se lo sguardo che usciva da quell'occhio di vetro fosse la palla che lei continuava a respingere.
- Basta, cos'è questa commedia, non è così che intendevo, - e Antonino coperse la macchina col drappo, prese a passeggiare per la stanza.
Era quel vestito la colpa di tutto, con le sue evocazioni tennistiche e prebelliche... Bisognava ammettere che in vestito da passeggio una foto come diceva lui non si poteva fare. Ci voleva una certa solennità, una certa pompa, come le foto ufficiali delle regine. Solo in abito da sera Bice sarebbe diventata un soggetto fotografico, con la scollatura che segna un confine netto tra il bianco della pelle e lo scuro della stoffa sottolineato dal luccichio dei gioielli, un confine tra un'essenza di donna atemporale e quasi impersonale nella sua nudità e l'altra astrazione, sociale questa, dell'abito, simbolo d'un ruolo altrettanto impersonale, come il drappeggio d'una statua allegorica.
S'avvicinò a Bice, si mise a sbottonarla sul collo, sul petto, a far scorrere il vestito sulle spalle. Gli erano venute in mente certe fotografie di donna ottocentesche, in cui dal bianco del cartoncino emerge il viso il collo la linea delle spalle scoperte, e tutto il resto svanisce nel bianco.
Quello era il ritratto fuori dal tempo e dallo spazio che ora lui voleva: non sapeva bene come si faceva ma era deciso a riuscirci. Piazzò il riflettore addosso a Bice, avvicinò la macchina, armeggiò sotto il drappo per regolare l'apertura dell'obiettivo. Guardò. Bice era nuda.
Aveva fatto scivolare il vestito fino ai piedi; sotto non aveva niente; aveva fatto un passo avanti; no, un passo indietro che era come un avanzare tutta intera nel quadro; stava dritta, alta davanti alla macchina, tranquilla, guardando davanti a sé, come se fosse sola.
Antonino sentì la vista di lei entrargli negli occhi i occupare tutto il campo visivo, sottrarlo al flusso delle immagini casuali e frammentarie, concentrare tempo e spazio in una forma finita. E come se questa sorpresa della vista e l'impressionarsi della lastra fossero due riflessi collegati tra loro, subito premette lo scatto, ricaricò la macchina, scattò, mise un'altra lastra, scattò, continuò a cambiare lastra e scattare, farfugliando, soffocato dal drappo: - Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora.
Non aveva più lastre. Uscì dal drappo. Era contento. Bice era davanti a lui, nuda, come aspettando.
- Adesso puoi coprirti, - disse lui, euforico, ma già con fretta, - usciamo. Lei lo guardò smarrita.
- Ormai ti ho presa, - disse lui. Bice scoppiò a piangere.
Antonino scoprì d'essere innamorato di lei il giorno stesso. Si misero a vivere insieme, e lui comprò apparecchi dei più moderni, teleobiettivi, attrezzature perfezionate, installò un laboratorio. Aveva anche dei dispositivi per poterla fotografare la notte mentre dormiva. Bice si svegliava sotto il flash, contrariata; Antonino continuava a scattare istantanee di lei che si districava dal sonno, di lei che si adirava con lui, di lei che cercava inutilmente di ritrovare il sonno affondando il viso nel cuscino, di lei che si riconciliava, di lei che riconosceva come atti d'amore queste violenze fotografiche.
Nel laboratorio d'Antonino pavesato di pellicole e provini Bice s'affacciava da tutti i fotogrammi, come nel reticolo d'un alveare s'affacciano migliaia d'api che sono sempre la medesima ape: Bice in tutti gli atteggiamenti gli scorci le
fogge, Bice messa in posa o colta a sua insaputa, un'identità frantumata in un pulviscolo d'immagini.
- Ma cos'è quest'ossessione di Bice? Non puoi fotografare altro? - era la domanda che sentiva continuamente dagli amici, e anche da lei.
- Non si tratta semplicemente di Bice, - rispondeva. - È una questione di. metodo. Qualsiasi persona tu decida di fotografare, o qualsiasi cosa, devi continuare a fotografarla sempre, solo quella, a tutte le ore del giorno e della notte. La fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili. Ma non diceva quello che soprattutto gli stava a cuore: cogliere Bice per la strada quando non sapeva d'essere vista da lui, tenerla sotto il tiro d'obiettivi nascosti, fotografarla non solo senza farsi vedere ma senza vederla,
sorprenderla com'era in assenza del suo sguardo, di qualsiasi sguardo. Non che volesse scoprire qualcosa in particolare; non era un geloso nel senso corrente della parola. Era una Bice invisibile che voleva possedere, una Bice assolutamente sola, una Bice la cui presenza presupponesse l'assenza di lui e di tutti gli altri.
Si potesse definire o no gelosia, era insomma una passione difficile da sopportare. Presto Bice lo piantò.
Antonino cadde in una crisi depressiva. Cominciò a tenere un diario: fotografico, s'intende. Con la macchina appesa al collo, chiuso in casa, sprofondato in una poltrona, scattava compulsivamente con lo sguardo nel vuoto. Fotografava l'assenza di Bice.
Raccoglieva le foto in un album: vi si vedevano portaceneri pieni di mozziconi, un letto sfatto, una macchia d'umidità sul muro. Gli venne l'idea di comporre un catalogo di tutto ciò che nel mondo esiste di refrattario alla fotografia, di lasciato fuori sistematicamente dal campo visivo non solo delle macchine ma degli uomini. Su ogni soggetto passava giornate, esaurendo rotoli interi, a intervalli di ore, in modo da seguire i mutamenti della luce e delle ombre. Un giorno si fissò su un angolo della stanza completamente vuoto, con un tubo del termosifone e nient'altro: ebbe la tentazione di continuare a fotografare quel punto e solo quello fino alla fine dei suoi giorni.
L'appartamento era lasciato nell'abbandono, fogli e vecchi giornali giacevano spiegazzati al suolo, e lui li fotografava. Le foto sui giornali venivano fotografate anch'esse, e un legame indiretto si stabiliva tra il suo obiettivo e quello di lontani fotoreporter. Per produrre quelle macchie nere la lente d'altri obiettivi s'era puntata su cariche della polizia, auto carbonizzate, atleti in corsa, ministri, imputati.
Antonino ora provava un particolare piacere a ritrarre gli oggetti domestici inquadrati da un mosaico di telefoto, violente macchie d'inchiostro sui fogli bianchi. Dalla sua immobilità si sorprese a invidiare la vita del fotoreporter che si muove seguendo i moti delle folle, il sangue versato, le lacrime, le feste, il delitto, le convenzioni della moda, la falsità delle cerimonie ufficiali; il fotoreporter che documenta sugli estremi della società, sui più ricchi e sui più poveri, sui momenti eccezionali che pure si producono a ogni momento in ogni luogo.
"Vuoi dire che solo lo stato d'eccezione ha un senso? - si domandava Antonino.
- È il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale? I loro mondi si escludono? Oppure l'uno da un senso all'altro?" e così riflettendo prese a fare a pezzi le foto con Bice o senza Bice accumulate nei mesi della sua passione, a strappare le filze di provini appese ai muri, a tagliuzzare la celluloide delle negative, a sfondare le diapositive, e ammucchiava i residui di questa metodica distruzione su giornali distesi per terra.
"Forse la vera fotografia totale, - pensò, - è un mucchio di frammenti d'immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni". Piegò i lembi dei giornali in un enorme involto per buttarlo nella spazzatura, ma prima volle fotografarlo. Dispose i lembi in modo che si vedessero bene due metà di foto di giornali diversi che nell'involto si trovavano per caso a combaciare. Anzi, riaprì un po' il pacco perché sporgesse un pezzo di cartoncino lucido d'un ingrandimento lacerato. Accese un riflettore; voleva che nella sua foto si potessero riconoscere le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d'ombre di inchiostro casuali, e nello stesso tempo ancora la loro concretezza d'oggetti carichi di significato, la forza con cui s'aggrappavano all'attenzione che cercava di scacciarle.
Per far entrare tutto questo in una fotografia occorreva conquistare un'abilità tecnica straordinaria, ma solo allora Antonino avrebbe potuto smettere di fotografare. Esaurite tutte le possibilità, nel momento in cui il cerchio si chiudeva su se stesso, Antonino capì che fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora.


martedì 20 aprile 2021

Italo Calvino / L’avventura di un automobilista

 


Italo Calvino

L’avventura di un automobilista 

(1967) 


Italo Calvino / La aventura de un automovilista



Appena uscito dalla città m’accorgo che è buio. Accendo i fari. Sto andando in macchina da A a B, per un’autostrada a tre corsie, di quelle con la corsia di mezzo che serve per i sorpassi nelle due direzioni. A guidare di notte anche gli occhi devono come staccare un dispositivo che hanno dentro e accenderne un altro, perché non hanno più da sforzarsi a distinguere tra le ombre e i colori attenuati del paesaggio serale la macchiolina delle auto lontane che vengono incontro o che precedono, ma hanno da controllare una specie di lavagna nera che richiede una lettura diversa, più precisa ma semplificata, dato che il buio cancella tutti i particolari del quadro che potrebbero distrarre e mette in evidenza solo gli elementi indispensabili, strisce bianche sull’asfalto, luci gialle dei fari e puntini rossi. È un processo che avviene automaticamente, e se io stasera sono portato a rifletterci sopra è perché ora che le possibilità esterne di distrazione diminuiscono quelle interne prendono in me il sopravvento, i miei pensieri corrono per conto loro in un circuito d’alternative e di dubbi che non riesco a disinnestare, insomma devo fare uno sforzo particolare per concentrarmi sulla guida.

Sono salito in macchina all’improvviso dopo un litigio telefonico con Y. Io abito ad A, Y abita a B. Non prevedevo d’andarla a trovare, stasera. Ma nella nostra telefonata quotidiana ci siamo detti cose molto gravi; alla fine, portato dal risentimento, ho detto a Y che volevo rompere la nostra relazione; Y ha risposto che non le importava, e che avrebbe subito telefonato a Z, mio rivale. A questo punto uno di noi due – non ricordo se lei o io stesso – ha interrotto la comunicazione. Non era passato un minuto e mi ero già reso conto che l’occasione del nostro litigio era poca cosa in confronto alle conseguenze che stava provocando. Richiamare Y al telefono sarebbe stato un errore; l’unico modo di risolvere la questione era di fare una corsa a B e avere una spiegazione con Y a faccia a faccia. Eccomi dunque su quest’autostrada che ho percorso centinaia di volte a tutte le ore e in tutte le stagioni ma che non mi era sembrata mai così lunga.

Per meglio dire, mi sembra d’aver perduto il senso dello spazio e quello del tempo: i coni di luce proiettati dai fari fanno sprofondare nell’indistinto il profilo dei luoghi; le cifre dei chilometri sui cartelloni e quelle che scattano nel cruscotto sono dati che non mi dicono niente, che non rispondono all’urgenza delle mie domande su cosa Y sta facendo in questo momento, su cosa sta pensando. Intendeva davvero chiamare Z o era solo una minaccia buttata lì, per ripicca? E se diceva sul serio, l’avrà fatto immediatamente dopo la nostra telefonata, o avrà voluto pensarci sopra un momento, lasciar sbollire l’arrabbiatura prima di decidere? Z abita come me ad A; ama da anni Y senza fortuna; se lei gli ha telefonato invitandolo, lui certo si è precipitato in macchina a B; quindi anche lui sta correndo su quest’autostrada; ogni macchina che mi sorpassa potrebbe essere la sua, e così ogni macchina che sorpasso io. Assicurarmene è difficile: le macchine che vanno nella mia stessa direzione sono due luci rosse quando mi precedono e due occhi gialli quando le vedo seguirmi nello specchietto retrovisore. Nel momento del sorpasso posso distinguere tutt’al più che tipo di macchina è, e quante persone ci sono a bordo, ma le auto col solo guidatore sono la grande maggioranza, e quanto al modello non mi risulta che la vettura di Z sia particolarmente riconoscibile.

Come se non bastasse, si mette a piovere. Il campo visuale si riduce al semicerchio del vetro spazzolato dal tergicristallo, tutto il resto è oscurità striata o opaca, le notizie che mi vengono da fuori sono solo bagliori gialli e rossi deformati da un vortice di gocce. Tutto quello che posso fare con Z è cercare di sorpassarlo e non lasciare che mi sorpassi, in qualsiasi macchina egli sia, ma non riuscirò a sapere se c’è e qual è. Sento ugualmente nemiche tutte le macchine che vanno in direzione di A: ogni auto più veloce della mia che bussa affannosamente con l’indicatore di direzione nello specchietto per chiedermi strada provoca in me una fitta di gelosia; e ogni volta che davanti a me vedo diminuire la distanza che mi separa dalle luci posteriori d’un rivale, è con un balzo di trionfo che mi getto nella corsia centrale per arrivare da Y prima di lui.

Mi basterebbero pochi minuti di vantaggio: vedendo con che prontezza sono corso da lei Y dimenticherà subito i motivi del litigio; tutto tra noi tornerà come prima; Z arrivando comprenderà d’esser stato chiamato in causa solo per una specie di gioco tra noi due; si sentirà un intruso. Anzi, forse già in questo momento Y si è pentita di tutto quel che mi aveva detto, ha cercato di richiamarmi al telefono, oppure anche lei ha pensato come me che la cosa migliore era venire di persona, s’è messa al volante, ecco che ora sta correndo in senso opposto al mio su questa autostrada.

Adesso ho smesso di stare attento alle macchine che vanno nella mia stessa direzione e guardo quelle che mi vengono incontro e che per me consistono soltanto nella doppia stella dei fari che si dilata fino a spazzare il buio dal mio campo visuale per poi sparire di colpo alle mie spalle trascinandosi dietro una specie di luminescenza sottomarina. Y ha una macchina di modello molto comune; come la mia, del resto. Ognuna di queste apparizioni luminose potrebbe essere lei che corre verso di me, a ognuna sento qualcosa che mi si muove nel sangue come per un’intimità destinata a rimanere segreta, il messaggio amoroso diretto esclusivamente a me si confonde con tutti gli altri messaggi che corrono sul filo dell’autostrada, eppure non saprei desiderare da lei un messaggio diverso da questo.

M’accorgo che correndo verso Y ciò che più desidero non è trovare Y al termine della mia corsa: voglio che sia Y a correre verso di me, è questa la risposta di cui ho bisogno, cioè ho bisogno che lei sappia che io sto correndo verso di lei ma nello stesso tempo ho bisogno di sapere che lei sta correndo verso di me. L’unico pensiero che mi conforta è pure quello che mi tormenta di più: il pensiero che se in questo momento Y sta correndo in direzione di A, anche lei ogni volta che vedrà i fari di un’auto in corsa verso B si domanderà se sono io che corro verso di lei, e desidererà che sia io, e non potrà mai esserne sicura. Ora due macchine che vanno in direzioni opposte si sono trovate per un secondo affiancate, una vampata ha illuminato le gocce della pioggia e il rumore dei motori s’è fuso come in un brusco soffio di vento: forse eravamo noi, ossia è certo che io ero io, se ciò significa qualcosa, e l’altra poteva essere lei, cioè quella che io voglio sia lei, il segno di lei in cui voglio riconoscerla, sebbene sia proprio il segno stesso che me la rende irriconoscibile. Correre sull’autostrada è l’unico modo che ci resta, a me e a lei, per esprimere quello che abbiamo da dirci, ma non possiamo comunicarlo né riceverne comunicazione finché stiamo correndo.

Certo mi sono messo al volante per arrivare da lei al più presto; ma più vado avanti più mi rendo conto che il momento dell’arrivo non è il vero fine della mia corsa. Il nostro incontro, con tutti i particolari inessenziali che la scena d’un incontro comporta, la minuta rete di sensazioni e significati e ricordi che mi si dispiegherebbe davanti – la stanza con il philodendron, la lampada d’opaline, gli orecchini -, e le cose che direi, alcune delle quali di sicuro sbagliate o equivocabili, e le cose che lei direbbe, in qualche misura certamente stonate o non quelle comunque che io m’aspetto, e tutto il rotolio di conseguenze imprevedibili che ogni gesto e ogni parola comporta, solleverebbero attorno alle cose che abbiamo da dirci, o meglio che vogliamo sentirci dire, una nuvola di brusio tale che la comunicazione già difficile al telefono risulterebbe ancora più disturbata, soffocata, sepolta come sotto una valanga di sabbia. È per questo che ho sentito il bisogno, anziché continuare a parlare, di trasformare le cose da dire in un cono di luce lanciato a centoquaranta all’ora, di trasformare me stesso in questo cono di luce che si muove sull’autostrada, perché è certo che un segnale così può essere ricevuto e compreso da lei senza perdersi nel disordine equivoco delle vibrazioni secondarie, così come io per ricevere e comprendere le cose che lei ha da dirmi vorrei che non fossero altro (anzi, vorrei che lei non fosse altro) che questo cono di luce che vedo avanzare sull’autostrada a una velocità (dico così, a occhio) di centodiecicentoventi. Ciò che conta è comunicare l’indispensabile lasciando perdere tutto il superfluo, ridurre noi stessi a comunicazione essenziale, a segnale luminoso che si muove in una data direzione, abolendo la complessità delle nostre persone e situazioni ed espressioni facciali, lasciandole nella scatola d’ombra che i fari si portano dietro e nascondono. La Y che io amo in realtà è quel fascio di raggi luminosi in movimento, e tutto il resto di lei può rimanere implicito; e il me stesso che lei può amare, il me stesso che ha il potere d’entrare in quel circuito d’esaltazione che è la sua vita affettiva, è il lampeggio di questo sorpasso che sto, per amor suo e non senza qualche rischio, tentando.

E pure con Z (non mi sono affatto dimenticato di Z) il rapporto giusto posso stabilirlo soltanto se lui è per me solo lampeggio e abbaglio che m’insegue, o luci di posizione che io inseguo: perché se comincio a prendere in considerazione la sua persona, con quel tanto – diciamo – di patetico ma anche d’innegabilmente sgradevole, però pure – devo ammettere – di giustificabile, con tutta questa sua storia noiosa dell’innamoramento infelice, e il suo modo di comportarsi sempre un po’”equivoco… bè, non si sa più dove si va a finire. Invece, finché tutto continua così va benissimo: Z che cerca di sorpassarmi o si lascia sorpassare da me (ma io non so se è lui), Y che accelera verso di me (ma non so se sia lei) pentita e di nuovo innamorata, io che accorro da lei geloso e ansioso (ma non posso farglielo sapere, né a lei né a nessuno).

Certo, se sull’autostrada fossi assolutamente solo, se non vedessi correre altre macchine né in un senso né nell’altro, allora tutto sarebbe molto più chiaro, avrei la certezza che né Z si è mosso per soppiantarmi, né Y si è mossa per rappacificarsi con me, dati che potrei segnare all’attivo o al passivo nel mio bilancio, ma che comunque non lascerebbero adito a dubbi. Eppure se mi fosse dato di sostituire al mio presente stato d’incertezza una tale certezza negativa, rifiuterei senz’altro il cambio. La condizione ideale per escludere ogni dubbio sarebbe che in tutta questa parte del mondo esistessero solo tre automobili: la mia, quella di Y e quella di Z: allora nessun’altra macchina potrebbe procedere nel mio senso se non quella di Z, e la sola macchina diretta in senso opposto sarebbe certamente Y. Invece, tra le centinaia di macchine che la notte e la pioggia riducono ad anonimi bagliori, solo un osservatore immobile e situato in una posizione favorevole potrebbe distinguere una macchina dall’altra e magari riconoscere chi è a bordo. Questa è la contraddizione in cui mi trovo: se voglio ricevere un messaggio dovrei rinunciare ad essere messaggio io stesso, ma il messaggio che vorrei ricevere da Y – cioè che Y si è fatta lei stessa messaggio – ha un valore solo se io sono messaggio a mia volta, e d’altra parte il messaggio che io sono diventato ha un senso solo se Y non si limita a riceverlo come una qualsiasi ricevitrice di messaggi ma se è lei quel messaggio che io aspetto di ricevere da lei.

Ormai arrivare a B, salire alla casa di Y, trovare che lei è rimasta lì col suo mal di testa a rimuginare i motivi del litigio, non mi darebbe più nessuna soddisfazione; se poi sopraggiungesse anche Z ne nascerebbe una scena da teatro, detestabile; e se invece venissi a sapere che Z si è guardato bene dal venire o che Y non ha messo in atto la sua minaccia di telefonargli, sentirei d’aver fatto la parte del cretino. D’altro canto, se io fossi rimasto ad A, e Y fosse venuta fin lì a chiedermi scusa, mi sarei trovato in una situazione imbarazzante: avrei visto Y con altri occhi, come una donna debole, che mi si aggrappa, qualcosa tra noi sarebbe cambiato. Non riesco più ad accettare altra situazione se non questa trasformazione di noi stessi nel messaggio di noi stessi. E Z? Anche Z non deve sfuggire alla nostra sorte, deve trasformarsi anche lui nel messaggio di se stesso, guai se io corro da Y geloso di Z e se Y corre da me pentita per sfuggire a Z mentre intanto Z non s’è sognato di muoversi da casa…

A metà dell’autostrada c’è una stazione di servizio. Mi fermo, corro al bar, compro una manciata di gettoni, formo il prefisso di B, il numero di Y. Nessuno risponde. Faccio cadere la pioggia di gettoni con gioia: è chiaro che Y non ha retto l’impazienza, è salita in macchina, è corsa verso A. Ora sono tornato sull’autostrada dall’altro lato, corro verso A anch’io. Tutte le macchine che sorpasso potrebbero essere Y, oppure tutte le macchine che mi sorpassano. Sulla corsia opposta tutte le macchine che avanzano in senso contrario potrebbero essere Z, l’illuso. Oppure: anche Y si è fermata a una stazione di servizio, ha telefonato a casa mia ad A, non trovandomi ha capito che io stavo venendo a B, ha invertito la direzione di marcia. Ora stiamo correndo in direzioni opposte, allontanandoci, e la macchina che sorpasso o che mi sorpassa è quella di Z che anche lui a metà strada ha provato a telefonare a Y…

Tutto è ancora più incerto ma sento d’avere ormai raggiunto uno stato di tranquillità interiore: finché potremo controllare i nostri numeri telefonici e non ci sarà nessuno a rispondere continueremo tutti e tre a scorrere avanti e indietro lungo queste linee bianche, senza luoghi di partenza o di arrivo che incombano gremiti di sensazioni e significati sulla univocità della nostra corsa, liberati finalmente dallo spessore ingombrante delle nostre persone e voci e stati d’animo, ridotti a segnali luminosi, solo modo d’essere appropriato a chi vuole identificarsi a ciò che dice senza il ronzio deformante che la presenza nostra o altrui trasmette a ciò che diciamo.

Certo il costo da pagare è alto ma dobbiamo accettarlo: non poterci distinguere dai tanti segnali che passano per questa via, ognuno con un suo significato che resta nascosto e indecifrabile perché fuori di qui non c’è più nessuno capace di riceverci e d’intenderci.

1967.

Italo Calvino

Gli amori difficili (1970)



domenica 18 aprile 2021

Italo Calvino / L’avventura di due sposi

 



Italo Calvino
L’avventura di due sposi

L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. 
Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull’acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. 
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: 
– Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. 
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già anda va su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. 
Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti igiorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava.

***

Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera. 
Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: 
– Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. 
Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. 
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le
desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. 
Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. 
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. 
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.

Da: Italo Calvino, L’avventura di due sposi, in I racconti, Einaudi,Torino, 1976



giovedì 15 aprile 2021

Italo Calvino / L’avventura di una bagnante

 


Italo Calvino
L’avventura di una bagnante

Italo Calvino / La aventura de una bañista


Facendo il bagno alla spiaggia di ***, alla signora Isotta Barbarino capitò un increscioso contrattempo. Nuotava al largo, e quando, parendole tempo di tornare, si girò verso riva, si accorse che un fatto senza rimedio era accaduto. Aveva perso il costume da bagno.

Non poteva dire se le fosse caduto proprio allora, o se già da un po’ stesse nuotando senza; del nuovo duepezzi che portava, le restava solo il reggiseno. A un movimento dell’anca dovevano esserle saltati via certi bottoni, e lo “slip”, ridotto a uno straccetto informe, le era scivolato giù dall’altra gamba. Forse stava ancora affondando a pochi palmi sotto di lei; provò a calarsi sott’acqua per cercarlo, ma il respiro le mancò subito e solo confuse ombre verdi le baluginavano allo sguardo.


Soffocò l’ansia che le cresceva dentro, cercò di ordinare con calma i suoi pensieri. Era mezzogiorno, c’era gente in giro per il mare, sui sandolini e sui pattini, o a nuoto. Lei non conosceva nessuno; era arrivata lì il giorno prima, col marito che aveva dovuto subito far ritorno in città. Adesso non c’era altra via, la signora pensò, e si meravigliò del suo stesso nitido e tranquillo ragionare, che trovare tra queste la barca di un bagnino, che ci doveva pur essere, o d’una persona che comunque ispirasse fiducia, e chiamarla, omeglio avvicinarla, e riuscire a chiedere insieme aiuto e discrezione.

Queste cose la signora Isotta le pensava stando a galla quasi raggomitolata, annaspando, senz’osare di guardarsi intorno. Emergeva solo col capo e inavvertitamente abbassava il viso verso il pelo dell’acqua, non per frugarne il segreto ormai dato per inviolabile, ma con un gesto come chi strofina le palpebre e le tempie contro il lenzuolo o il guanciale per ricacciare le lacrime chiamate da un pensiero notturno. Ed era un vero incombere di lacrime, che le premeva gli angoli degli occhi, e forse quell’accenno istintivo del capo era proprio per asciugare nel mare queste lacrime: ecco com’era sconvolta, ecco quale divario c’era in lei tra ragionamento e sentimento. Non era calma, dunque: era disperata. Dentro a quel mare immobile, trascorso a lunghi intervalli da un’appena accennata gobba d’onda, si teneva immobile lei pure, non più con lente bracciate ma solo con un supplichevole moto delle mani a mezz’acqua, e il segno più allarmante della sua condizione, forse nemmeno da lei intuito, era quest’avarizia di forze che le veniva fatto d’osservare, quasi l’attendesse un tempo lunghissimo e sfibrante.


Il costume a due pezzi l’aveva messo quella mattina per la prima volta, e sulla spiaggia, in mezzo a tanti sconosciuti, le sembrò la facesse stare un po’ a disagio. Invece, appena in acqua, si sentì contenta, più libera nei movimenti e con più voglia di nuotare. Alla signora piacevano i lunghi bagni al largo, ma il suo non era un piacere da sportiva, perché era un po’ pingue e pigra, e quello a cui teneva di più era la confidenza con l’acqua, il sentirsi parte di quel mare sereno. Il costume nuovo le diede proprio quell’impressione; anzi, la prima cosa che pensò nuotando fu proprio: “Mi sembra d’essere nuda”. L’unica molestia era il pensiero di quella spiaggia affollata, non per altro

ma perché le sue future conoscenze balneari da quel costume si sarebbero forse fatta un’idea di lei che in qualche modo avrebbero dovuto poi cambiare: non tanto un giudizio sulla sua serietà, ché ormai al mare andavano tutte così, ma il crederla, per esempio, sportiva, o molto alla moda, mentre lei in realtà era una signora davvero alla buona e casalinga. Era forse perché aveva già addosso questa sensazione si sé diversa dal solito, che non s’era accorta di nulla quando il fatto era successo. Ora quel disagio provato sulla spiaggia, e la novità dell’acqua sulla pelle nuda, e la vaga preoccupazione di dover ritornare tra i bagnanti, tutto era amplificato e inghiottito dal nuovo e ben più grave suo sbigottimento.


Quel che mai avrebbe voluto guardare era la spiaggia. E la guardò. Suonava mezzogiorno, e sulla sabbia gli ombrelloni a cerchi neri e gialli concentrici gettavano ombre nere in cui i corpi s’appiattavano, e il brulichio dei bagnanti traboccava in mare e nessuno dei pattini era più a riva, e appena uno tornava era preso d’assalto prima ancora di toccar terra e l’orlo nero della distesa azzurra era mosso da un continuo schizzare di getti bianchi, specie dietro le corde dove ribolliva la marmaglia dei bambini e ad ogni blanda onda si levava un gridio con note subito inghiottite di boato. Al largo di quella spiaggia, lei era nuda.


Nessuno l’avrebbe sospettato, vedendo solo la sua testa sporgere dall’acqua e un po’ le braccia e il petto, mentre nuotava con circospezione, senza alzare mai il corpo in superficie. Pareva dunque compiere la sua ricerca d’un aiuto senza esporsi troppo. E per verificare quanto di lei s’intravedesse da occhi estranei, la signora Isotta ogni tanto si fermava e cercava di guardarsi, galleggiando quasi verticale. E con ansia vedeva nell’acqua i raggi del sole occhieggiare in limpidi mulinelli sottomarini, e mettere in luce alghe natanti e velocissimi sciami di pesciolini striati, e giù in fondo la sabbia ondulata, e quassù il suo corpo. Invano lei, avvitandolo a gambe serrate, tentava di nasconderlo allo stesso suo sguardo: la pelle del nitido ventre biancheggiava rivelatrice, tra il bruno del petto e delle cosce, e né il muovere d’un onda né il navigare a mezz’acqua d’alghe semi sommerse confondevano lo scuro e il chiaro del suo grembo. La signora riprese a nuotare in quella sua ibrida maniera, tenendo il corpo più basso che poteva, ma pur senza fermarsi, si voltava a guardare con la coda dell’occhio dietro le spalle: e a ogni bracciata tutta la bianca ampiezza della sua persona ecco appariva al giorno nei contorni più riconoscibili e segreti. E lei ad affannarsi, a cambiare modo e senso del nuoto, e si girava nell’acqua, s’osservava in ogni inclinazione e in ogni luce, si contorceva su se stessa; e sempre quest’offensivo nudo corpo le veniva dietro. Era una fuga dal suo corpo, che lei stava tentando, come da un’altra persona che lei, signora Isotta, non riusciva a salvare in un difficile frangente, e più non le restava che abbandonare alla sua sorte. Eppure questo corpo così ricco e innascondibile era ben stato una sua gloria, un suo motivo di compiacimento; solo una contraddittoria catena di circostanze in apparenza sensate poteva farne ora una ragione di vergogna. Oppure no, forse sempre la sua vita consisteva solo in quella della signora vestita che lei era anche stata in ciascuno dei suoi giorni, e la sua nudità le apparteneva così poco, era un inconsulto stato della natura che si rivelava di tempo in tempo destando meraviglia negli esseri umani e in lei per prima. Ora la signora Isotta ricordava che anche sola o in confidenza col marito aveva sempre accompagnato il suo essere nuda con un’aria di complicità, d’ironia tra impacciata e grottesca, come se temporaneamente indossasse dei camuffamenti gioiosi ma spropositati, per una specie di segreto carnevale tra sposi. Ad avere un corpo la signora s’era abituata con un po’ di riluttanza dopo i primi delusi anni romantici, e se n’era investita come chi apprende di poter disporre d’una proprietà da molti ambita. Ora, la coscienza di questo suo diritto, rispariva tra le antiche paure, nell’incombere di quella spiaggia urlante.

Passato il mezzogiorno, tra i bagnanti dispersi in tutto il mare cominciava un riflusso verso riva; era l’ora del pranzo alle pensioni, delle colazioni davanti alle cabine, e pure l’ora in cui si gode la sabbia più rovente sotto il sole verticale. E carene di barche e galleggianti di pattini passavano vicini alla signora, e lei studiava i visi degli uomini a bordo, e talora faceva per decidersi a muovere loro incontro; ogni volta il baleno d’uno sguardo tra le loro ciglia, o l’accenno a uno scatto angoloso delle spalle o dei gomiti, la mettevano in fuga, con bracciate falsamente disinvolte, la cui calma mascherava una stanchezza già gravosa. Quelli in barca, soli o in banda, ragazzi tutti infervorati nell’esercizio fisico, o signori dalle pretese scaltre e dallo sguardo insistente, incontrando lei spersa nel mare col viso col viso compunto che non nascondeva una trepida ansia supplichevole, con la cuffia che le dava una bambolesca espressione lievemente permalosa, e con le spalle soffici annaspanti attorno incerte, subito uscivano dal loro nirvana assorto o scalmanato, e quelli in compagnia se l’indicavano con mosse del mento o ammicchi, e quelli soli frenando con un remo viravano con intenzione le prue per tagliarle la strada. Al suo bisogno di confidenza rispondeva quest’ergersi di siepi di malizia e sottinteso, un roveto di pupille pungenti, d’incisivi scoperti in risi ambigui, di repentine soste interrogative dei remi a fior d’acqua; ed a lei non restava che fuggire. Qualche nuotatore passava dando dentro all’acqua con testate cieche e camuse, e sbuffando zampilli senza alzare lo sguardo; ma la signora diffidava di loro e li sfuggiva. Difatti, pur passandole al largo, i nuotatori presi da improvvisa stanchezza si lasciavano andare a fare il morto e a sgranchirsi le gambe in uno sciacquio insensato, e giravano lì intorno, finché lei andandosene non mostrava il suo disdegno. Ecco che questa rete d’allusioni obbligatorie era già tesa intorno a lei, come l’aspettasse al varco, come se ognuno di questi uomini da anni fantasticasse d’una donna cui doveva capitare quel che era capitato a lei, e passasse le estati al mare sperando di essere lì al momento buono. Non c’era scampo, il fronte delle preordinate insinuazioni maschili s’estendeva a tutti gli uomini, senza brecce possibili, e quel salvatore che lei s’era ostinata a sognare come un essere il più possibile anonimo, quasi angelico, un bagnino, un marinaio, era sicura ormai che non potesse esistere. Il bagnino che vide passare, certo l’unico che con un mare tanto calmo girasse in barca a prevenire possibili disgrazie, aveva labbra così carnose e muscoli così fusi coi nervi che lei non si sarebbe mai sentita il coraggio d’affidarsi alle sue mani, fosse pure – pensò addirittura nell’eccitazione del momento – per fare aprire una cabina o piantare un ombrellone.


Nelle sue deluse fantasie, le persone cui aveva sperato di potersi rivolgere erano sempre uomini. Non aveva pensato alle donne, eppure con queste tutto doveva essere più semplice; una specie di solidarietà femminile si sarebbe certo mossa, in quella congiuntura così grave, in quell’ansia che solo una di loro poteva capire fino in fondo. Ma le comunicazioni con le persone del suo stesso sesso avevano occasioni più rare e incerte, al contrario della facilità pericolosa degli incontri con gli uomini , e una diffidenza questa volta reciproca le ostacolava. Il più delle donne passavano sui pattini in coppia con un uomo, gelose e inaccessibili, e cercavano il largo, dove quel corpo di cui lei soffriva solo l’onta passiva, era per loro l’arma di una lotta aggressiva e calcolabile. Qualche barca s’avanzava gremita di giovanette pigolanti e accaldate, e la signora pensava alla distanza tra l’infima volgarità della sua pena e la volatile spensieratezza loro; pensava a quando avrebbe dovuto ripetere loro il suo appello perché la prima volta certo non l’avrebbero intesa; pensava ai mutamenti dei loro visi alla notizia; e non sapeva risolversi a chiamarle. Passò pure una bionda abbronzata sola in sandolino, piena di sufficienza e d’egoismo, e certo andava al largo per far la cura del sole tutta nuda, e nemmeno la sfiorava il pensiero che quella nudità potesse essere una disgrazia o una condanna. La signora Isotta s’accorse allora di come la donna sia sola, di come tra le sue simili sia rara (forse spezzata dal patto stretto con l’uomo) la bontà solidale e spontanea, che previene gli appelli e che le affianca a un cenno d’intesa nel momento della disgrazia segreta che l’uomo non comprende. Mai le donne l’avrebbero salvata: e le mancava l’uomo. Si sentiva all’estremo delle forze.


Una piccola boa di color ruggine, presa fin allora d’assalto da un grappolo di ragazzi tuffatori, tutt’a un tratto, a un tuffo generale, restò sgombra. Vi si posò un gabbiano, sventagliò con le ali, e volò via, perché la signora Isotta s’afferrava all’orlo. Annegava, se non riusciva ad aggrapparsi in tempo. Ma neanche la morte era possibile, neanche questo ingiustificabile, sproporzionato rimedio le si lasciava; perché già stava per venir meno e non riusciva a sollevare il mento trascinato verso l’acqua, quando aveva visto un rapido drizzarsi d’uomini sulle imbarcazioni intorno, pronti a tuffarsi in suo soccorso: erano lì solo per salvarla, per portarla nuda e svenuta tra le domande e le occhiate d’un pubblico curioso, e il suo pericolo di morte non avrebbe sortito che l’esito ridicolo e vile cui invano lei tentava di sfuggire.


Dalla boa, guardando i nuotatori e i rematori che sembravano riassorbiti a poco a poco dalla riva, ricordava le stanchezze meravigliose di quei ritorni; e i richiami che udiva da un’imbarcazione all’altra: - Ci rivedremo a riva! – o: - Facciamo a chi torna prima! – la riempivano d’un’invidia sconfinata. Ma le bastò notare un uomo magro, con certe lunghe brache, unico rimasto in mezzo al mare, ritto in piedi su una ferma barca a motore, che guardava chissà cosa nell’acqua, e subito quella voglia di ritorno le si rintanò nella paura d’essere vista, nell’ansia di nascondersi dietro la boa.


Era lì ormai non ricordava più da quanto: già la spiaggia sfollava, e la fila dei pattini s’era ridisposta in secco, e degli ombrelloni ammainati uno a uno restava solo un cimitero di pertiche mozze, e i gabbiani volavano a fior d’acqua, e nella motobarca ferma era scomparso l’uomo magro e al suo posto una testa stupefatta di ragazzetto riccio si sporgeva dal bordo; e sul sole passò una nuvola spinta da un vento appena sveglio incontro a un cumulo addensato sopra i monti. La signora pensava a quell’ora vista dalla terra, ai pomeriggi cerimoniosi, al destino di modesto decoro e di gioie rispettose che credeva predisposto per lei ed alla incongruenza spregevole che sopravveniva a contraddirlo, come il castigo di una colpa non commessa. Non commessa? Ma forse quel suo abbandono balneare, quella sua voglia di nuotare da sola, quell’allegria del proprio corpo nel costume a due pezzi scelto con troppa spavalderia, non erano i segni di una fuga iniziata da tempo, la sfida a una inclinazione al peccato, le tappe di una folle corsa a quello stato di nudità che ora le appariva in tutto il suo misero pallore? E la consorteria degli uomini, in mezzo ai quali lei credeva di trascorrere intatta come una grossa farfalla, fingendo una complice disinvoltura bambolesca, ecco svelava le sue crudeltà fondamentali, la sua duplice essenza diabolica, come presenza d’un male da cui lei non s’era abbastanza premunita, e insieme come strumento d’esecuzione della pena.


Aggrappata ai bulloni della boa coi polpastrelli esangui cui il prolungato stare in acqua dava ondulati rilievi, la signora si sentiva messa al bando dal mondo intero, e non capiva perché questa nudità che tutti portano con sé da sempre, bandisse ora lei sola, come fosse la sola a essere nuda, l’unica creatura che potesse restare nuda sotto il cielo. E sulla barca a motore alzando gli occhi vide ora insieme uomo e ragazzo ambedue in piedi che facevano verso di lei gesti come per dire che doveva restar lì, che era inutile affannarsi. Erano seri e compresi, i due, al contrario d’ogni altro prima, come se le annunciassero un verdetto: doveva rassegnarsi, era stata scelta lei per pagare per tutti; e se gesticolando tentavano una specie di sorriso, era senz’ombra di malizia: forse un invito a accettare la sua pena di buon grado.


Subito la barca partì, veloce più di quanto si potesse supporre e i due badavano al motore e alla rotta e non si voltarono più verso la signora che provava a sua volta a sorridere loro, come a dimostrare che se di nient’altro la si accusava che d’essere fatta a questo modo caro e geloso a ognuno, se le toccava d’espiare solo questa nostra un po’ goffa tenerezza di forme, ebbene lei ne avrebbe accettato su di sé tutto il peso, contenta.


La barca coi suoi moti misteriosi, e quel confuso groppo di ragionamenti l’avevano tenuta in tale timoroso stupore che tardò ad accorgersi del freddo. Una dolce pinguedine permetteva alla signora Isotta certi bagni lunghi e gelidi che riempivano di meraviglia marito e familiari, gente magra. Ma troppo tempo era restata immersa, e il sole era offuscato, e la sua liscia pelle si sollevava in grani puntiformi, e un lento ghiaccio s’impadroniva del suo sangue. Ecco, in quei brividi che la scuotevano, Isotta si riconobbe viva, e in pericolo di morte, e innocente. Perché quella nudità che le era a un tratto come cresciuta addosso, lei l’aveva sempre accettata non come una sua colpa ma come la sua innocenza ansiosa, come la fraternità segreta con gli altri, come carne e radice del suo essere al mondo, e loro invece, gli scaltri dei sandolini e le impavide degli ombrelloni, che non l’accettavano, che l’insinuavano come un reato, come un capo d’accusa, solo loro erano i colpevoli. Non voleva pagare per loro, e si contorse avvinghiata alla boa battendo i denti e con le guance in lacrime... E laggiù dal porto la motobarca ritornava, veloce più ancora di prima, e a prua il ragazzo sollevava una stretta vela verde: una sottana!


Quando la barca fermò vicino a lei, e l’uomo magro le porse una mano perché salisse a bordo, e con l’altra si tappò gli occhi sorridendo, la signora era già così lontana dalla speranza di qualcuno che la salvasse, e il giro dei suoi pensieri era arrivato così distante, che per un momento non riuscì a collegare i sensi al ragionare e ai gesti, e alzò la mano verso quella tesa dell’uomo prim’ancora di capire che non era un’immaginazione sua, ma che quella motobarca c’era davvero, ed era venuta proprio in suo soccorso. Capì, e a un tratto tutto diventò perfetto ed immancabile, e i pensieri, il freddo, la paura erano dimenticati. Da pallida, venne rossa come il fuoco, ed ora ritta sulla barca s’infilava quella veste mentre l’uomo e il ragazzo voltati verso l’orizzonte guardavano i gabbiani.


Avviarono il motore e lei seduta a prua in una gonna verde a fiori arancione vide sul fondo della barca la maschera per la pesca subacquea e seppe come i due avevano capito il suo segreto. Il ragazzo, nuotando sott’acqua con la maschera e la fiocina, l’aveva vista e aveva avvertito l’uomo che era sceso pure lui a vedere. Poi le avevano fatto cenno di aspettarli, senz’essere capiti, ed erano filati al porto a procurarsi un vestito dalla moglie d’un pescatore.


I due sedevano a poppa con le mani sui ginocchi e sorridevano: il ragazzo, un riccio sugli otto anni, era tutt’occhi, con uno stupefatto sorriso da puledro; l’uomo, una testa ispida e grigia, un corpo rosso mattone dai muscoli lunghi, aveva un sorriso lievemente triste, con una sigaretta spenta appiccicata al labbro. Alla signora Isotta venne in mente che forse i due guardandola vestita cercavano di ricordarsela come l’avevano vista sott’acqua; ma non se ne sentì a disagio. In fondo, dovendo pur qualcuno vederla, era contenta che fossero stati proprio quei due lì; ed anche che ne avessero provato curiosità e piacere. Per arrivare alla spiaggia l’uomo conduceva la motobarca costeggiando il molo e i quartieri del porto e gli orti in riva al mare; e chi guardava da terra certo credeva che quei tre fossero una famigliola che faceva ritorno in barca come ogni sera dalla pesca. Alla banchina s’affacciavano le grigie case dei pescatori, con rosse reti tese addosso a corti pali, e dalle barche attraccate qualche giovanotto alzava pesci color piombo e li passava a ragazze ferme con ceste quadrate dal basso orlo puntate all’anca, e uomini con minuscoli orecchini d’oro seduti in terra a gambe distese cucivano reti interminabili, e in certe nicchie bollivano mastelli di tannino per ritingerle, e muretti di pietre dividevano piccoli orti sul mare dove le barche giacevano a fianco delle canne dei semenzai, e donne con la bocca piena di chiodi aiutavano i mariti sdraiati sotto la chiglia a riparare falle, o su ogni casa rosa una tettoia copriva i pomodori spaccati in due e messi a seccare col sale su un graticcio, e ai piedi delle piante d’asparago i figlioli cercavano lombrichi, e certi vecchi con un soffietto davano dell’insetticida ai loro nespoli, e i meloni gialli crescevano sotto foglie striscianti, e le donne anziane friggevano nelle padelle calamaretti e polipi oppure fiori di zucca nella farina, e s’alzavano prue di pescherecci in cantiere odorosi di legno appena tolto dalla pialla, e una rissa tra ragazzi calafati era sorta con minacce di pennelli neri di catrame, e lì cominciava la spiaggia con piccoli castelli e vulcani d’arena abbandonati dai bambini.


Alla signora Isotta, seduta in motobarca con quei due, in quell’esagerato vestito verde e arancione, sarebbe pure piaciuto che il viaggio continuasse ancora. Ma la barca puntava già la prua verso la riva, e i bagnini portavano via le sedie a sdraio, e l’uomo s’era chinato sul motore voltandole le spalle: le spalle rosso mattone, traversate dalle nocche della spina dorsale, su cui la pelle dura e salata scorreva come mossa da un sospiro.


1951.


Italo Calvino da “Gli amori difficili”