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sabato 5 dicembre 2015

Joël Dicker / «Papà, vado in guerra» / Estratto

Esce il romanzo d’esordio 

di Joël Dicker: «Papà, vado in guerra»


Nell’opera prima dell’autore bestseller de «La verità sul caso Harry Quebert»
un ragazzo sceglie di combattere i nazisti e si arruola nelle forze speciali inglesi


di JOËL DICKER




Pubblichiamo un estratto de «Gli ultimi giorni dei nostri padri» (Bompiani), il primo romanzo dell’autore svizzero. Il libro ha vinto nel 2010 il Prix des écrivains genevois ed è stato pubblicato in Francia nel 2012. Joël Dicker è diventato popolare grazie al thriller «La verità sul caso Harry Quebert», bestseller internazionale pubblicato in Italia nel 2013

Che tutti i padri del mondo, al momento di lasciarci, sappiano quanto sarà grande il nostro pericolo senza di loro. / Ci hanno insegnato a camminare, ma non cammineremo più. / Ci hanno insegnato a parlare, ma non parleremo più. / Ci hanno insegnato a vivere, ma non vivremo più. / Ci hanno insegnato a diventare Uomini, ma non saremo più neanche Uomini: non saremo più niente.


Seduti nell’alba, fumavano, osservando il cielo nero che danzava sull’Inghilterra. Pal recitava la sua poesia. Nascosto nel buio, ripensava al padre. I mozziconi rosseggiavano nell’oscurità: avevano preso l’abitudine di andare a fumare su quella collinetta alle prime ore del mattino. Fumavano per tenersi compagnia; fumavano per non avvilirsi; fumavano per non dimenticare che erano Uomini. 
Gros, il ragazzone sovrappeso, frugava tra i rovi come un cane randagio, uggiolava scovando i topi nell’erba umida. Pal si arrabbiò: 
«Piantala, Gros! Oggi bisogna essere tristi!». 
Al terzo richiamo, il compagno smise e, imbronciato come un bambino, girò intorno al semicerchio formato dalla decina di figure e si sedette dal lato dei taciturni, tra Grenouille, il depresso, e Prunier, il balbuziente infelice che amava segretamente le parole. 
«A che pensi, Pal?» chiese Gros. 
«A un sacco di cose…». 
«Non pensare a cose brutte, pensa a cose belle». 
Con la mano grassa e paffuta, Gros cercò la spalla del compagno. 
Dallo scalone del vecchio maniero che si ergeva di fronte a loro, qualcuno li chiamò. Stava per iniziare l’addestramento. Tutti si affrettarono, ma Pal rimase seduto ancora un istante ad ascoltare i rumori ovattati dalla bruma. Ripensava a quand’era partito da Parigi. Lo faceva continuamente, ogni sera e ogni mattina — soprattutto la mattina. Erano passati due mesi esatti da quel giorno.


Era stato all’inizio di settembre, poco prima dell’autunno. Non aveva potuto trattenersi: bisognava difendere gli Uomini, difendere i padri. Difendere suo padre, anche se Pal aveva giurato di non abbandonarlo mai, il giorno in cui, qualche anno prima, il destino si era portato via la madre. Il figlio affettuoso e il vedovo solitario. Ma la guerra li aveva raggiunti, e il ragazzo, decidendo di andare a combattere, sceglieva di abbandonare il padre. Già in agosto aveva saputo che gli sarebbe toccato partire, ma non era stato in grado di dirglielo. Vilmente, aveva trovato il coraggio dell’addio solo il giorno prima della partenza, quando avevano finito di cenare.
«Perché proprio tu?» si era rammaricato il padre. 
«Perché se non lo farò io, non lo farà nessuno». Con gli occhi gonfi d’amore e di dolore, il vecchio aveva abbracciato il figlio per fargli coraggio. Poi, chiuso in camera, aveva pianto per tutta la notte. Piangeva per la tristezza, ma sapeva che quel ragazzo di ventidue anni era il più coraggioso dei figli. Pal era rimasto davanti alla porta della stanza ad ascoltare i suoi singhiozzi. E, all’improvviso, si era odiato per essere la causa di tutto quel dolore, si era odiato al punto di colpirsi il torace con la punta del temperino fino a sanguinare. In uno specchio aveva guardato il proprio corpo ferito, si era insultato e aveva scavato ancora la carne all’altezza del cuore, per far sì che la cicatrice restasse per sempre. 
L’indomani, all’alba, muovendosi in vestaglia per l’appartamento, stravolto dal dolore, il padre gli aveva preparato del caffè forte. Pal si era seduto al tavolo della cucina, vestito di tutto punto, e aveva bevuto il liquido scuro lentamente, per ritardare il momento della partenza. Non avrebbe mai più bevuto un caffè migliore di quello. «Hai preso gli indumenti adatti?» aveva chiesto il vecchio, indicando la sacca che il figlio stava per portare con sé. 
«Sì». 
«Fammi vedere. Ti serviranno vestiti caldi, l’inverno sarà molto rigido». 
Il vecchio aveva aggiunto al bagaglio qualche altro capo, un salame, un pezzo di formaggio e del denaro. Poi aveva svuotato e riempito la sacca per tre volte di seguito. «Voglio rifarla meglio», ripeteva al termine dell’operazione, cercando di ritardare l’inesorabile destino. Quando non gli era rimasto nient’altro da fare, si era lasciato prendere dall’angoscia e dalla disperazione. 
«Che ne sarà di me?» aveva chiesto. 
«Tornerò presto». 
«Avrò molta paura per te!». 
«Non devi…». 
«Avrò paura tutti i giorni!».
Finché il figlio non fosse tornato, lui non avrebbe più mangiato né dormito: sì, sarebbe diventato il più infelice degli Uomini. 
«Mi scriverai?».
«Certo, papà».
«E io ti aspetterò sempre». 
Poi aveva stretto forte il figlio a sé. 
«Devi continuare a studiare», aveva aggiunto. 
«L’istruzione è importante. Se gli uomini fossero meno ignoranti, non ci sarebbe la guerra». 
Pal aveva annuito. 
«Se gli uomini fossero meno stupidi, non ci troveremmo in questa situazione». 
«Sì, papà». 
«Ti ho messo dei libri nella sacca…».
«Lo so». 
«I libri sono importanti». 
A quel punto, il padre aveva afferrato il figlio per le spalle, furiosamente, in un impeto di rabbia disperata. 
«Promettimi che non morirai!». 
«Te lo prometto». 
Pal aveva preso la sacca e aveva abbracciato il vecchio. Un’ultima volta. E, sulla soglia, il padre l’aveva trattenuto ancora: 
«Aspetta! Dimentichi la chiave! Come fai a tornare se non hai la chiave?». 
Il ragazzo non la voleva: chi non torna più, non si porta la chiave. Per non dispiacere il padre, aveva semplicemente mormorato: 
«Rischierei di perderla». 
Il vecchio tremava.
«Certo! Sarebbe seccante… Ma come faresti a tornare? Allora, guarda: la metto sotto lo stuoino. Guarda dove la sistemo sotto lo stuoino, proprio qui, vedi? Questa chiave la lascerò sempre qui, per quando tornerai». 
Rifletté per qualche istante. «E se qualcuno se la portasse via? Mmm... Avviserò la portinaia, lei ha un duplicato. Le dirò che sei partito e che non deve lasciare la guardiola quando io non sono in casa, così come io non uscirò in sua assenza. Sì, le dirò di stare bene attenta. Le darò una mancia…». 
«Non dire niente alla portinaia».
«Come vuoi… Allora non chiuderò più la porta a chiave, né di giorno né di notte né mai. Così non ci sarà nessun rischio che tu non possa rientrare». C’era stato un lungo silenzio. 
«Arrivederci, figlio mio», aveva detto il vecchio. 
«Arrivederci, papà», aveva replicato il ragazzo. 
Pal aveva aggiunto in un soffio: «Ti voglio bene, papà», ma il padre non l’aveva sentito.

20 novembre 2015 (modifica il 21 novembre 2015 | 15:45)

sabato 3 ottobre 2015

Joël Dicker / «Il nuovo libro mi sveglia all’alba»





L’INTERVENTO DEL ROMANZIERE SVIZZERO, 
OSPITE DEL FESTIVAL LA MILANESIANA 2015

«Il nuovo libro mi sveglia all’alba»
Joël Dicker e il successo 
dopo cinque romanzi rifiutati


«Per vivere appieno la scrittura bisogna tramutarla in un’ossessione positiva»

di JOËL DICKER

Ho sempre avuto delle ossessioni. Dei tic, delle fissazioni, dei rituali e perfino delle superstizioni. Non toccare le commessure delle lastre sul marciapiede, contare i gradini delle scale, camminare solo sulle linee gialle, o non camminarci affatto. Se con la bici riesco a superare il tram, sarà una bella giornata. Se il semaforo diventa rosso prima che io superi l’incrocio, sarà una brutta giornata. Alzarmi all’alba per cominciare bene la giornata, ascoltare musica prima di mettermi a scrivere, scrivere a mano anziché col computer quando mi sento bloccato su un testo. 
Queste piccole manie sono le mie ossessioni. Hanno tutte una cosa in comune: a voi possono sembrare futili o addirittura incomprensibili, per me sono piene di senso. Per me sono una sfida, un gioco, e soprattutto sono ciò che mi fa andare avanti. Perché senza le mie ossessioni non sarei niente. E dietro l’aspetto giocoso che rallegra la mia quotidianità, l’ossessione può assumere l’aspetto di una voglia, di un sogno che voglio fare di tutto per realizzare.

In questo campo il caso più emblematico è la scrittura. A vent’anni, per la prima volta, mi dissi che volevo scrivere un romanzo. Mi ero appena iscritto alla facoltà di diritto dell’Università di Ginevra, e devo dire che mi annoiavo un po’. Mi sfidai a scrivere un romanzo, e questa sfida divenne un’ossessione quando, dopo un anno, il mio manoscritto venne rifiutato da tutti gli editori cui l’avevo spedito. Allora mi dissi che non potevo bloccarmi su un fallimento e che avrei continuato a scrivere finché non fossi stato pubblicato almeno una volta. Perciò mi rimisi subito al lavoro e scrissi un secondo romanzo. Lo spedii di nuovo ad alcuni editori, i quali di nuovo lo rifiutarono. Allora scrissi un terzo romanzo, che di nuovo venne rifiutato da tutti gli editori. Scrissi un quarto romanzo, che di nuovo venne rifiutato da tutti gli editori. Scrissi un quinto romanzo, che di nuovo venne rifiutato da tutti gli editori. Ma non potevo arrendermi: giurai a me stesso che avrei fatto di tutto per scrivere un romanzo che venisse accettato da una casa editrice. Allora ripresi le varie lettere di rifiuto che avevo ricevuto dagli editori e raccolsi tutti i minuziosi appunti che avevo preso sui miglioramenti necessari. E mi rimisi al lavoro. Ancora e ancora. E così iniziai a scrivere il mio sesto romanzo, La verità sul caso Harry Quebert , che avrebbe avuto un enorme successo. 
Quando racconto la storia dei miei romanzi, spesso mi chiedono se conto di pubblicare i romanzi precedenti, e io rispondo sempre di no. Per me sono stati il percorso indispensabile e ossessivo dell’apprendistato narrativo. Non avrebbe alcun senso pubblicarli, non adesso.

Questo modo ossessivo, quasi bulimico, di lavorare mi accompagna in gran parte dei miei progetti e delle mie voglie. È in questo modo che mi sono lanciato nello sport e soprattutto nel jogging. Un giorno, andando a correre con mio cugino e rendendomi conto delle mie scarsissime capacità, decisi che dovevo a tutti costi dedicarmi allo sport seriamente. Cominciai ad alzarmi prestissimo la mattina per andare a correre e diventare un atleta migliore fino a diventare un atleta ossessivo. 

Per me c’è un nesso diretto tra l’ossessione e l’alba. Parto dal presupposto che un’attività possa trasformarsi in ossessione solo se praticata in orari scomodi, soprattutto la mattina prestissimo. Ho cominciato con il jogging all’alba, adesso mi alzo sistematicamente all’alba per scrivere e lavorare. In questi ultimi mesi, il mio romanzo mi costringe a svegliarmi alle 4.30 del mattino. Adoro la sensazione speciale del cielo ancora buio, come se si superasse la notte svegliandosi prima di lei. Adoro vedere la città ancora addormentata. Ho l’impressione di rubare tempo al tempo. È in questi momenti che l’ossessione raggiunge il massimo della bellezza: quando trascende la nostra nozione del tempo. È in questo momento che tutto diventa possibile.

Mi sarebbe piaciuto essere un ricercatore o un matematico. Avere un ufficio disordinato in un’università e una lavagna piena di formule scritte col gessetto.Penso di ritrovare una sensazione molto simile nella scrittura di un romanzo. Farmi assorbire dal mio progetto tanto da perdere la nozione del tempo e del prossimo. Finché l’equazione non sarà risolta, non ci sarà riposo possibile, e anche se mi legassero a forza in un letto, il mio cervello continuerebbe a lavorare. E se mi costringeranno a dormire, il mio progetto lo continuerò nei sogni. È ovunque, è sempre, è incessante. È ossessivo. 

L’ossessione supera la passione. È l’ultimo stadio, è la cima della piramide. La passione ci spinge a intraprendere qualcosa in maniera ossessiva. Alcuni considerano l’ossessione in maniera negativa, io la considero indispensabile alla riuscita. Ha i difetti del perfezionismo, ma il perfezionista ossessivo sublima il perfezionismo stesso, tendendo a eliminarne gli aspetti negativi. 

Spesso le persone mi chiedono cosa debbano fare per scrivere un romanzo. Io rispondo che devono averne l’ossessione. Più che l’aspirazione, più che la voglia, più che il desiderio, più che la passione.

Ovviamente i medici, e in particolar modo gli psichiatri, vi illustreranno l’ossessione dal punto di vista medico. E se aprite un dizionario, la definizione delle ossessioni fa tremare. Per il Petit Larousse, l’ossessione è «un’idea spesso assurda e impropria che nasce nella coscienza e la assedia». Ossessioni e compulsioni. Ossessioni ideative, con annesse idee ossessive. Ossessioni fobiche, con annesse carovane d’angosce. Ossessioni compulsive, con annessa paura di commettere azioni turpi. 

Che bella idea farsi assediare dalle idee! Lasciamo che le idee ci ossessionino, per realizzarle quando ci piacciono. E non lasciamoci ossessionare da idee che non ci appassionano. Perché, come dicevo prima, diversamente dalla triste definizione che i dizionari danno dell’ossessione, nella bellezza dell’ossessione c’è di che sublimare i nostri desideri e le nostre passioni. Perché bisogna avere l’ossessione delle proprie ossessioni. Bisogna selezionarle, averne cura, affinarle, abbellirle. Io le mie ossessioni le voglio belle, le voglio utili, le voglio divertenti. Bisogna essere esigenti con l’ossessione! Che senso ha amare l’ossessione se è insulsa?

Infine bisogna ricordarsi di dimenticare di avere l’ossessione delle ossessioni. Dimenticare di alzarsi, dimenticare di lavorare, dimenticare le proprie manie, i propri tic, le proprie fissazioni, i propri rituali. Attraversare la strada senza preoccuparsi delle linee gialle per terra, non contare i gradini delle scale. Dimenticare le proprie passioni almeno per un giorno, una notte, una sera. Ritrovare il proprio marito, la propria moglie, i propri amici. Amare, essere amati. Respirare. Non fare niente. Lasciare che l’ossessione si riposi, per ritrovarla ancora più bella l’indomani. Non abbiate paura di lasciare un po’ a spasso la vostra ossessione: non va mai molto lontano.

23 giugno 2015 (modifica il 5 agosto 2015 | 20:17)