sabato 23 settembre 2023

Pablo Neruda / Il tuo sorriso

Julia Brinkfrau

 


Pablo Neruda

Il tuo sorriso 

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.

Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.

Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.

Amore mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchina
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.

Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.

Riditela della notte,
del giorno, delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.




domenica 17 settembre 2023

Marcel Schwob / Vite immaginarie

 




Marcel Schwob
VITE IMMAGINARIE


Corredato da splendide illustrazioni a colori dell'artista déco George Barbier, questa edizione delle "Vite immaginarie" di Schwob ha riproposto, a quasi cento anni dalla prima uscita, le ventidue esistenze (concrete e magiche insieme, storiche e fantastiche) di uomini e donne trasferiti dalla realtà al mito, e così eternizzati attraverso una scrittura elegante e classica, sobria e intensa, capace di resistere all'usura del tempo. Racconti che contrappongono (come intuisce giustamente Omar Austin nella prefazione) "una sostanziale fedeltà alla tradizione...al gusto di prendere in contropiede l'esattezza storica", perseguendo "l'emblematico e l'irripetibile, un che di astratto e bidimensionale, voluto e consapevole". I personaggi raccontati appartengono per lo più a un passato remoto: Empedocle ("figlio di se stesso"), Erostrato ("iracondo e vergine"), Cratete ("non si curava di nulla"), Lucrezio ("contemplò l'immenso formicolio dell'universo"), Clodia ("bella e ardente"), Petronio ("piccolo, scuro di pelle e guercio da un occhio"). Alcuni sono medievali: Fra Dolcino eretico ("un ignorante mosso dalla violenza"), Cecco Angiolieri ("povero e nudo come il lastricato d'una chiesa"). E poi pittori, soldati, meretrici, attori. Infine protagonisti di fiabe, come Pocahontas ("Aveva il viso assottigliato, zigomi stretti e grandi, dolcissimi occhi"), o diversi terribili e inconcludenti pirati. Raccontandoli, Schwob ci descrive particolari fisici e morali trascurabili, facendoli subito diventare essenziali e rivelatori, riuscendo a fare dell'effimero qualcosa di sostanziale e necessario. I disegni dai colori pastosi di Barbier accompagnano i testi con aderente creatività, con allusiva e discreta ironia. Un libro da conservare gelosamente.


Marcel Schwob

Marcel Schwob

Scrittore di grande eclettismo, Marcel Schwob (fratello di Maurice) fu filologo, romanziere, traduttore e drammaturgo.
È oggi considerato uno degli intellettuali più importanti della fine del XIX secolo.
Bordeggiò fra realismo e fantastico, tendendo verso un pantheon di modelli eccelsi: da J. Verne e Mark Twain a R.L. Stevenson, da Catullo a Rabelais e François Villon.
La sua vita fu breve, e segnata da varie malattie mai diagnosticate con precisione, oltre che da una sensibilità decisamente fuori dal comune.
La sua esistenza fu consacrata a compilare e comparare vite immaginarie.

Tra le sue tante amicizie, che diedero luogo ad altrettante corrispondenze, ricordiamo quelle con P. Daudet, P. Valery, A. Gide, A. Jarry e Stevenson, del quale divenne grande amico.
All’autore scozzese avrebbe dedicato diversi saggi, traducendone varie opere (nella corrispondenza si accenna a più riprese ad un progetto di messa in scena per Dr. Jeckill e mr. Hyde).
Dopo la morte di Stevenson, Schwob intraprese un viaggio a Samoa, con l'intenzione di rendere omaggio alla tomba dell’amico, senza tuttavia riuscire nell’intento.
Giunto in prossimità della meta, infatti, una polmonite aggravò le già precarie condizioni di salute, e Schwob fu costretto a ripartire per la Francia.
È questa, forse, la conclusione più coerente che la sua avventurosa vita di bibliomane potesse chiedere, una sorta di congedo alla vita in nome della sua grande passione per l’avventura, passione vissuta quasi esclusivamente attraverso i libri.
Dopo il grande successo delle Vite immaginarie, solo di recente sembra essersi risvegliato in Italia l’interesse per uno degli autori europei più apprezzati.


FELTRINELLI





venerdì 15 settembre 2023

Il biellese magico e misterioso: Dopo secoli manca una prova sicura sulla vera fine di Fra Dolcino

 

Il biellese magico e misterioso: Dopo secoli manca una prova sicura sulla vera fine di Fra Dolcino

  

Il biellese magico e misterioso: Dopo secoli manca una prova sicura sulla vera fine di Fra Dolcino


A cura di Roberto Gremmo
28 maggio 2017, 07:56

Il mistero Dolcino.

   Raniero Orioli nello studio più accurato e  documentato sul celebre eresiarca che nel Trecento mise a ferro e fuoco per mesi la Valsesia ed il Biellese orientale scrive giustamente che il suo fu “un episodio ereticale italiano, quanto mai anomalo ed unico nel suo genere; tanto unico e tanto anomalo che ancor oggi la storiografia non è riuscita a chiarire tutta la vicenda, a cogliere il pieno significato di certi aspetti, le reali motivazioni sottese a certi episodi, la dinamica di certi fatti”.

    Di Fra Dolcino non ci sono notizie sicure neanche sulla famiglia, sul luogo e sulla data della nascita perciò, in mancanza di fonti certe, la maggior parte degli studiosi é costretta a restar nel vago e questo ha costretto uno storico serio come il biellese Giulio Pavignano a scrivere di un vero e proprio “mistero delle origini”.

     Oscuro, e non poteva essere altrimenti, resta il periodo adolescenziale quando, probabilmente sedicenne, Dolcino non ancora “Frà” diventò ‘fratello’ e si legò alla setta degli Apostolici, una congrega mistica delirante, caratterizzata da un “millenarismo sociale, intriso di concezioni umanitarie”. Diventato il loro capo, il mistico predicatore sintetizzò nelle tre missive “Ad universos Christi fidelis” il suo pensiero.

    Altrettanto sconosciute le ragioni che lo spinsero con una compagnia di seguaci eterogenei prima sui monti del Trentino e poi della Valsesia dove, al culmine della propria esaltazione spirituale, cercò e trovò nella “Parete Calva” il luogo elevato dove tentò di creare dal niente una sorta di ‘Città di Dio’ in Terra.

    La sua schiera non comprendeva gente della montagna.

   Per poter sopravvivere in  qualche modo in condizioni ambientali cui erano poco avvezzi, Dolcino ed i suoi seguaci saccheggiarono i pochi beni delle popolazioni locali ed i valsesiani arrabbiati gli si rivoltarono contro.

    Lo studioso valsesiano Mario Tancredi Rossi descrisse le feroci razzie necessarie al sostentamento della massa comunitaria, ricorsa al saccheggio, perché “nelle stalle dei valligiani sono capre, pecore e vacche.

  Dolcino organizza le spedizioni predatrici. Spintasi una di queste fino a Varallo e saccheggiatala, il podestà della villa, un Brusati di Novara, tenta invano la vendetta ed è sconfitto ed ucciso”.

   L’ostilità della gente del posto costringe gli Apostolici alla fuga “di vetta in vetta” finché il 10 marzo 1306 s’avventarono su Trivero, feudo dei conti Bulgaro, dove l’esercito ribelle senza pietà “piomba sul paesetto addormentato, lungi dal sospettar sì vicino il predatore eresiarca e fa strage di abitanti e ruba tutte le vettovaglie e risale quindi il monte rebello, ch’egli ridurrà, con vera mente di condottiero geniale, un imprendibile campo trincerato ed una potente fortezza”.

   Di Dolcino resta oscuro anche il periodo in cui si trovò invischiato in un  occulto maneggio di nobili spregiudicati che tentarono di strumentalizzare il suo ardore e le sue indubbie capacità di guerrigliero.    

   Proprio Orioli ha giustamente sottolineato che vi fu un tempo in cui il movimento apostolico parve ridursi a “strumento della strategia viscontea per recuperare prestigio politico e territoriale dopo le batoste subite dall’azione congiunta dei Torriani e dei Guelfi lombardo-piemontesi”.

   I dolciniani vennero invece messi in scacco da una coalizione di capifamiglia paesani e di nobili vercellesi che li costrinsero ad arroccarsi in una indifendibile ridotta alpina quando il 7 settembre del 1306 papa Clemente V nel primo anno del suo pontificato ordinò personalmente da Bordeaux la repressione armata per estirpare la presenza di quei pericolosi dissidenti religiosi e ribelli sociali.

   Catturato dopo un lungo assedio sulle montagne del Triverese nei giorni della settimana santa dell’anno successivo, Dolcino venne giudicato dal potere politico, non dalla Chiesa e questo potrebbe voler dire che, ‘bolle papali’ a parte, i suoi vincitori non vollero sanzionare la sua stravagante dottrina né castigarlo per le ‘eresie’ professate e per l’eclettica predicazione (qualcuno direbbe ‘il libero pensiero’) ma  solo perché gli addebitavano fatti concreti come i saccheggi indiscriminati, le rapine, le ‘espropriazioni’, gli omicidi.

    La repressione ecclesiastica, tirata in ballo a sproposito da una certa storiografia politicizzata, proprio non c’entrava. Tuttavia chi ha esaminato la vicenda scevro da pregiudizi o alieno da spirito propagandistico non ha mancato di notare che “Non è dato sapere chi fu l’inquisitore di Dolcino”, precisando poi che “Neppure si sa con esattezza dove e come fosse celebrato il processo” ed infine constatando che “Sulle modalità e sul luogo dell’esecuzione, da sempre é aperta una viva disputa fra gli storici”.

    Scusate se é poco.

   Soprattutto, non conosciamo neanche il testo della sentenza.

   Anzi, non sono stati rinvenuti gli atti relativi ad un processo vero e proprio, neanche una tavola accusatoria, niente di niente, al punto che un ricercatore molto serio come Giulio Pavignano nel suo libro pubblicato dall’editore “Ieri e Oggi” si é sentito autorizzato a sospettare che un vero e proprio procedimento penale non ci sia neanche stato.

   Mancando del tutto la documentazione in merito, va da sé che non si sa con certezza quale fu davvero la pena cui venne condannato Dolcino.

  Morì su un vero e proprio rogo ?

   Si alzarono alte e cremisi le fiamme sulla pira fumante immortalata nelle tavole iconografiche che lo resero famoso dall’Ottocento romanticheggiante ed estetizzante in poi ? 

   Le poche e frammentarie fonti non lo affermano con certezza ed anche in merito alle modalità della morte di Dolcino i conti storiografici non tornano.

    Difforme dalle fonti più accreditate é ad esempio il racconto di Benvenuto da Imola che descrive a forti tinte il supplizio di Dolcino dentro le mura della città di Vercelli mentre stando all’”Anonimo sincrono” il luogo dell’esecuzione sarebbe stato lontano dalla città.

    Qualcosa non quadra.

  Ancor diversa, e non di poco, la versione fornita dal cosiddetto “Anonimo fiorentino” per cui “ Dolcino non si volle mai pentere, né confessare l’errore suo ché forse gli sarebbe stato perdonato, anzi dicea che se egli morisse risusciterebbe il terzo dì. Egli fu attanagliato, e fu di tanta costanza che mai si dolse, né fece vista che gli dolesse”.   

    Stranamente, non parla d’un rogo.

   Insomma, per l’imprecisione delle versioni giunte fino a noi, non v’é prova certa che il corpo dell’eretico sia poi finito tutto in cenere.  

    Se si fossero salvate, che fine potevano aver fatto le sue ossa, ‘pericolose’ e dotate d’un fascino macabro e misterioso ?

   Saremo grati a chi vorrà segnalarci realtà analoghe a quelle esaminate in questo articolo scrivendo a storiaribelle@gmail.

   Per conoscere meglio la vicenda di Fra Dolcino segnaliamo un libro pubblicato da Storia Ribelle casella postale 292 - 13900 Biella.

NEWSBIELLA



martedì 12 settembre 2023

Marcel Schwob / Decostruzione e montaggio per il Verosimile

 

Marcel Schwob



Marcel Schwob, decostruzione e montaggio per il Verosimile

SCRITTORI FIN DE SIÈCLE. Empedocle, Lucrezio, Paolo Uccello, Cecco, ma anche oscuri personaggi: Vite immaginarie di Marcel Schwob in una nuova traduzione commentata a cura di Luca Salvatore, per Feltrinelli


«L’arte del biografo dovrebbe consistere (…) nel dare lo stesso risalto alla vita d’un povero attore che a quella di Shakespeare». Questo passaggio, tratto dalla prefazione di Marcel Schwob alle Vies imaginaires, originariamente apparse presso Charpentier et Fasquelle nel 1896, rappresenta una chiara indicazione sui presupposti concepiti dall’autore per allestire questa raccolta di miniature che inaugurò il genere della finzione biografica, o biofiction, in cui si esercitarono alcuni dei più importanti scrittori novecenteschi, da Borges a Wilcock, da Kiš a Bolaño. Non è un caso che, anche in Italia, le versioni di questo libro non siano mancate: si ricordino quelle approntate da Irene Brin per Capriotti (1946) e Maria Teresa Escoffier per Longanesi (1954), oltre alle successive di Fleur Jaeggy per Adelphi (1972) e Nicola Muschitiello per la Bur (1994), solo per citare le più importanti. Nonostante ciò, Schwob ha avuto nel nostro paese una diffusione circoscritta, allineandosi a quel nucleo di autori irregolari che operarono durante la fin-du-siècle e che rimasero imprigionati entro le griglie di una generica adesione al tardo simbolismo o al decadentismo: Gourmont, Mirbeau, Lorrain, Régnier. Ma, a differenza di questi ultimi che, pur muovendosi a cavallo tra i due secoli, non si sono svincolati da un retaggio tipicamente ottocentesco, Schwob sembra prefigurare un’inquietudine che è già moderna, in virtù di uno stile polito come quello di una moneta romana passata attraverso innumerevoli cambi di mano e miracolosamente approdata sotto il nostro sguardo incantato.

È significativo che Schwob fosse il dedicatario di Ubu roi, la pièce teatrale predisposta da Jarry nello stesso anno di pubblicazione delle Vies imaginaires che si può configurare come una sorta di grimaldello per aprire le porte alle avanguardie storiche. Ci sarà un prima e un dopo Ubu, definito da Régnier «il Piranesi dei vespasiani». Senza Ubu non ci sarebbero stati i ready-made di Duchamp, le machines célibataires che lo stesso antesignano dell’arte concettuale ricavò da Raymond Roussel. Schwob aveva ricevuto la mitica prima edizione, con il famoso disegno in copertina di Ubu con testa allungata a forma di pera e asimmetrica gidouille in evidenza, in ben due esemplari con dedica manoscritta dell’autore, la seconda delle quali recita: «Questa copia del libro a lui dedicato è per Marcel Schwob, perché le sue opere sono tra quelle che noi ammiriamo da più tempo». D’altro canto, pur essendo indisposto, Schwob era presente alla prima dello spettacolo, a dir poco rocambolesco, tenutosi al Théâtre de l’Œuvre di Parigi, con regia di Lugné-Poë; tra gli spettatori c’erano anche Gide e Yeats. Inoltre, nel 1894, Valéry dedicò a Schwob nientemeno che l’Introduction à la méthode de Léonard de Vinci.

Ora Feltrinelli pubblica una nuova versione di Vite immaginarie («Universale Economica», pp. 304, € 11,00), ottimamente curata da Luca Salvatore che riesce nel difficile intento di inquadrare la portata storica di questo libro, coniugando precisione ed eleganza nella resa in italiano e nell’allestimento di apparati davvero imponenti. Le parole, come osserva Schwob in Spicilège, «non sono che segni, e segni di segni. Come noi, sono maschere di volti eternamente oscuri. Così come le maschere sono il segno che c’è un viso, le parole sono il segno che c’è una cosa. E questa cosa è segno dell’incomprensibile». Il metro di giudizio è quello dell’erudizione, di una scrittura che riesce in maniera esemplare a conciliare fonti storiche e creatività, senza mai scadere nell’ambito dell’inverosimiglianza. È vero solo ciò che risulta plausibile.

Viene effettuato così un mostruoso lavoro di decostruzione e rimontaggio al fine di interagire con personaggi oscuri come Erostrato, ricordato da Eliano e Strabone per aver incendiato il tempio di Artemide in Efeso, o la dissoluta Clodia, corrispondente alla Lesbia immortalata da Catullo, che per amore del fratello effeminato Clodio compie ogni sorta di nefandezze, o Septima, definita dall’autore «incantatrice», che riporta in vita la sorella Fenissa con il proposito di far innamorare il giovane liberto Sestilio, reso a lei insensibile per volere di Anteros. In quest’ultimo caso la fonte principale di Schwob, appassionato di esoterismo e magia, è il rinvenimento nel 1889 a Sussa (Adrumeto), in Tunisia, di una tavoletta di defissione descritta da M. Bréal e G. Maspero in Tabella devotionis de la nécropole romaine d’Hadroumète (Sousse).
Come avverte Riccardo Castellana nella sua esauriente postfazione, «i personaggi delle ventidue brevi biografie che compongono il libro non sono soltanto uomini (e donne) illustri, come Lucrezio, Paolo Uccello o Cecco Angiolieri, ma anche e soprattutto comparse minori, individui cui nessun libro di storia si sarebbe mai sognato di dedicare una sola riga, come i due pluriomicidi Burke e Hare». A volte Schwob è costretto a escogitare, per rendere funzionali i suoi racconti, una ricca congerie di aneddoti che si collocano come strumenti di un ingranaggio perfetto: è il caso di Lucrezio che si basa sul canovaccio costituito dal Chronicon di Eusebio di Cesarea tradotto da san Girolamo, dove tuttavia non si menziona una donna africana dai «seni metallici» e dalle «labbra viola scuro» di cui il poeta latino si sarebbe invaghito. Il resoconto di Empedocle, considerato un «Dio supposto», adopera come fonte principale le Vitae Philosophorum di Diogene Laerzio che raccoglie una serie di elementi spesso discordanti tra loro. La biografia di Paolo Uccello, improntata su quella delle Vite del Vasari, avrà notevoli ripercussioni sul versante delle rielaborazioni operate in chiave surrealista: si pensi ad alcune prose di Artaud presenti in L’Ombilic des limbes e L’Art et la mort, raccolta da cui è tratto Uccello le poil, che venne anticipato nel n. 8 della «Révolution surréaliste» accompagnato da un particolare del Miracolo dell’ostia profanata che compare tra opere di Masson, Miró, Man Ray, Max Ernst, Tanguy e Malkine. Inoltre si considerino i saggi, raccolti in volume nel 1928, consacrati da Soupault al pittore della Battaglia di San Romano che «segue una linea retta senza mai abbandonarla».
I biografemi di cui parla Barthes trovano occasione di manifestarsi alla stregua di epifanie che condensano in un evento o in una catena non consequenziale di vicissitudini il significato sfuggente di esistenze scheletrite come betulle d’inverno. Il particolare diventa allora specchio dell’universale, elemento unificante di un sistema che tenta di raccontare ciò che non si può raccontare impunemente. Scrittura concepita come oracolo, come vaticinio che, anziché al futuro, si rivolge paradossalmente a un passato dominato da ectoplasmi, ricreandolo e ricreandosi in forma di lancinante spasmo. Le ricostruzioni, che si sviluppano in ambito cronologico, arrivano a investigare il mondo della pirateria, che molto aveva affascinato Schwob a partire dalla passione per l’opera di Stevenson e per L’isola del tesoro, che lo porterà a effettuare, all’inizio del secolo, un pellegrinaggio alle Samoa dal quale ricavò un resoconto, uscito postumo. Oltre al capitano Kid figurano Walter Kennedy, «pirata illetterato», e il maggiore Stede Bonnet, «pirata per capriccio». A questo proposito esiste una testimonianza di Léon Daudet che descrive Schwob agghindato come un pirata, durante un viaggio effettuato in Inghilterra e a Guernsey, ma incapace di sopportare il mal di mare.

Mario Praz metterà in luce la tendenza a descrivere le singole vicende rievocando «attraverso la storia vite di anormali, di prostitute, di pirati» dediti a ogni sorta di aberrazioni: dalla coprofilia (Cratete) alla necrofilia (Septima), dall’incesto (Clodia, Cyril Tourneur) al sadismo (Alain le Gentil, gli «assassini» seriali Burke e Hare). Molto interessante è la sinergia che si crea fra microtesto e macrotesto, nonché il recupero di cronache dimenticate come tessere musive che compongono quella che Colette definirà un’opera dalla «perfezione irritante». Non si può dimenticare l’importante studio sull’argot effettuato insieme a Georges Guieysse, sodale con cui Schwob seguì i corsi di sanscrito approntati da Saussure all’École des Hautes Études, oltre alla ricerca su Villon, tesa a dimostrare i legami di quest’ultimo con la famigerata banda dei Coquillards. Quando Schwob spira, il 26 febbraio 1905, appena trentottenne, Renard annota nel suo Diario che «aveva l’aria incollerita che hanno certi morti che se ne vanno troppo presto».


IL MANIFESTO