martedì 12 settembre 2023

Marcel Schwob / Decostruzione e montaggio per il Verosimile

 

Marcel Schwob



Marcel Schwob, decostruzione e montaggio per il Verosimile

SCRITTORI FIN DE SIÈCLE. Empedocle, Lucrezio, Paolo Uccello, Cecco, ma anche oscuri personaggi: Vite immaginarie di Marcel Schwob in una nuova traduzione commentata a cura di Luca Salvatore, per Feltrinelli


«L’arte del biografo dovrebbe consistere (…) nel dare lo stesso risalto alla vita d’un povero attore che a quella di Shakespeare». Questo passaggio, tratto dalla prefazione di Marcel Schwob alle Vies imaginaires, originariamente apparse presso Charpentier et Fasquelle nel 1896, rappresenta una chiara indicazione sui presupposti concepiti dall’autore per allestire questa raccolta di miniature che inaugurò il genere della finzione biografica, o biofiction, in cui si esercitarono alcuni dei più importanti scrittori novecenteschi, da Borges a Wilcock, da Kiš a Bolaño. Non è un caso che, anche in Italia, le versioni di questo libro non siano mancate: si ricordino quelle approntate da Irene Brin per Capriotti (1946) e Maria Teresa Escoffier per Longanesi (1954), oltre alle successive di Fleur Jaeggy per Adelphi (1972) e Nicola Muschitiello per la Bur (1994), solo per citare le più importanti. Nonostante ciò, Schwob ha avuto nel nostro paese una diffusione circoscritta, allineandosi a quel nucleo di autori irregolari che operarono durante la fin-du-siècle e che rimasero imprigionati entro le griglie di una generica adesione al tardo simbolismo o al decadentismo: Gourmont, Mirbeau, Lorrain, Régnier. Ma, a differenza di questi ultimi che, pur muovendosi a cavallo tra i due secoli, non si sono svincolati da un retaggio tipicamente ottocentesco, Schwob sembra prefigurare un’inquietudine che è già moderna, in virtù di uno stile polito come quello di una moneta romana passata attraverso innumerevoli cambi di mano e miracolosamente approdata sotto il nostro sguardo incantato.

È significativo che Schwob fosse il dedicatario di Ubu roi, la pièce teatrale predisposta da Jarry nello stesso anno di pubblicazione delle Vies imaginaires che si può configurare come una sorta di grimaldello per aprire le porte alle avanguardie storiche. Ci sarà un prima e un dopo Ubu, definito da Régnier «il Piranesi dei vespasiani». Senza Ubu non ci sarebbero stati i ready-made di Duchamp, le machines célibataires che lo stesso antesignano dell’arte concettuale ricavò da Raymond Roussel. Schwob aveva ricevuto la mitica prima edizione, con il famoso disegno in copertina di Ubu con testa allungata a forma di pera e asimmetrica gidouille in evidenza, in ben due esemplari con dedica manoscritta dell’autore, la seconda delle quali recita: «Questa copia del libro a lui dedicato è per Marcel Schwob, perché le sue opere sono tra quelle che noi ammiriamo da più tempo». D’altro canto, pur essendo indisposto, Schwob era presente alla prima dello spettacolo, a dir poco rocambolesco, tenutosi al Théâtre de l’Œuvre di Parigi, con regia di Lugné-Poë; tra gli spettatori c’erano anche Gide e Yeats. Inoltre, nel 1894, Valéry dedicò a Schwob nientemeno che l’Introduction à la méthode de Léonard de Vinci.

Ora Feltrinelli pubblica una nuova versione di Vite immaginarie («Universale Economica», pp. 304, € 11,00), ottimamente curata da Luca Salvatore che riesce nel difficile intento di inquadrare la portata storica di questo libro, coniugando precisione ed eleganza nella resa in italiano e nell’allestimento di apparati davvero imponenti. Le parole, come osserva Schwob in Spicilège, «non sono che segni, e segni di segni. Come noi, sono maschere di volti eternamente oscuri. Così come le maschere sono il segno che c’è un viso, le parole sono il segno che c’è una cosa. E questa cosa è segno dell’incomprensibile». Il metro di giudizio è quello dell’erudizione, di una scrittura che riesce in maniera esemplare a conciliare fonti storiche e creatività, senza mai scadere nell’ambito dell’inverosimiglianza. È vero solo ciò che risulta plausibile.

Viene effettuato così un mostruoso lavoro di decostruzione e rimontaggio al fine di interagire con personaggi oscuri come Erostrato, ricordato da Eliano e Strabone per aver incendiato il tempio di Artemide in Efeso, o la dissoluta Clodia, corrispondente alla Lesbia immortalata da Catullo, che per amore del fratello effeminato Clodio compie ogni sorta di nefandezze, o Septima, definita dall’autore «incantatrice», che riporta in vita la sorella Fenissa con il proposito di far innamorare il giovane liberto Sestilio, reso a lei insensibile per volere di Anteros. In quest’ultimo caso la fonte principale di Schwob, appassionato di esoterismo e magia, è il rinvenimento nel 1889 a Sussa (Adrumeto), in Tunisia, di una tavoletta di defissione descritta da M. Bréal e G. Maspero in Tabella devotionis de la nécropole romaine d’Hadroumète (Sousse).
Come avverte Riccardo Castellana nella sua esauriente postfazione, «i personaggi delle ventidue brevi biografie che compongono il libro non sono soltanto uomini (e donne) illustri, come Lucrezio, Paolo Uccello o Cecco Angiolieri, ma anche e soprattutto comparse minori, individui cui nessun libro di storia si sarebbe mai sognato di dedicare una sola riga, come i due pluriomicidi Burke e Hare». A volte Schwob è costretto a escogitare, per rendere funzionali i suoi racconti, una ricca congerie di aneddoti che si collocano come strumenti di un ingranaggio perfetto: è il caso di Lucrezio che si basa sul canovaccio costituito dal Chronicon di Eusebio di Cesarea tradotto da san Girolamo, dove tuttavia non si menziona una donna africana dai «seni metallici» e dalle «labbra viola scuro» di cui il poeta latino si sarebbe invaghito. Il resoconto di Empedocle, considerato un «Dio supposto», adopera come fonte principale le Vitae Philosophorum di Diogene Laerzio che raccoglie una serie di elementi spesso discordanti tra loro. La biografia di Paolo Uccello, improntata su quella delle Vite del Vasari, avrà notevoli ripercussioni sul versante delle rielaborazioni operate in chiave surrealista: si pensi ad alcune prose di Artaud presenti in L’Ombilic des limbes e L’Art et la mort, raccolta da cui è tratto Uccello le poil, che venne anticipato nel n. 8 della «Révolution surréaliste» accompagnato da un particolare del Miracolo dell’ostia profanata che compare tra opere di Masson, Miró, Man Ray, Max Ernst, Tanguy e Malkine. Inoltre si considerino i saggi, raccolti in volume nel 1928, consacrati da Soupault al pittore della Battaglia di San Romano che «segue una linea retta senza mai abbandonarla».
I biografemi di cui parla Barthes trovano occasione di manifestarsi alla stregua di epifanie che condensano in un evento o in una catena non consequenziale di vicissitudini il significato sfuggente di esistenze scheletrite come betulle d’inverno. Il particolare diventa allora specchio dell’universale, elemento unificante di un sistema che tenta di raccontare ciò che non si può raccontare impunemente. Scrittura concepita come oracolo, come vaticinio che, anziché al futuro, si rivolge paradossalmente a un passato dominato da ectoplasmi, ricreandolo e ricreandosi in forma di lancinante spasmo. Le ricostruzioni, che si sviluppano in ambito cronologico, arrivano a investigare il mondo della pirateria, che molto aveva affascinato Schwob a partire dalla passione per l’opera di Stevenson e per L’isola del tesoro, che lo porterà a effettuare, all’inizio del secolo, un pellegrinaggio alle Samoa dal quale ricavò un resoconto, uscito postumo. Oltre al capitano Kid figurano Walter Kennedy, «pirata illetterato», e il maggiore Stede Bonnet, «pirata per capriccio». A questo proposito esiste una testimonianza di Léon Daudet che descrive Schwob agghindato come un pirata, durante un viaggio effettuato in Inghilterra e a Guernsey, ma incapace di sopportare il mal di mare.

Mario Praz metterà in luce la tendenza a descrivere le singole vicende rievocando «attraverso la storia vite di anormali, di prostitute, di pirati» dediti a ogni sorta di aberrazioni: dalla coprofilia (Cratete) alla necrofilia (Septima), dall’incesto (Clodia, Cyril Tourneur) al sadismo (Alain le Gentil, gli «assassini» seriali Burke e Hare). Molto interessante è la sinergia che si crea fra microtesto e macrotesto, nonché il recupero di cronache dimenticate come tessere musive che compongono quella che Colette definirà un’opera dalla «perfezione irritante». Non si può dimenticare l’importante studio sull’argot effettuato insieme a Georges Guieysse, sodale con cui Schwob seguì i corsi di sanscrito approntati da Saussure all’École des Hautes Études, oltre alla ricerca su Villon, tesa a dimostrare i legami di quest’ultimo con la famigerata banda dei Coquillards. Quando Schwob spira, il 26 febbraio 1905, appena trentottenne, Renard annota nel suo Diario che «aveva l’aria incollerita che hanno certi morti che se ne vanno troppo presto».


IL MANIFESTO

Nessun commento:

Posta un commento