Ora Feltrinelli pubblica una nuova versione di Vite immaginarie («Universale Economica», pp. 304, € 11,00), ottimamente curata da Luca Salvatore che riesce nel difficile intento di inquadrare la portata storica di questo libro, coniugando precisione ed eleganza nella resa in italiano e nell’allestimento di apparati davvero imponenti. Le parole, come osserva Schwob in Spicilège, «non sono che segni, e segni di segni. Come noi, sono maschere di volti eternamente oscuri. Così come le maschere sono il segno che c’è un viso, le parole sono il segno che c’è una cosa. E questa cosa è segno dell’incomprensibile». Il metro di giudizio è quello dell’erudizione, di una scrittura che riesce in maniera esemplare a conciliare fonti storiche e creatività, senza mai scadere nell’ambito dell’inverosimiglianza. È vero solo ciò che risulta plausibile.
Viene effettuato così un mostruoso lavoro di decostruzione e rimontaggio al fine di interagire con personaggi oscuri come Erostrato, ricordato da Eliano e Strabone per aver incendiato il tempio di Artemide in Efeso, o la dissoluta Clodia, corrispondente alla Lesbia immortalata da Catullo, che per amore del fratello effeminato Clodio compie ogni sorta di nefandezze, o Septima, definita dall’autore «incantatrice», che riporta in vita la sorella Fenissa con il proposito di far innamorare il giovane liberto Sestilio, reso a lei insensibile per volere di Anteros. In quest’ultimo caso la fonte principale di Schwob, appassionato di esoterismo e magia, è il rinvenimento nel 1889 a Sussa (Adrumeto), in Tunisia, di una tavoletta di defissione descritta da M. Bréal e G. Maspero in Tabella devotionis de la nécropole romaine d’Hadroumète (Sousse).
Come avverte Riccardo Castellana nella sua esauriente postfazione, «i personaggi delle ventidue brevi biografie che compongono il libro non sono soltanto uomini (e donne) illustri, come Lucrezio, Paolo Uccello o Cecco Angiolieri, ma anche e soprattutto comparse minori, individui cui nessun libro di storia si sarebbe mai sognato di dedicare una sola riga, come i due pluriomicidi Burke e Hare». A volte Schwob è costretto a escogitare, per rendere funzionali i suoi racconti, una ricca congerie di aneddoti che si collocano come strumenti di un ingranaggio perfetto: è il caso di Lucrezio che si basa sul canovaccio costituito dal Chronicon di Eusebio di Cesarea tradotto da san Girolamo, dove tuttavia non si menziona una donna africana dai «seni metallici» e dalle «labbra viola scuro» di cui il poeta latino si sarebbe invaghito. Il resoconto di Empedocle, considerato un «Dio supposto», adopera come fonte principale le Vitae Philosophorum di Diogene Laerzio che raccoglie una serie di elementi spesso discordanti tra loro. La biografia di Paolo Uccello, improntata su quella delle Vite del Vasari, avrà notevoli ripercussioni sul versante delle rielaborazioni operate in chiave surrealista: si pensi ad alcune prose di Artaud presenti in L’Ombilic des limbes e L’Art et la mort, raccolta da cui è tratto Uccello le poil, che venne anticipato nel n. 8 della «Révolution surréaliste» accompagnato da un particolare del Miracolo dell’ostia profanata che compare tra opere di Masson, Miró, Man Ray, Max Ernst, Tanguy e Malkine. Inoltre si considerino i saggi, raccolti in volume nel 1928, consacrati da Soupault al pittore della Battaglia di San Romano che «segue una linea retta senza mai abbandonarla».
I biografemi di cui parla Barthes trovano occasione di manifestarsi alla stregua di epifanie che condensano in un evento o in una catena non consequenziale di vicissitudini il significato sfuggente di esistenze scheletrite come betulle d’inverno. Il particolare diventa allora specchio dell’universale, elemento unificante di un sistema che tenta di raccontare ciò che non si può raccontare impunemente. Scrittura concepita come oracolo, come vaticinio che, anziché al futuro, si rivolge paradossalmente a un passato dominato da ectoplasmi, ricreandolo e ricreandosi in forma di lancinante spasmo. Le ricostruzioni, che si sviluppano in ambito cronologico, arrivano a investigare il mondo della pirateria, che molto aveva affascinato Schwob a partire dalla passione per l’opera di Stevenson e per L’isola del tesoro, che lo porterà a effettuare, all’inizio del secolo, un pellegrinaggio alle Samoa dal quale ricavò un resoconto, uscito postumo. Oltre al capitano Kid figurano Walter Kennedy, «pirata illetterato», e il maggiore Stede Bonnet, «pirata per capriccio». A questo proposito esiste una testimonianza di Léon Daudet che descrive Schwob agghindato come un pirata, durante un viaggio effettuato in Inghilterra e a Guernsey, ma incapace di sopportare il mal di mare.
Mario Praz metterà in luce la tendenza a descrivere le singole vicende rievocando «attraverso la storia vite di anormali, di prostitute, di pirati» dediti a ogni sorta di aberrazioni: dalla coprofilia (Cratete) alla necrofilia (Septima), dall’incesto (Clodia, Cyril Tourneur) al sadismo (Alain le Gentil, gli «assassini» seriali Burke e Hare). Molto interessante è la sinergia che si crea fra microtesto e macrotesto, nonché il recupero di cronache dimenticate come tessere musive che compongono quella che Colette definirà un’opera dalla «perfezione irritante». Non si può dimenticare l’importante studio sull’argot effettuato insieme a Georges Guieysse, sodale con cui Schwob seguì i corsi di sanscrito approntati da Saussure all’École des Hautes Études, oltre alla ricerca su Villon, tesa a dimostrare i legami di quest’ultimo con la famigerata banda dei Coquillards. Quando Schwob spira, il 26 febbraio 1905, appena trentottenne, Renard annota nel suo Diario che «aveva l’aria incollerita che hanno certi morti che se ne vanno troppo presto».
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