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giovedì 20 giugno 2019

La regina dei giardini / Intervista a Francesca Marzotto Caotorta


Verona, Giardino Giusti, il giardino della nonna, nel quale Francesca Marzotto Caotorta ha imparato a camminare

La regina dei giardini

Intervista a Francesca Marzotto Caotorta



20 OTT 2015 
di
GIOVANNI ZACCHERINI

La sua immagine esteriore come “personaggio” e il suo sentire come “persona”...
Nel corso degli anni mi sono resa conto che il fatto di non avere alcuna immagine esteriore di me, poteva crearmi qualche problema. Già da ragazzina, quando mi consideravo un cesso ambulante, sentivo qualcuno dire “come è diventata bella Francesca” e io, tornata a casa, andavo davanti allo specchio al quale domandavo: “E quella sarebbe la bellezza?”. Non davo alcun valore a quella che ero, né a quello riuscivo a fare. Col tempo mi sono resa conto di quanto poco generoso sia il non dare valore al raggiungimento di certi risultati e Il non aver detto, per questo, tutti i giorni, grazie alla dea della fortuna.


Francesca Marzotto Caotorta


Si sente di raccontare il suo sogno?
Che si smetta di raccontare il nostro paese attraverso la critica e si cominci a mostrarne tutta la meraviglia. Quante sono le persone di gran valore di cui non ci si accorge. Quanti i luoghi meravigliosi sconosciuti ai più.
Per lei il piacere è…
Quale tipo di piacere s’intende? “Dire, fare, baciare, lettera, testamento?”. Se proprio, proprio lo si vuol sapere, un piacere bellissimo e indimenticabile rimane quello di avere un bambino nella pancia e suo padre appoggiato alla pancia.
La donna oggi: liberazione o integrazione?
Per tante donne la strada della liberazione è ancora lunga e pericolosa, ma il viaggio sarà valso la fatica se, alla fine, avrà imparato a rimanere una donna che non ha bisogno di contrapporsi o copiare i riti maschili.
Donna e/è potere… cosa ne pensa?
Ci sono tanti tipi di potere che una donna può esercitare. Dalla “resdura” delle famiglie contadine, alla regina. Credo sia questione di indole e di fortuna.
Stereotipo e realtà della donna milanese...
Io non sono milanese e sono infinitamente grata a questa città che del fare fa il suo sistema di accoglienza e di legame.
Il rapporto della donna con l’uomo contemporaneo: confronto o scontro?
Mi sembra che oggi molte donne si attrezzino di grosse lenti di ingrandimento per mettere sotto esame il genere maschio per verificare quanto quel dato esemplare possa corrispondere alle aspettative dettate dalle convenzioni del momento. Non mi sembra che ci sia gran condivisione.
Sessualità, maternità, lavoro: tre fili che s’intrecciano, confliggono o si elidono?
Se il richiamo è forte, sessualità e lavoro convivono, idem per quanto riguarda sessualità e maternità. Mentre mi sembra quasi impossibile riuscire ad avvicinare maternità e lavoro perché, secondo me, una madre deve esserci anche quando non la cerchi, ma sai che è lì per te. L’ho imparato dai miei errori.
Lei ha avuto e ha un peso determinante nella riscoperta del significato e della bellezza del verde e dei fiori:Gardenia e Orticola sono un po’ sue creature…
Premetto che credo che il mio DNA sia verde, perché il mondo delle piante e dei giardini si trova su per i rami di generazioni, a riprova pare che la mia prima parola detta fosse “albero pino”. L’avventura di Gardenia è cominciata poco dopo essere arrivata a Milano, dopo 20 anni di Torino. Erano anni in cui Ippolito Pizzetti ci insegnava che non c’era separazione tra arte, letteratura, scienza, architettura e che bisognava solo ri-imparare ad ascoltare il racconto narrato da piante e giardini. In Italia non c’erano i giornali che all’estero si avvicinavano a trattare quel mondo in quel modo. Egidio Gavazzi, che il quegli anni dirigeva Airone, mi presentò a Giorgio Mondadori che disse che poteva essere una buona idea e mi chiese di preparare un numero zero. Quello stesso numero divenne poi il primo numero di Gardenia, il nome che in qualche modo voleva avvertire che il tema del giardino poteva interessare, le donne, i giovani, i seri professionisti, così immaginai che un po’ evocava "garden-gardenia" , ma anche proponeva un fiore ritualmente maschile: quello che si mette all’occhiello. Fu un gran successo che mise al bando lo stereotipo dell’italiano che non ama le piante. Orticola è il frutto di un lavoro di squadra e di plagio. In Francia andavamo tutti a vedere la mostra di Courzon, il FAI aveva organizzato qualcosa di simile a Masino e allora domandai agli amici del Consiglio di Orticola: “perché non riprendiamo la tradizione della Società Orticola di Lombardia di organizzare mostre floreali? Non sarebbe male, in questi anni di 'mani pulite', fare qualcosa per la città anche se occorresse infilare le mani nella terra”. Cominciò così, 20 anni fa, a formarsi una squadra tanto affiatata da non sentire gli effetti che il tempo via via le riservava. E penso che siamo riusciti nell’intento di far conoscere a un vasto pubblico anche tanti piccoli e appassionati vivaisti, o le collezioni botaniche di grandi professionisti che arrivavano da tutta Italia.
Ildegarda di Bingen si è incantata di fronte al miracolo delle piante, le ha osservate e studiate ricavandone anche rimedi naturali...
Santa Ildegarda era una donna che sapeva farsi domande e cercava risposte imparando a osservare. Anni fa, dopo aver preso il diploma di erborista, avevo un negozio di erboristeria che seguiva anche l’esperienza di Messeguè. Tra i miei libri ci sono scaffali dedicati al tema della cura con le piante. Tra quanto mi è rimasto impresso di quella esperienza c’è l’osservare che, col tempo, bastava guardare chi entrava per prevedere cosa avrebbe chiesto. Conoscere i poteri che, nelle scorrere dei secoli, sono stati riconosciuti alle piante è un genere di sapere, la nostra Santa pareva fare di quei poteri un ponte per arrivare nel segreto degli uomini.
Che poesie e prose suggerirebbe per gustare la bellezza dei giardini in letteratura?
Temo che se cominciassi questo tipo di catalogo ne uscirebbe una lista di pagine e pagine. Cominciamo dal Cantico dei Cantici e saltiamo fino a Cicerone e Plinio il giovane, guardando tra le pagine di tanti classici latini. Tanti gli autori medievali che celebrano la bellezza di un fiore o l’ideale di giardino, a ricordare quanto presente tra noi sia l’influenza araba, si leggano i versi di Ibn Bàsrun, Ibn Hamdiis , Abd’ar Rahman, che raccontano i giardini della Cuba a Palermo. Boccaccio descrive un giardino, Petrarca ha il suo giardino ad Arquà. Da leggere sono i versi di Lorenzo il Magnifico e Poliziano e da rileggere come il Tasso descrive il giardino di Armida. Pagine intere occorrerebbero per ricordare gli autori quattro-cinquecenteschi, ma Leon Battista Alberti e Palladio sono imprescindibili. Del giardino scrive Francesco Bacone e pure Montaigne nel suo viaggio in Italia. Ricordi di giardini si trovano tra gli appunti del viaggio in Italia di Goethe, e nelle Affinità elettive ci fa partecipi del suo progetto di giardino. J.J Rousseau in Emile racconta un ideale di giardino ben più modesto di quello di cui si circondò a Ermenonville. Arrivando a tempi più vicini, di fiori e giardini scrissero Pascoli, D’Annunzio e Rainer Maria Rilke con le sue Lettere intorno a un giardino. E così via...
Che suggerimenti darebbe per la creazione di un giardino e quali errori evitare?
Un po’ di errori da evitare li ho descritti nel mio ultimo libro All’ombra delle farfalle. Primo tra tutti non conoscere le caratteristiche del luogo (il clima, la direzione dei venti, il tipo di terreno, ecc). Secondo: non conoscere la natura delle piante: di cosa hanno bisogno, cosa temono, come saranno da grandi. Perché troppo spesso si vedono piante troppo vicine tra loro o troppo vicine alle costruzioni. Terzo: non aver chiarito quanto tempo e quanti soldi abbiamo da dedicare al giardino. Quarto: prendersela per quanto ci va storto.
Orto e giardino…
La grande differenza tra giardino e orto è che nel primo le piante devono essere belle e sane, nel secondo devono anche essere buone. Così che quando guardi il tuo giardino capita che ti senta un po’ giardiniere, po’ un pittore, un po’ un narratore, ma quando vai nell’orto e prendi quello che serve per dar da mangiare, ti senti un dio.
Dove ci accompagnerebbe per scoprire i giardini e le fioriture più belle di Milano?
Tra i più bei giardini di Milano c’è sicuramente il giardino degli Atellani, in corso Magenta, di cui è ben distinguibile l’architettura che scandisce gli spazi, accoglie le statue, dà armonia al rapporto tra le piante.
Cosa fare per rendere Milano più verde?
Checché se ne pensi, Milano ha un ricchissimo patrimonio di piante e giardini. Quello che spesso le manca è la qualità della loro manutenzione.
L’Eden può essere raffigurato come un giardino-orto o un orto-giardino?
Il giardino dell’Eden è un luogo indefinito: “un giardino creato in Eden, a Oriente” dicono le scritture. Un giardino in cui c’era di tutto: sia quello che serviva alla vita, che quello che poteva distruggerla. Eden è anche il luogo da cui si può essere cacciati. Così che quel giardino diventa metafora della stessa vita su questa terra. Ognuno può creare il proprio Eden, dopo aver fatto chiarezza su quali valori lo vuole rappresentare in quel luogo. Un giardino può nutrire con la sua bellezza, fatta anche di piante buone da mangiare, può deliziare con la sua pace. Con la sua luce e le sue ombre. Occorre ben ricordare che un orto richiede un lavoro costante e una continua lotta agli invasori, per i quali l’orto non sarà più il loro Eden.
Giovanni Zaccherini
Laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano, ha insegnato materie letterarie, storia, filosofia e storia dell’arte negli istituti superiori. Ha collaborato e collabora con il Comune e il Circolo Filologico milanesi alla selezione e divulgazione di autori e testi inediti e all'organizzazione di eventi culturali.
Giornalista pubblicista, “Premio Guidarello per il giornalismo d'autore” 2010 per la sezione cultura, ha pubblicato e pubblica sulle terze pagine dei quotidiani “Avvenire”, “il Corriere di Romagna”, “il Resto del Carlino”, “La Voce di Romagna”, “Prealpina”, “Varese News” e sui periodici “la Ludla”, “la Piê”, “Libro Aperto”, “Stanza Letteraria” con rubriche di critica d'arte, musica, storia e letteratura. Ha compilato le voci “Dialetto”, “Folclore” e “Proverbi” per l'enciclopedia “Sguardi sulla Romagna” e ha collaborato all’ “Antologia della letteratura romagnola” di prossima uscita.
Ma, al di là di questi sintetici dati, nella mia vita e nella mia professione c’è soprattutto il desiderio di vivere con gli altri quella cultura che ci rende più “umani” e vicini in una comune condivisione. Ricordo le mie prime esperienze, come animatore del Comune di Milano, quando mi aggiravo nelle nebbie delle periferie per ricercare, raccogliere e insegnare a leggere e scrivere agli ultimi analfabeti che venivano dal sud. Poi, gli anni di insegnamento nei licei della Milano “bene”, anzi della Milano “da bere” … situazioni ed ambienti diversissimi, che mi hanno messo in grado di saper apprezzare e godere di culture e persone tanto lontane.
Per questo, anche nella mia attività giornalistica ho sempre rifuggito dallo specialismo e mi è piaciuto scrivere, mettendomi in sintonia con generi e periodi diversi: dall’ultima edizione di “Kind of blue” di Miles Davis, ai concerti grossi di Corelli, ai cori delle mondine. Oppure, cambiando campo, dalle eroine di Crepax, ai tesori della grafica rinascimentale, all’architettura liberty. Ecco, lo scrivere è come un dono, il dono di un piacere condivisibile e condiviso, un essere per sé e per gli altri.



mercoledì 19 giugno 2019

Leo Longanesi, grande profeta di sventure / Un intellettuale penetrante e spietato


Leo Longanesi

Leo Longanesi, grande profeta di sventure

Un intellettuale penetrante e spietato

20 MARZO 2014, 
Vita di un “conservatore in un Paese dove non c’è niente da conservare”


Come il “quarto potere” possa, direttamente o indirettamente, influenzare politica e società l’abbiamo costatato anche nelle ultime vicende italiane con rivelazioni e “scoop” travolgenti, dagli effetti destabilizzanti per il nostro fragile assetto politico. Nella storia del giornalismo nazionale c’è un personaggio testimone assoluto e riconosciuto di come la carta stampata, e oggi, diremmo, quella on line, possa non solo condizionare, ma anche cogliere e anticipare il percorso e le scelte di una nazione: parliamo di Leo Longanesi (1905-1957). Romanziere, saggista, giornalista, grafico, pittore, fotografo, regista, editore ed imprenditore di cultura, colse e anticipò con sorprendente chiaroveggenza le tendenze del costume ed i modelli culturali dell’Italia che cambiava. Alcune delle sue definizioni e predizioni risultano ancor oggi, a distanza di quasi un secolo, di folgorante e preoccupante monito per l’attualità italiana. Vogliamo ricordarlo, avvalendoci anche, come filo conduttore, dei suoi celebri “aforismi”, quelle brevi massime di cui fu il più intelligente realizzatore contemporaneo.


Leo Longanesi



Ribelle ed anticonformista anche per la sua origine (era nato a Bagnacavallo nel cuore della pianura romagnola, terra dai contrasti politici più accesi), aderì al Fascismo soprattutto per disprezzo nei confronti dell’"italietta" piccolo-borghese e per provocazione giovanile. Cominciò a scrivere su periodici fiancheggiatori, compilando un Vademecum del perfetto fascista che contiene il celebre aforisma “Mussolini ha sempre ragione!”, ma mettendo anche in mostra insofferenza per ogni aspetto retorico e monumentale del regime, giudicato affetto da un “male letterario, sottile, contagioso, impalpabile: il dannunzianesimo”. Il suo primo importante periodico, L’Italiano, uscito nel ’26, rivoluzionò lo stagnante panorama giornalistico italiano, piatto e anacronistico: “Meglio è parlare dell’autostop, del Palmolive, di Buster Keaton, della penna Parker…” e sperimentò l’importanza delle immagini: “Le illusioni ottiche guidano la nostra civiltà”. Grande successo, arrivando fino a centomila copie, ebbe anche il successivo rotocalco Omnibus(chiuso a malincuore nel ‘39 per ordine dello stesso Mussolini, pressato dal ricatto e dalle invidie di alcuni gerarchi) che incrementò l’uso della fotografia, politica ma anche erotica e mondana e richiamò collaboratori come Buzzati, Montale, Malaparte , Moravia e Vittorini.
Il crollo del fascismo e le vicissitudini del biennio ’43 - ’45 provocarono in lui, come in tanti altri intellettuali, un cambio di rotta un po’ sospetto: “La nostra coscienza è un grande impedimento, ma poi ci si accorda sempre con lei, come col fisco”. Riparato a Napoli e poi a Roma, pur nutrendo scetticismo nei confronti del CLN e del nuovo quadro politico-istituzionale, cercò un appoggio, tra i “vincitori”, che gli permettesse di continuare la sua attività editoriale-giornalistica, pare che ci siano stati contatti col PCI: si “annusarono” ma non si piacquero. Questa crisi di astinenza lo spinse a cercare nuovi filoni e, fiutando il clima permissivo instaurato dagli alleati, ecco allora uscire Flirt, rivista di varietà sulla scia dei periodici di “pin up” americani e corredata di una rubrica di “consigli intimi” per un pubblico maschile adulto, aprendo la strada anche in Italia al rotocalco erotico: “La moda e l’amore procedono nel tempo tenendosi uniti col dito mignolo, e vi accorgerete di essere invecchiati quando, a chi vi chiede a bruciapelo informazioni sulla biancheria femminile, non saprete più rispondere con sicurezza. Ogni uomo, infatti, è legato ad una particolare biancheria muliebre e a quello si richiama nel patetico ricordare i passati amori”.
Leo Longanesi

L’occasione che lo riportò nel pieno delle sue funzioni di comunicatore e organizzatore culturale, gli fu offerta dall’industriale milanese Giovanni Monti, in collaborazione col quale fondò la Longanesi & C., casa editrice in perfetta linea con l’anticonformismo e il fiuto per gli “affari” del giornalista romagnolo. Pubblicò, infatti, autori politicamente scorretti o comunque “pericolosi” come Nietzsche, Sombart, Grosz, Bernanos, Huxeley, Russel, Peyrefitte o nuovi talenti italiani come Flaiano e Berto e un suo stesso rivoluzionario romanzo, Una vita, dove l’immagine sostituisce quasi completamente la parola, ma curò anche una collana di “gialli proibiti” con solleticanti e colorate copertine osé. L’essere rientrato a pieno regime nell’agone editoriale, lo fece diventare una figura-chiave nella campagna delle elezioni del ’48, dove abbracciò la causa della DC, non per convinzione ideologica, ma perché vedeva nel partito di De Gasperi l’unico forte baluardo contro il Fronte Popolare: “Ho abbracciato la causa dei padroni e morirò combattendo per quella, perché sono padrone anch’io”. Il successo editoriale e l’intuizione di non lasciarsi intruppare in uno schieramento politico lo convinsero a ritentare l’azzardo di un nuovo periodico, Il Borghese, che nascerà nel ’50, con la collaborazione di autori come Prezzolini, Savinio, Montanelli e Spadolini.
La linea del quindicinale, poi diventato settimanale, era dichiaratamente di “destra”, una destra critica, che vedeva nel comunismo internazionale il pericolo più incombente, ma disprezzava l’imbelle classe politica dirigente uscita dal ’48: “La nuova classe dirigente è così cretina che non ho nulla da rimproverarmi del mio passato” e strizzava l’occhio anche ad atteggiamenti di ribellismo anarchico e di critica alla modernità tecnologica. Sempre pronto a cogliere le novità e le anticipazioni della società, collaborò, a partire dal ’52, con Mattei e l’ENI per una campagna pubblicitaria, ma soprattutto per una nuova testata, Il garofano rosso. Questo nuovo periodico, in pratica, apriva la strada alla futura politica di centro-sinistra; Mattei e la parte più lungimirante dei democristiani capivano, infatti, che l’era del centrismo e dello scontro frontale era finita e all’Italia, che usciva dall’emergenza, era necessaria una forza politica che fornisse alla DC un partner laico e socialdemocratico. Ecco, pertanto, la necessità di sdoganare il PSI e di favorirne una politica autonoma dai comunisti: questo fu il compito che assolse Il garofano rosso, ma la collaborazione Mattei-Longanesi andò anche più in là, prefigurando quel fondamentale quotidiano dell’Italia del miracolo economico che fu Il Giorno.
Leo Longanesi

Dopo l’infelice tentativo di creare un suo movimento politico, che avrebbe dovuto chiamarsi La Lega dei Fratelli d’Italia, Longanesi si sentirà ancora più lontano da un mondo sempre più “omologato”: “Quel che seduce le masse è l’immagine del peccato, la fotografia a colori o la descrizione di crude scene sessuali”e “Sfogliando i nostri giornali a rotocalco, sorprende l’insistenza con cui ripetono le stesse cose… S. Loren, Alì Khan, Rita, Coppi, la Dama Bianca…”. Abbandonato dal suo industriale finanziatore: “Non è mai apparsa una classe di grossi padroni tanto inetta, tanto pavida, tanto volgare come quella che oggi vive a cavalcioni dell’Italia” e alle prese coll’altalenante diffusione de Il Borghese, si spense, proprio nella redazione della sua ultima creatura, nel settembre del ’57: “E’ un peccato vivere quando tanti elogi funebri ci attendono”.
Ideologia di un profeta di sventure

Il grande polemista romagnolo non era un pensatore sistematico, anzi, affermava: "Il contrario di quel che penso mi seduce come un mondo favoloso", perciò non possiamo esigere da lui un percorso ideologico consequenziale, ma quegli sprazzi, quelle intuizioni, quelle folgorazioni che l’hanno reso antesignano di un giornalismo corrosivo e impenitente. Lo stesso, poi, che da lui è sceso fino a Montanelli e Travaglio, che gli hanno riconosciuto il ruolo di maestro. Negli anni giovanili, come abbiamo visto, assunse l’atteggiamento del guastafeste, del provocatore (forse anche in virtù di sue frequentazioni nietzschiane e soreliane), ma si sforzò di trovare un’identità italiana nella fusione tra la tradizione cattolica reazionaria (con la riabilitazione dell’operato di Pio IX), la cultura rurale strapaesana e il filone patriottico risorgimentale: “E’ meglio vivere a sbafo della tradizione che voler vivere creando cose estranee alla tradizione.”.


Leo Longanesi



Si pose pressantemente il problema di quale classe avrebbe potuto portare avanti questa “rivoluzione conservatrice” e si accorse che in Italia mancava una vera borghesia: “La borghesia non ha idee: essa vive di abitudini”, cioè una classe capace di promuovere un coerente progetto politico di destra: “La destra? Ma se non c’è nemmeno la sinistra in Italia!... ogni posizione ferma e definita è intollerabile… qui si vive alla giornata, fra l’acqua santa e l’acqua minerale”. Questa intelligenza penetrante e spietata fece emergere in lui uno scetticismo rassegnato che lo portò a cercare e a trovare nei nuovi mezzi di comunicazione di massa – che lui stesso aveva sperimentato con tanto successo - la nascita di un cambiamento antropologico epocale: “Il film ha compiuto una rivoluzione più profonda di quella di Lenin: ha ucciso persino gli ideali ribelli del romanticismo operaio.”. E, con accenti “prepasoliniani”, prosegue: “Il proletariato… aspetta l’automobile, la casa a rate, la radio, il televisore… il comunismo è finito, perché il comunismo era una grossa faccenda rivoluzionaria che chiedeva sacrifici…”.
Ecco, allora, riaffiorare in lui la nostalgia della sua terra di Romagna, dove i “rossi” “conservano vecchie abitudini, e pregano vecchi santi; e cucinano l’anguilla come ai tempi dell’esarcato… il popolo ama i colori. E quando di colori ce ne sono tre, sceglie quello più sgargiante, sceglie il rosso…”. E’ un processo a ritroso che lo spinge a ritornare alle origini, in un mondo crepuscolare, quasi pascoliano, dove il ricordo fa da antidoto alle amarezze e alla pazza frenesia del suo attivismo esasperato e del suo “cinismo” conclamato, sbocciando in questa intensa confessione: “Nella vecchia casa dei nonni, dove io sono nato, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi… là io sono cresciuto. Là ho letto le vite dei grandi briganti… là ho bevuto il primo bicchier di vino… La mia famiglia è stata la mia scuola, e quel che so, quel che non so, i miei vizi, i miei difetti, le mie poche virtù li ho tutti ereditati. E più gli anni passano, più mi accorgo di non riuscire a mutare la strada segnata…”.
WSI






lunedì 20 novembre 2017

Emma Bovary compie 160 anni

Emma Bovary, collage di Chiara Corio



Emma Bovary compie 160 anni

Come le donne di oggi s’incontrano o scontrano con questa figura femminile

20 NOVEMBRE 2017, 
GIOVANNI ZACCHERINI

“Signori … nessuna donna neanche in altri paesi sussurra a Dio le frasette adultere che riserva all’amante. Voi signori giudicherete questo linguaggio e sono sicuro che non troverete giustificazione a queste parole pronunciate da un’adultera, volutamente introdotte nel santuario della divinità! … l’offesa alla morale pubblica è nelle scene di lascivia ... l’offesa alla religione nelle immagini voluttuose mescolate alle cose sacre ...”, così il pubblico ministero Ernest Pinard, nella requisitoria contro Madame Bovary e che nello stesso anno 1857 pronunciò un’analoga reprimenda contro Le fleurs du mal.
Emma, donna scandalosa, donna perduta, paragonata, per restare nella letteratura italiana, alla dantesca Francesca o alla manzoniana Gertrude, fino ad arrivare al filosofo paroliere Manlio Sgalambro e alla sua Emma Bovary/ Baby blu, poi cantata da Patty Pravo e Francesco Battiato: “Aspetto ancora il mio momento/che presto verrà/Un luogo nel mondo/giusto per ingannare/la freccia che mi ucciderà/… l’ardore dei miei sensi/eternamente ritorna/con severo disordine/la febbre per le membra/la voluttà finale della verità/ o di un colpo di pistola ...”.
A 160 anni di distanza, come vivono e s’incontrano o scontrano le donne di oggi con questa figura femminile che rivela, nella sua sofferenza, tanta parte del nostro disagio esistenziale e la “banalità del male”? “Bovary c’est moi”? Ecco come Emma è riscritta e risognata da donne dei nostri tempi.

Ambizioni e miserie di una donna d'altri tempi

L'aragosta Augusta
Un’aragosta

che si chiamava Augusta

ma tutti la chiamavano Agostina, detta Tina,

e di cognome faceva Bovarì,

si svegliò una mattina

e disse: “Sono stufa di star qui
di camminare sempre sopra il fondo.
Ormai conosco tutto quanto intorno
e non c’è mai niente di nuovo
sia quando dormo
sia quando mi muovo.
Per questo me ne voglio andare
uscir fuori dal mare.
È presto fatto posso
scalare quello scoglio
che sbuca fuor dall’onda
e sale verso il ciel dall’acqua fonda.”
“Non farlo, Agostina” le disse un calamaro
che da tempo l’amava e sperava
di portarla un dì all’altare.
“Non farlo, non ti devi fidare: il mondo è bello ma può essere cattivo,
non sai mai cosa può capitare.
Resta con me, mettiamo su famiglia
avrò cura di te come una figlia”.
“Come una figlia, vogliamo scherzare?
Io un grande amore voglio trovare
una passione sfrenata e ardente
che mi faccia delirare
per niente di meno mi voglio impegnare
per questo me ne vado via dal mare”.
Offeso il calamaro
per ripiego si fidanzò a una triglia.

Mentre Agostina si arrampicava

e in cima allo scoglio piano saliva

la vide un giovane che pescava

e la mise in un paniere.

Si agitava la povera Tina

inutilmente con tutte le zampe
ma di scappare non c’era modo.

Appena a casa fu messa sul fuoco

che si levava con grandi vampe

dentro una pentola d’acqua bollente.

Che orribile morte povera Tina

che aveva tanto sognato l’amore

non le bastava un affetto sincero
questa volta era cotta davvero
una passione davvero ardente
tragica sorte fu quel che trovò.
(Donatella Bisutti, poetessa)

Dopo un secolo e mezzo, si continua a cadere in Madame Bovary senza più uscirne. Flaubert l’ha costruita con disprezzo, precipitando in un abisso di pochezza la sua bella provinciale stordita di cattive letture, moglie rovinosa, madre pessima, amante insoddisfatta, prigioniera delle proprie menzogne. Eppure si finisce per stare dalla sua parte. È una irriducibile, dice qualcuno, un simbolo di libertà, suggeriscono altri svincolandola dalla ragnatela del bovarismo. Il suo creatore non la condanna sul piano morale, e infatti per questo fu condannato, ma per i sogni di cattivo gusto, le fantasie volgari. Madame Bovary, oggi più che mai, siamo tutti noi? “Non bisogna toccare gli idoli”, scrive Flaubert, “la doratura resta sulle mani”.

(Laura Bosio, scrittrice)


Una passione di provincia



Da adolescente, m'innamorai follemente di un rampollo dell’alta società. Sembrava condividere con me "le cose più belle della vita". Seppi dopo diverso tempo che fui abbandonata perché i genitori gli proibirono di frequentare una ragazza, sì certo per bene, ma con una famiglia priva di solidità economiche certe e non alla loro altezza. Conobbi la disperazione, l'abbandono di questo ragazzo mi risultò insopportabile. L'elaborazione del lutto durò per troppo tempo. Ecco cosa non perdono a Madame Bovary e a me: lo spreco di intelligenza, di creatività, di rispetto di sé e il tempo buttato all'inseguimento di figure maschili tremendamente meschine. Questo è l'aspetto di Emma più radicato nella mia persona e che ancora resiste e persiste. Gli aspetti del bovarismo, invece, quelli che riguardano scalate sociali e desiderio e volontà di frequentare le corti di famiglie ricche e di chiara fama, da molto tempo non mi appartengono più. Curo con vera passione relazioni che comprendono e indagano i luoghi delle affinità elettive. E qui abbandono Gustave Flaubert per indagare le ragioni che mi conducono a Johann Wolfgang von Goethe. Ed è tutta un'altra storia?

(Mariella Busi De Logu, artista)

Madame Emma si era stufata delle cozze alla Tolstoj e non aveva minimamente voglia di prendere la carrozza per raggiungere Rouen dove Monsieur Gustave attendeva per intervistarla. E soprattutto... cosa voleva sapere da lei? Cosa mai voleva raccontare in un libro che nessuno avrebbe letto? Ecco la parola clou, pensò scostando il piatto davanti a sé, le avrebbe chiesto delle sue appetitose avventure sessuali. Rise fra sé per il gioco di parole, per come la tavola la riconducesse al letto e il letto la riconciliasse col cibo. Un connubio un po’ facile ma talmente universale! Libertina di pensiero, ma tutte quelle voci, i pettegolezzi giù in paese su di lei e i suoi mille amanti, erano solo i suoi desideri, o degli esercizi di stile, come avrebbe asserito più tardi Monsieur Queneau. Emma, invidiava la sua musa ispiratrice d’oltremanica, Elizabeth duchessa di Kingston che invece se l’era spassata alla grande. E poi quel suo cognome che sfiorava il maremmano avrebbe mai assunto i toni sensuali di Lady Kingston-upon-Hull? Pigramente indossò cuffia e mantella per andare all’appuntamento. Nessuno, nemmeno Monsieur Flaubert, osò mai rivelarle che non possedeva alcuna carrozza.

(Chiara Corio, giornalista, artista)

Ho conosciuto Emma/Flaubert a venti anni, ho condiviso la sua anima assetata di sogno e anche lei mi ha aiutata a comprendere il nostro innato bisogno di storie e la possibilità della narrazione di riequilibrare le nostre difficoltà funzionali ed esistenziali. Ho approfondito la conoscenza di Emma attraverso gli studi di Speziale Bagliacca che la osserva incontrare i suoi uomini sul terreno del rapporto sadomasochistico: il marito che nella sua imbecillità non la vede compromettersi e distruggersi, gli amanti che approfittano del suo vuoto interiore che la induce nella confusione tra realtà e fantasia. Ho incontrato Emma in Valeria, donna di trenta anni che cercava disperatamente in un uomo un padre che non l’aveva mai vista e amata, consumandosi e sottomettendosi in una relazione segnata da agiti d’ingravescente masochismo pur di non perdere l’amato. Lo spunto di Flaubert per il romanzo fu un fatto di cronaca. Oggi potrebbero esserlo le cronache delle vittime di femminicidio, dalle quali Flaubert saprebbe narrarci e mostrarci come ogni sofferenza o dramma siano sempre iscritti nell’intreccio dei rapporti umani.

(Luisa Crevenna, psicoterapeuta)


Emma Bovary e i suoi amori



Non è facile scrivere di questa figura ormai diventata iconica, credo che forse la cosa più sincera, per me, sia ricordare l'impressione fortissima che provai quando, adolescente, lessi per la prima volta il romanzo. Emma mi parve un'eroina tragica in un mondo meschino e castrante, una donna che rivendica il diritto alla libertà e all' emancipazione. Ancora non sapevo cosa avrei fatto "da grande" ma sentivo che avrei coltivato le mie passioni e non mi sarei arresa alla mediocrità che mi sembrava di avere intorno. Negli anni ho riletto almeno un paio di volte Madame Bovary e il mio sguardo si è fatto più critico nei confronti di Emma. Ho riconosciuto in lei il velleitarismo di chi è sospeso tra un'ambizione smisurata e un destino mediocre senza la capacità di adattarsi alla vita. Certo è però che la sua inquietudine esistenziale, il suo senso di insoddisfazione, il suo "mal de vivre" sono forse responsabili, almeno in parte, del mio essere diventata attrice. Sulla scena i miei sogni avrebbero potuto continuare ad esistere!

(Patrizia Milani, attrice)

Immagino di incontrare Emma Bovary a un tavolino di una caffetteria dallo stile raffinato ed elegante. Un abito di seta azzurra a balze avvolge un fisico asciutto, il corpetto con inserti di pizzi mette in risalto una carnagione chiara ed esalta due grandi occhi neri. Mi guardo: sono vestita in modo ben diverso, classico ma appropriato alla mia era. Due donne, due epoche diverse. Eppure abbiamo avuto in comune l’aspettativa e l’illusione di trovare nell’incontro amoroso la vera realizzazione di noi stesse, scoprire con le lenti dell’innamoramento le bellezze della vita, sentirsi vitali e forti rispecchiandosi nello sguardo interessato di un uomo. Poi provare il baratro dell’abbandono che ti annienta, azzera l’immagine di te stessa. Nonostante l’emancipazione femminile, quante donne ancora oggi cadono in questa trappola, ritenendosi vive e capaci solo perché si sentono al centro dei pensieri di un uomo! L’amore è da sempre il miglior antidepressivo, questo sì! Ma le risorse che l’innamoramento fa emergere sono solo nostre, sono fiori perenni che aspettavano solo di sbocciare!

(Maria Teresa Rizzato, psicoterapeuta)

Ho letto Madame Bovary per l’esame di letteratura francese all’Università e ne sono rimasta sdegnata perché in tutto il libro questa donna si dimostra di una vuotezza impressionante. Certo avevo letto i vari saggi di critica che ragionavano sul fatto che lei fosse un soggetto desiderante e moderno, ma per me rimaneva una donna che negava la realtà perché altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con il proprio buco nero interiore che cercava di riempire inventandosi amori da fiaba adolescenziale. Soprattutto trovavo, e trovo, tremendo che Emma demandi la realizzazione della propria felicità al marito. Madame Bovary non ha un progetto esistenziale e incamera continuamente oggetti e vestiti per non incontrare il nulla di se stessa. Ho pensato che grazie al cielo io e Madame Bovary eravamo agli antipodi.

(Marina Spada, regista)




Giovanni Zaccherini
Laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano, ha insegnato materie letterarie, storia, filosofia e storia dell’arte negli istituti superiori. Ha collaborato e collabora con il Comune e il Circolo Filologico milanesi alla selezione e divulgazione di autori e testi inediti e all'organizzazione di eventi culturali.
Giornalista pubblicista, “Premio Guidarello per il giornalismo d'autore” 2010 per la sezione cultura, ha pubblicato e pubblica sulle terze pagine dei quotidiani “Avvenire”, “il Corriere di Romagna”, “il Resto del Carlino”, “La Voce di Romagna”, “Prealpina”, “Varese News” e sui periodici “la Ludla”, “la Piê”, “Libro Aperto”, “Stanza Letteraria” con rubriche di critica d'arte, musica, storia e letteratura. Ha compilato le voci “Dialetto”, “Folclore” e “Proverbi” per l'enciclopedia “Sguardi sulla Romagna” e ha collaborato all’ “Antologia della letteratura romagnola” di prossima uscita.
Ma, al di là di questi sintetici dati, nella mia vita e nella mia professione c’è soprattutto il desiderio di vivere con gli altri quella cultura che ci rende più “umani” e vicini in una comune condivisione. Ricordo le mie prime esperienze, come animatore del Comune di Milano, quando mi aggiravo nelle nebbie delle periferie per ricercare, raccogliere e insegnare a leggere e scrivere agli ultimi analfabeti che venivano dal sud. Poi, gli anni di insegnamento nei licei della Milano “bene”, anzi della Milano “da bere” … situazioni ed ambienti diversissimi, che mi hanno messo in grado di saper apprezzare e godere di culture e persone tanto lontane.
Per questo, anche nella mia attività giornalistica ho sempre rifuggito dallo specialismo e mi è piaciuto scrivere, mettendomi in sintonia con generi e periodi diversi: dall’ultima edizione di “Kind of blue” di Miles Davis, ai concerti grossi di Corelli, ai cori delle mondine. Oppure, cambiando campo, dalle eroine di Crepax, ai tesori della grafica rinascimentale, all’architettura liberty. Ecco, lo scrivere è come un dono, il dono di un piacere condivisibile e condiviso, un essere per sé e per gli altri.



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