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venerdì 20 ottobre 2017

"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere




"La cognizione del dolore" e la lettura come piacere

Il solo vero romanzo europeo del '900 italiano è molto citato e poco gustato. Ecco perché


Come si scrive un capolavoro? Il capolavoro, intanto, deve friggere al sole della disciplina. Così l'Ingegnere alla sorella, Clara Gadda, il 29 settembre 1937. «Non mi sposerò mai ed è inutile che ti disturbi e ti affanni per questo...
Sono sistematissimo, perché spendo sempre meno di quello di cui posso disporre: ho 100, spendo 90. Non fumo, non bevo, non mi lascio imbarcare in complicazioni di nessun genere: qualche pranzo offerto (in ricambio), un taxi a una signora con cui si è stati da altri, ed è tutto... Sono singolarmente favorito nell'economia dalla assoluta noia che i divertimenti destano in me (cinema, teatri, varietà.) Neppure vado mai al caffè. Solo libri: e qualche concerto. Molte passeggiate a piedi, che mi consumano i tacchi delle scarpe (15 lire ogni 3 mesi per la risolatura)». Vita monastica, niente fumo, niente vino, passeggiate corroboranti, tirchieria salutare, qualche avventura erotica ma nessuna moglie, per carità, non capirebbe l'ossessione da speleologo dei linguaggi: ecco l'autobiografia dello scrittore di capolavori.
Come si sa, l'origine della Cognizione del dolore, il capolavoro di Gadda (lo dice lui: alla domanda «Tra i suoi libri, quale le sembra il più importante?», segue replica, «Mah... forse La cognizione del dolore»), è la morte della madre, Adele Gadda Lehr, spirata il 2 aprile 1936 («Mi ha lasciato in un grande dolore e in una disperata solitudine», scrive lo scrittore a Gianfranco Contini). Da lì, la scrittura mesmerica, catatonica, della Cognizione, che esce a puntate, tra il 1938 e il 1941, su Letteratura, la rivista diretta da Alessandro Bonsanti, e infine, monolite romanzesco, il menhir della letteratura italiana del Novecento, in volume, per Einaudi, nel 1963, a Gadda già plurisessantenne, già celebre e celebrato - Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uscito per Garzanti, fu un successo di pubblico, «all'inizio del 1958 può vantare tre edizioni e oltre 10.000 copie vendute» - già tramutato da rospetto ingegnere a «una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren».
Il libro fu esaltato da tutti - «La cognizione del dolore riemerge dopo oltre vent'anni, e si pone naturalmente, senza sforzo, alla punta della letteratura attuale», scrive Guido Piovene - e vinse, nel tripudio di timori di Gadda, che si sentiva «una pupazza agitata dal tirannico volere altrui», «un cencio che svolazza nel buio», il Premio Formentor. Fragrante testimonianza di quei giorni è l'intervista rilasciata alla Rai nel 1963. Gadda si trincera in uno spudorato pudore. Per spiegare la ragione del titolo del suo romanzo, La cognizione del dolore, inforca gli occhiali, abbassa lo sguardo, legge un foglio. Chiede perdono. «Il titolo è troppo lontano da ogni forma di gioia e d'illusione che mi possa valere il consenso di chi deve pur vivere: di ciò chiedo perdono a coloro che vivono e che ancora vivranno». Perché implora - voluttuosamente - perdono, Gadda? Perché «cognizione è anche il procedimento conoscitivo, il graduale avvicinamento a una determinata nozione. Questo procedimento può essere lento, penoso, amaro, può comportare il passaggio attraverso esperienze strazianti della realtà». Scrivere è dire il dolore come non è mai stato detto, straziare la realtà, tramutare i verbi in sentenze di marmo, narrare la «scemenza del mondo», la «bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (così la grottesca e struggente chiusa della Cognizione, dal titolo L'editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'autore, in cui Gadda sfotte, serissimo, se stesso).
Gadda, nipote geniale del Manzoni - tra i personaggi dei Promessi sposi sentiva una ironica complicità con Don Abbondio, «il quale non ha altro torto di fronte alla morale illustre se non quello di aver ceduto alla violenza e al terrore di questa violenza» - che sotto il velo di Maya della Provvidenza riteneva che la Storia fosse un tritacarne e che il male fosse il suo scudiero (ripassatevi la Storia della colonna infame poi ci risentiamo), cuginetto di Carlo Dossi, scrive il vero, il solo romanzo pienamente europeo del Novecento italiano, che sta al fianco del Doctor Faustus di Thomas Mann, del caos glossolalico di James Joyce, dell'opera di William Faulkner - con cui condivide l'ossessione per le genealogie e le sferzate linguistiche -, delle ubriacature lessicali di Malcolm Lowry. Il problema è che non ci crediamo. Tutti citano Gadda con deferenza, come si cita la reliquia di un santo di cui ignoriamo l'entità dei prodigi, ma nessuno lo legge. Una edizione economica Garzanti della Cognizione del dolore, pubblicata vent'anni fa, sentiva l'urgenza di specificare, a mo' di sottotitolo, «Un capolavoro del Novecento»; da anni l'Ingegnere è ostaggio degli accademici, è il Frankenstein della critica italiana.
Ne è un esempio la mostruosa edizione stampata da Adelphi (pagg. 384, euro 24), per la cura di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela: a 210 pagine di romanzo fatto&finito ne seguono 144 di apparati, note e noterelle. Dove, sostanzialmente, non ci sono inediti se non le «due redazioni di una risposta scritta di Gadda a una intervista riguardante i suoi rapporti con la madre» per Oggi, che non risulta pubblicata. Insomma, il tomo è un mattone che non agevola la lettura di un testo linguisticamente intricatissimo, la cui trama si riassume in una frase: siamo nel 1934 e don Gonzalo Pirobuttirro, che abita a Lukones, un villaggio del Maradagàl, attende la visita di un dottore; dicono che don Gonzalo, spesso lontano da casa, sia scorbutico e violento, che maltratti la madre, la quale, alla fine del libro, incompiuto, è nella sua camera, moribonda, dopo una aggressione compiuta non si sa da chi. L'esercizio, piuttosto, è quello di leggere Gadda nel proprio studio, da soli, ma soprattutto di leggerlo a scuola, ogni giorno, usandolo come un talismano, sostituendo la Cognizione del dolore alle lagne di Pavese, alle arlecchinate di Calvino, al civismo spompo di Pasolini.
Parte seconda, capitolo V: «Non vide più nulla. Tutto fu orrore, odio. Il tuono incombeva sulle cose e le fulgurazioni dell'elettrico si precipitavano all'ira, grigliate in rinnovati attimi dalle stecche delle gelosie chiuse, nell'alto. Ed ecco lo scorpione, risveglio, aveva proceduto, come di lato, come a raggirarla, ed ella, tremando, aveva retroceduto dentro il suo solo essere, distendendo una mano diaccia e stanca, come a volerlo arrestare. I capegli le spiovevano sulla fronte, non osava dir nulla, con labbri secchi, esangui: nessuno, nessuno l'avrebbe udita, sotto il fragore». Basta questo, basta leggere, questo è Gadda, musica, puro bagliore. Vi diranno che non potete capire, che per gli studenti Gadda è troppo complicato, è troppo. Non c'è bisogno di capire. Basta percepire la grandezza. La letteratura è una vertiginosa parete di rocce, senza appigli. L'assoluto non ha misura.




domenica 15 ottobre 2017

La letteratura è un circo dove va in scena il "Ray Bradbury Show"

Ray Bradbury

La letteratura è un circo dove va in scena il "Ray Bradbury Show"

Nuova edizione dell'antologia di interviste all'autore di fantascienza: sempre spettacolare

Il bambino ha cominciato a inventare Marte in riva al lago Michigan. Mamma Esther viene dalla Svezia, odia la città dove abita, Waukegan, Illinois, e sogna una vita da film. Per suo figlio Ray ha preteso il secondo nome, Douglas, come Douglas Fairbanks, l'attore de Il segno di Zorro e di Robin Hood.
Papà Leonard fa il tecnico dei telefoni, è sempre in bolletta, discende da Mary Bradbury, che nel 1692, a Salem, fu accusata di essere una strega.
Le leggende che raccontano come Ray Bradbury, il più grande scrittore di fantascienza del pianeta, cominciò a scrivere sono infinite - tutte, per altro, sparpagliate da Ray medesimo. Io ne ho contate cinque. La prima è quella più banale, dickensiana. Il piccolo Ray non sa come passare le giornate a Waukegan: la mamma lo affida allo zio, che gli legge Il meraviglioso mago di Oz e Tarzan delle scimmie. «Non potrò mai esprimere la mia gratitudine verso Edgar Rice Burroughs e il suo Tarzan», dirà Ray, decenni dopo. La seconda leggenda è freudiana. «Avevo 6 anni, avevamo il bagno in cima alla scala e di notte, per accendere la luce, dovevo correre fino a metà della rampa. Sfidavo la tenebra, immaginando l'abisso in cima alle scale...». Scrivere fu esorcizzare la paura del buio. La terza leggenda è splatter. «Ci eravamo appena trasferiti a Los Angeles, avevo 15 anni, ci fu un terribile incidente. Due automobili si scontrarono. Morirono in cinque. Vidi i loro corpi. Orribilmente mutilati. Fu uno shock». Non si sa se fu il sangue ad avviare la carriera di Bradbury, è certo che Bradbury non prenderà mai la patente, «sono terrorizzato dalle automobili». La quarta leggenda è intellettuale. «Perché mi sono messo a scrivere? Perché non ne potevo più del romanzo americano. Che si riassume così: un intellettuale ebreo di New York, di mezza età, scopre che esiste la morte e, torturato dai dubbi, non sa se tornare dalla moglie, dall'amante o dal suo ragazzo. Il romanzo va avanti pretendendo che il lettore si domandi: il protagonista scoprirà il senso della vita? E lo scrittore avrà finalmente scritto il Grande Romanzo Americano? Ecco, roba del genere non la voglio più leggere. Nel genere fantastico, al contrario, c'è tutto, c'è tutto l'uomo, c'è tutto il bello del mondo, la scienza, l'etica, l'estetica, l'urbanistica, la politica, l'architettura, la musica...».
La quinta leggenda è quella più bella. L'ha raccontata Ray Bradbury nel 2001 e la ri-racconta Margaret Atwood introducendo la nuova edizione di Listen to the Echoes: The Ray Bradbury Interviews (a cura di Sam Weller, Hat & Beard Press, pagg. 224, $ 45), a cinque anni dalla morte del geniale inventore di mondi alieni. Siamo nel 1932, Ray ha 12 anni e non è un gran giorno. Il giorno dopo, infatti, seppelliscono lo zio, quello che lo ha introdotto al mondo di Oz e a quello di Tarzan. Per sconfiggere la tristezza, Ray va al circo. Dentro al tendone c'è un mago, Mr. Electrico. «Quell'uomo creava meraviglie. Era seduto su una sedia illuminata, il suo vestito emanava scariche elettriche. Aveva una spada fosforescente in mano. Mr. Electrico guardò la folla degli spettatori, si avvicinò verso di me, mi toccò il cranio con la spada. I capelli mi si rizzarono e scintille svolazzavano tra le ciglia. Vivi per sempre!, mi disse, profetico, Mr. Electrico». Il ragazzino torna a casa, turbato. «Il giorno dopo avevo il funerale dello zio. Cosa voleva dire quel vivi per sempre?». Il giorno dopo, dopo aver sepolto lo zio, Ray torna al circo. Mr. Electrico è seduto davanti al tendone, sembra attenderlo. Il tizio piglia Ray per mano, lo porta dentro il tendone. «Vidi l'Uomo Tatuato, la Donna Cannone, lo Scheletro Umano e l'acrobata e tutta quella strana gente del circo». Poi, per strada, Mr. Electrico svela l'arcano. «Noi ci siamo già visti, mi disse il mago. Certo che no, gli risposi. Ma certo, disse lui. Tu eri il mio migliore amico che è morto in Francia, durante la Prima guerra, alle Ardenne. Ora sei tornato, vedo l'anima del mio amico nei tuoi occhi. Bentornato nel mondo, amico mio. Da allora, non ho smesso di scrivere».
La leggenda è straordinaria, i fatti sono più banali. Bradbury deve il suo successo agli Jedi. Mi spiego. Bradbury comincia a scrivere presto. A 18 anni fonda una rivista, Futuria Fantasia, illustrata da Hannes Bok, che dura quattro numeri e ora è roba lussuriosa per collezionisti. Quanto a letteratura, ha le idee chiare. Legge Robert Frost e Aldous Huxley, non sopporta Norman Mailer e Kurt Vonnegut, odia «tutta quella spazzatura che c'è in giro e che vende milioni: ha presente Via col vento? Ecco. Storie scritte da donne, per donne in cerca di avventura che devono tenere a bada quelle bestie chiamate uomini». Negli anni Quaranta Ray conosce Leigh Brackett, scrittrice di fantascienza piuttosto affermata, sceneggiatrice fidata per Hollywood (è lei la mente Jedi de L'Impero colpisce ancora). Nel 1946 con una mano la Brackett firma insieme a Bradbury Lorelei of the Red Mist e con la sinistra, con William Faulkner, completa la sceneggiatura de Il grande sonno. Bradbury, questo incrocio fantomatico tra Ernest Hemingway - che adorava - e Neil Armostrong - l'astronauta - è pronto, come si dice, a spiccare il volo. Dal 1946, la data del primo racconto delle Cronache marziane - che poi nella raccolta, edita nel 1950, è l'ultimo, La gita di un milione di anni - al 1951, l'anno de Il gioco dei pianeti e di Fahrenheit 451, si esplicita e si esaurisce la vena narrativa autentica, indimenticabile, di Bradbury. «Non faccio fantascienza», si ostinava a dire a ogni sacrosanta intervista, «le mie storie sono come i miti dei Greci, dei Romani, degli Egizi, sono come i miti della Bibbia».
L'intervista più intelligente, ad ogni modo, Ray la rilasciò a Oriana Fallaci, nel 1968. «Prepariamoci a scappare, scappiamo per continuare la vita su altri pianeti, per ricostruire su altri pianeti le nostre città: non saremo a lungo terrestri!», diceva. «Scordiamo il nostro sistema solare, scordiamo il nostro corpo, importa solo che in qualche modo la vita continui, e con la vita continui la coscienza di ciò che fummo e facemmo e imparammo: la coscienza di Omero, la coscienza di Michelangelo, la coscienza di Galileo, di Leonardo, di Shakespeare, di Einstein! E il dono della vita continuerà in eterno». Così, infine, si realizzerà la profezia di Mr. Electrico, mago lisergico di periferia, che negli anni Trenta profetizzò a Ray, vivi per sempre.



mercoledì 4 ottobre 2017

Julien Green / La vertigine fulminea della scrittura

Julien Green

Julien Green, la vertigine fulminea della scrittura

Davide Brullo
Pare un personaggio creato da Henry James, uno di quegli americani «cosmopoliti» che fanno dell'esilio una condizione spirituale. Decisamente bello smagliante la somiglianza con Gary Cooper Julien Green è il fauno della contraddizione. Nasce nel 1900 a Parigi da genitori statunitensi, rifiuta la cittadinanza francese, ma scrive la sua opera oceanica le Oeuvres complètes stampate per Gallimard sono all'ottavo volume nella lingua di Pascal. Eppure, per una vita ha desiderato trasferirsi in Italia, progettando, a novant'anni suonati, di comprare, a Forlì, la villa appartenuta a Caterina Sforza. L'Italia, per inciso, la visitò con la blusa della Croce Rossa americana: prestava servizio, lui, apolide e apolitico, sull'Isonzo, durante la disfatta di Caporetto. Questo scrittore che ha passeggiato lungo il secolo se ne va, pimpante, nel 1998 con inconsueta intelligenza, esordisce, sotto mentite spoglie (si firmò Théophile Delaporte), nel 1924 con un corrosivo Pamphlet contre les catholiques de France, prontamente «nasato» da Leo Longanesi che lo fa tradurre per L'Italiano. Eppure, dopo una crisi fatale, sentendosi un «giocattolo in mano del demonio», Green, convertito al cattolicesimo nel 1916, torna a sprofondare in Dio.
Romanziere raffinatissimo, esegeta delle inquietudini, chiromante del dubbio, Julien Green torna a noi, invece, grazie all'editore Nutrimenti che ne raduna i racconti, scritti tra il 1920 e il 1956, sotto il titolo Vertigine. Di che vertigini si tratti, lo dice l'autore: «Quando ci si sporge su se stessi, si scopre un abisso». I racconti l'ispirazione sta tra Edgar Allan Poe e l'aforisma pascaliano a volte brevissimi come il fulmineo Il duello indagano i sottoscala della psiche. A Julien Green piaceva Fabien, se non altro perché in quel ragazzo «di una bellezza pagana», dalla «natura profondamente contemplativa», spiato dalle ante di un armadio nel racconto non accade altro ritraeva se stesso.
Genio dell'egotismo appartiene alla nobile schiatta che da Montaigne e Rousseau arriva fino a Montherlant Green parla sempre di sé. Nei suoi diari (una volta li editava Mondadori...), tra i più stupefacenti esempi del genere, alterna, nello stesso ring di giorni, l'aforisma («Un libro è una finestra dalla quale si evade»), la stoccata («Anglosassoni. Nevrastenici dalle rosee guance»), l'analisi politica (siamo nel 1941: «La Germania non può smettere di vincere, se vuol vivere. Esser tutto questo è il suo programma»), una morale ironica («Dio non parla ai chiacchieroni») e una esistenziale («Tutti i morti sono maggiori di noi»).




martedì 26 settembre 2017

La letteratura inglese alla maniera di Silvio D'Arzo

Silvio D'Arzo

La letteratura inglese alla maniera di Silvio D'Arzo

Davide Brullo
13/04/2017
Partiamo da un quadro. Si intitola Il sogno di Dickens, lo ha dipinto Robert William Buss, nel 1870. Il quadro lo trovate al 48 di Daughty Street, Londra, nella sede del «Charles Dickens Museum». Lo scrittore Dickens è ritratto nel suo studio, mentre sonnecchia sulla sedia, assediato dalla rutilante teoria dei protagonisti dei suoi romanzi. La stessa cosa accade a Teddy Ted, «un uomo pieno di espedienti», nel pieno di un «esaurimento nervoso», che «covava in cuore da anni l'idea di scrivere un grosso romanzo, per comprarsi un vestito decente». Ogni sera Teddy Ted, che di mestiere fa il «maestro supplente», torna a casa, si siede nel suo studio e una falange di personaggi gli gira in torno. «Il primo a sbucar fuori era Tarzan», poi Mowgli comincia a concionare «mettendosi a saltare qua e là», allora Alice con «il suo Coniglietto» si arrabbia, ma interviene, piccato, «il piccolo Lord Fauntleroy» e poco dopo fa capolino «il vecchissimo Robinson Crusoe tenendo per mano Pinocchio» e con lui arrivano David Copperfield, Topolino, John Silver...
La figura fittizia di Teddy Ted adombra quella di Ezio Comparoni, che è noto alla letteratura come Silvio D'Arzo (1920-1952), talento eccentrico e precocissimo (a vent'anni griffa per Vallecchi All'insegna del buon corsiero), autore di Casa d'altri, «un racconto perfetto», secondo il giudizio di Eugenio Montale. Teddy Ted è il docile eroe di Una storia così, spassoso racconto incompiuto di D'Arzo che è la radiografia delle sue letture preferite. Nel 1946 D'Arzo si rivolse a Vallecchi: voleva allineare i suoi «saggi su autori inglesi» in un tomo intitolato Contea inglese. Il libro non vide luce, ma viene ricostruito, ora, con lo stesso titolo, per Corsiero Editore (pagg. 212, euro 18,50) allineando gli articoli e alcuni brandelli narrativi che Comparoni/D'Arzo ha scritto adottando svariati pseudonimi per quotidiani (Il Giornale dell'Emilia) e riviste (Il Contemporaneo e Paragone). Nel canone di D'Arzo c'è spazio per Stevenson, per Daniel Defoe, per T. E. Lawrence, per Joseph Conrad, per Hemingway e ovviamente per Kipling. Grazie a D'Arzo la furia fantastica vince sul realismo becero. Per una letteratura fatta di vento, corse e sciabolate.


mercoledì 13 settembre 2017

Da Rushdie a Littell / Il romanzo dà scandalo

Jonathan Littell

Da Rushdie a Littell: il romanzo dà scandalo

Sono molte le opere che hanno tratto forza dagli attacchi subiti. Meritati o meno


Partiamo da un dato indubitabile. Finché se ne parla ha ragione lui, l'artista. Il problema è capire se il libro di cui si parla è un capolavoro o una sòla.
Una volta era un caso letterario, chessò, Madame Bovary, I fiori del male, L'amante di Lady Chatterley, libri che letti oggi sono affari da educande in mutandoni, adesso si bercia di Twilight o delle Cinquanta sfumature di... Questi non sono casi letterari, ma casi clinici di un sistema editoriale allo sbaraglio. O casi da sociologia spiccia, come i romanzi di Giuseppe Cattozzella, che piacciono a tutti per la loro onesta ovvietà; o come il romanzo di Paolo Cognetti, Le otto montagne, che piace a tutti perché dice quello che tutti vogliono sentirsi dire.
Per carità, nel 2004 divenne un caso un romanzo francamente brutto come Il codice da Vinci di Dan Brown, a difenderlo dalle armate cattoliche si mise pure un esimio prof di Cristianesimo antico come Remo Cacitti. Il caso letterario, oggi, nell'epoca in cui si vendono libri come hamburger, ha una patologia piuttosto chiara: di solito riguarda libri esteticamente dimenticabili, oppure libri dai temi scottanti, che indignano i pavidi moralisti, i critici con parrucca e tutù. Michel Houellebecq è un genio nel trovare temi che titillano la pruderie dei giornalisti - pensate alla cagnara intorno a Piattaforma, accusato di istigare alla pedofilia, o a Sottomissione. Diverso il caso di Jonathan Littell, che 10 anni fa se ne esce con Le benevole, la storia turgida di Maximilian Aue, audace ufficiale delle SS: del romanzo - eccellente - si parlò così tanto che a Littell s'inceppò l'ispirazione, da allora ha scritto soltanto saggi. La questione, comunque, è di una semplicità allarmante: per diventare un «caso letterario» devi essere morto - vedi Guido Morselli o Dante Virgili -, devi essere un omosessuale che parla di gagà, di edonismo dozzinale e di notti violente - ad esempio, Rimini di Pier Vittorio Tondelli, presentato in pompa, nel 1985, da Roberto D'Agostino, censurato dalla Rai - o scagliarti contro una religione qualsiasi, meglio se l'islam - Salman Rushdie è un autore degno di essere letto dal 1988, quando pubblica I versi satanici e Khomeini lo condanna a morte - in alternativa (si rischia meno) va bene il cristianesimo.
D'altronde, le polemiche intorno al libro di Walter Siti, irrilevanti - di un libro non conta il tema ma la forma - sono pallide rispetto a quelle che aureolarono alcuni libri, violentissimi, di Giovanni Testori (esempio: La Cattedrale e Passio Laetitiae et Felicitatis) o Il papa di Giorgio Saviane, di cui non si ricorda nessuno.





RETRATOS AJENOS
Jonathan Littell

FICCIONES

MESTER DE BREVERÍA

RIMBAUD

DANTE



martedì 12 settembre 2017

Nabokov sconsiglia: "Camus insignificante"

Vladimir Nabokov


Nabokov sconsiglia: "Camus insignificante"

Il grande scrittore ha concesso poche interviste. Ma sono memorabili


Visitare Vladimir Nabokov nel suo studio era come fare un tour nel cervello di Dio il giorno prima della creazione. Lo studio era spoglio, pieno di schede.


Sulle schede, Nabokov appuntava brandelli di romanzo. «Non scrivo di seguito, partendo dal principio per passare al capitolo successivo», raccontava a un giornalista, nel 1962, «mi limito a riempire i vuoti del quadro del puzzle che ho ben chiaro in mente prendendo un pezzo qua e un pezzo là». Le schede, poi, impilate, chiarite, limate, davano come risultato il romanzo. Nabokov, che per passare il tempo creava enigmi per gli scacchi, era un entomologo di genio, «per circa quindici anni, dopo essermi trasferito in America nel 1940, ho dedicato un'enorme quantità di tempo più ancora di quanto ne abbia concesso alla scrittura e all'insegnamento allo studio dei lepidotteri». Catturava farfalle, «non poche farfalle sono state battezzate con il mio nome, e in questi casi il mio nome diventa nabokovi». In certe foto lo si vede maneggiare un enorme acchiappafarfalle, la rete è delicata e traslucida come il velo da sposa di una zarina. Con la stessa acribia, Nabokov, il più intelligente scrittore dell'Occidente moderno, catalogava, pinzava e metteva sotto teca i suoi personaggi. Nel 1969 la rivista Time gli dedica la copertina. Il romanziere, che vantava una discendenza da Gengis Khan («pare abbia messo al mondo il primo Nabok, un principotto tataro del dodicesimo secolo che sposò una damigella russa») e il cui genitore, Vladimir Dmitrievich Nabokov, già Ministro di giustizia sotto lo zar Alessandro II, fu ucciso da «due biechi manigoldi, il 28 marzo 1922, durante una conferenza a Berlino», è ritratto con la testa ampia, qualche farfalla che svolazza intorno al cranio, gigantesco, la cattedrale di San Basilio sopra la spalla destra e il titolo, roboante, «Il romanzo è vivo. E vive in Antiterra». Il titolo fa riferimento al romanzo pubblicato quell'anno da Nabokov, Ada o ardore, ambientato nel mondo parallelo di Antiterra. Ada è il sesto romanzo scritto in inglese (non il più bello, ma il più complesso) di uno scrittore che ha saputo scrivere capolavori in russo (La difesa di Luzin e Il dono, ad esempio), quando, in esilio dalla Russia «rivoluzionaria» («in Russia, nemmeno il genio può salvare») viveva tra Berlino e Parigi («deve sapere che eravamo disperatamente poveri e io davo lezioni di tutto, di tennis, di boxe, di grammatica»), ed è installato dalla Modern Library, con tre libri (Lolita, Fuoco pallido e Parla, ricordo), tra i 100 capolavori della letteratura in lingua inglese del Novecento. Secondo la leggenda, Nabokov odiava essere intervistato («mi vanto di essere una persona priva di interesse per il pubblico: non mi sono mai ubriacato, non dico mai le parolacce, non c'è nulla che mi annoi quanto i romanzi politici e la letteratura a sfondo sociale») e disprezzava le interviste. Secondo la leggenda, Nabokov negava la pubblicazione di interviste che non fossero raffinate dal suo maglio linguistico. «Le domande dell'intervistatore devono essere inviate per iscritto, ricevono risposte scritte, e le risposte devono essere riprodotte alla lettera». Nel 1973 Nabokov fu diabolico: estrasse alcune interviste dal suo archivio (una ventina), le rassettò a dovere, riscrivendole, poi le pubblicò come Strong Opinions (in Italia ha tradotto tutto Adelphi in Intransigenze, nel 1994). Il volume era adornato da una prefazione d'autore, dall'incipit superbo, da romanzo: «Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». Ora, quarant'anni dopo la morte di Nabokov anche gli dèi, infine, finiscono sotto terra Robert Golla, in Conversations with Vladimir Nabokov (University Press of Mississippi, pagg. 224, $ 60.00), stampa le restanti interviste, così come furono pubblicate, tra il 1958 e il 1977. Comunque lo leggi, Nabokov è sempre corrosivo e salutare: disprezza la Beat Generation («non m'interessano le scuole o i movimenti, non appartengo ai club»), dileggia «le pretenziose assurdità di Mr. Pound, quell'impostore integrale», ritiene una truffa il successo planetario del Dottor Zivago («i sovietici spararono ipocrite bordate contro il romanzo di Pasternak allo scopo di aumentare le vendite all'estero un qualsiasi russo intelligente capirebbe subito che è un libro filobolscevico»), ama Anna Karenina («il supremo capolavoro della letteratura dell'Ottocento») ma «detesto ardentemente I fratelli Karamazov e quella atroce litania che è Delitto e castigo, adora l'Ulisse di Joyce ma «inorridisco davanti a Finnegans Wake» e «non sopporto Hemingway» e «Brecht, Faulkner, Camus per me non significano un bel niente e devo farmi forza per non sospettare un complotto contro il mio cervello quando vedo critici e colleghi scrittori che ne parlano come di grande letteratura». Nabokov, cannibale del linguaggio, lo scrittore che edificò l'impero della pura individualità contro le «spaventose insulsaggini della propaganda sovietica», rischia di essere più interessante dei suoi arzigogolati romanzi?

IL GIONALE