Ray Bradbury |
La letteratura è un circo dove va in scena il "Ray Bradbury Show"
Nuova edizione dell'antologia di interviste all'autore di fantascienza: sempre spettacolare
Nuova edizione dell'antologia di interviste all'autore di fantascienza: sempre spettacolare
Il bambino ha cominciato a inventare Marte in riva al lago Michigan. Mamma Esther viene dalla Svezia, odia la città dove abita, Waukegan, Illinois, e sogna una vita da film. Per suo figlio Ray ha preteso il secondo nome, Douglas, come Douglas Fairbanks, l'attore de Il segno di Zorro e di Robin Hood.
Papà Leonard fa il tecnico dei telefoni, è sempre in bolletta, discende da Mary Bradbury, che nel 1692, a Salem, fu accusata di essere una strega.
Le leggende che raccontano come Ray Bradbury, il più grande scrittore di fantascienza del pianeta, cominciò a scrivere sono infinite - tutte, per altro, sparpagliate da Ray medesimo. Io ne ho contate cinque. La prima è quella più banale, dickensiana. Il piccolo Ray non sa come passare le giornate a Waukegan: la mamma lo affida allo zio, che gli legge Il meraviglioso mago di Oz e Tarzan delle scimmie. «Non potrò mai esprimere la mia gratitudine verso Edgar Rice Burroughs e il suo Tarzan», dirà Ray, decenni dopo. La seconda leggenda è freudiana. «Avevo 6 anni, avevamo il bagno in cima alla scala e di notte, per accendere la luce, dovevo correre fino a metà della rampa. Sfidavo la tenebra, immaginando l'abisso in cima alle scale...». Scrivere fu esorcizzare la paura del buio. La terza leggenda è splatter. «Ci eravamo appena trasferiti a Los Angeles, avevo 15 anni, ci fu un terribile incidente. Due automobili si scontrarono. Morirono in cinque. Vidi i loro corpi. Orribilmente mutilati. Fu uno shock». Non si sa se fu il sangue ad avviare la carriera di Bradbury, è certo che Bradbury non prenderà mai la patente, «sono terrorizzato dalle automobili». La quarta leggenda è intellettuale. «Perché mi sono messo a scrivere? Perché non ne potevo più del romanzo americano. Che si riassume così: un intellettuale ebreo di New York, di mezza età, scopre che esiste la morte e, torturato dai dubbi, non sa se tornare dalla moglie, dall'amante o dal suo ragazzo. Il romanzo va avanti pretendendo che il lettore si domandi: il protagonista scoprirà il senso della vita? E lo scrittore avrà finalmente scritto il Grande Romanzo Americano? Ecco, roba del genere non la voglio più leggere. Nel genere fantastico, al contrario, c'è tutto, c'è tutto l'uomo, c'è tutto il bello del mondo, la scienza, l'etica, l'estetica, l'urbanistica, la politica, l'architettura, la musica...».
La quinta leggenda è quella più bella. L'ha raccontata Ray Bradbury nel 2001 e la ri-racconta Margaret Atwood introducendo la nuova edizione di Listen to the Echoes: The Ray Bradbury Interviews (a cura di Sam Weller, Hat & Beard Press, pagg. 224, $ 45), a cinque anni dalla morte del geniale inventore di mondi alieni. Siamo nel 1932, Ray ha 12 anni e non è un gran giorno. Il giorno dopo, infatti, seppelliscono lo zio, quello che lo ha introdotto al mondo di Oz e a quello di Tarzan. Per sconfiggere la tristezza, Ray va al circo. Dentro al tendone c'è un mago, Mr. Electrico. «Quell'uomo creava meraviglie. Era seduto su una sedia illuminata, il suo vestito emanava scariche elettriche. Aveva una spada fosforescente in mano. Mr. Electrico guardò la folla degli spettatori, si avvicinò verso di me, mi toccò il cranio con la spada. I capelli mi si rizzarono e scintille svolazzavano tra le ciglia. Vivi per sempre!, mi disse, profetico, Mr. Electrico». Il ragazzino torna a casa, turbato. «Il giorno dopo avevo il funerale dello zio. Cosa voleva dire quel vivi per sempre?». Il giorno dopo, dopo aver sepolto lo zio, Ray torna al circo. Mr. Electrico è seduto davanti al tendone, sembra attenderlo. Il tizio piglia Ray per mano, lo porta dentro il tendone. «Vidi l'Uomo Tatuato, la Donna Cannone, lo Scheletro Umano e l'acrobata e tutta quella strana gente del circo». Poi, per strada, Mr. Electrico svela l'arcano. «Noi ci siamo già visti, mi disse il mago. Certo che no, gli risposi. Ma certo, disse lui. Tu eri il mio migliore amico che è morto in Francia, durante la Prima guerra, alle Ardenne. Ora sei tornato, vedo l'anima del mio amico nei tuoi occhi. Bentornato nel mondo, amico mio. Da allora, non ho smesso di scrivere».
La leggenda è straordinaria, i fatti sono più banali. Bradbury deve il suo successo agli Jedi. Mi spiego. Bradbury comincia a scrivere presto. A 18 anni fonda una rivista, Futuria Fantasia, illustrata da Hannes Bok, che dura quattro numeri e ora è roba lussuriosa per collezionisti. Quanto a letteratura, ha le idee chiare. Legge Robert Frost e Aldous Huxley, non sopporta Norman Mailer e Kurt Vonnegut, odia «tutta quella spazzatura che c'è in giro e che vende milioni: ha presente Via col vento? Ecco. Storie scritte da donne, per donne in cerca di avventura che devono tenere a bada quelle bestie chiamate uomini». Negli anni Quaranta Ray conosce Leigh Brackett, scrittrice di fantascienza piuttosto affermata, sceneggiatrice fidata per Hollywood (è lei la mente Jedi de L'Impero colpisce ancora). Nel 1946 con una mano la Brackett firma insieme a Bradbury Lorelei of the Red Mist e con la sinistra, con William Faulkner, completa la sceneggiatura de Il grande sonno. Bradbury, questo incrocio fantomatico tra Ernest Hemingway - che adorava - e Neil Armostrong - l'astronauta - è pronto, come si dice, a spiccare il volo. Dal 1946, la data del primo racconto delle Cronache marziane - che poi nella raccolta, edita nel 1950, è l'ultimo, La gita di un milione di anni - al 1951, l'anno de Il gioco dei pianeti e di Fahrenheit 451, si esplicita e si esaurisce la vena narrativa autentica, indimenticabile, di Bradbury. «Non faccio fantascienza», si ostinava a dire a ogni sacrosanta intervista, «le mie storie sono come i miti dei Greci, dei Romani, degli Egizi, sono come i miti della Bibbia».
L'intervista più intelligente, ad ogni modo, Ray la rilasciò a Oriana Fallaci, nel 1968. «Prepariamoci a scappare, scappiamo per continuare la vita su altri pianeti, per ricostruire su altri pianeti le nostre città: non saremo a lungo terrestri!», diceva. «Scordiamo il nostro sistema solare, scordiamo il nostro corpo, importa solo che in qualche modo la vita continui, e con la vita continui la coscienza di ciò che fummo e facemmo e imparammo: la coscienza di Omero, la coscienza di Michelangelo, la coscienza di Galileo, di Leonardo, di Shakespeare, di Einstein! E il dono della vita continuerà in eterno». Così, infine, si realizzerà la profezia di Mr. Electrico, mago lisergico di periferia, che negli anni Trenta profetizzò a Ray, vivi per sempre.
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