giovedì 12 ottobre 2017

Claudio Magris: è una trappola il lamento di chi si dice debole




Claudio Magris

Claudio Magris: è una trappola
il lamento di chi si dice debole

Una coppia seduta al ristorante, un battibecco e un conto (sentimentale) da pagare

di CLAUDIO MAGRIS






29 settembre 2017 (modifica il 2 ottobre 2017 | 20:48)


August Macke, At the Garden Table (1914)August Macke, At the Garden Table (1914)
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«Tu non mi capisci». La coppia, al ristorante, è alle nostre spalle, la voce è piuttosto acuta e non origliare è impossibile, anche senza volerlo. La replica non si fa attendere: «Sei tu a non avermi mai capito…». In entrambe le battute la voce è intrisa di amarezza e risentimento, fusi peraltro in una miscela di compiaciuta soddisfazione. Ognuno dei due è ferito, ma è ancor più gratificato dall’essere e sentirsi incompreso. Non solo perché subire o ritenere di subire un torto mette in vantaggio rispetto all’avversario, consente di collocarsi dalla parte dell’accusa e non dell’imputato. All’orecchio dell’abusivo anche se involontario ascoltatore giunge, nel brusio di entrambe le voci, l’eco di un acre piacere, la prevaricatrice convinzione e ostentazione di sentirsi vittima, un’anima sensibile e perciò più debole, ferita da una più forte e dunque prepotente.
Una minima scena del grande teatro del mondo che spettacolarizza la congiura dei finti, anche se sinceri e convinti, deboli per imporsi ai forti o a chi cerca di comportarsi come tale, sudando sotto la fatica del vivere ma senza esibire il sudore per guadagnare la commiserazione e l’applauso del pubblico — in famiglia, sul lavoro, nella sorda guerra quotidiana di tutti contro tutti. La debolezza declamata diventa un’arma, una mossa per addossare il peso della vita a chi non si lamenta e forse per questo viene considerato meno sensibile, giustamente destinato ad accollarsi il carico senza nemmeno riscuotere gratitudine.

Congiura dei deboli, diceva Nietzsche, il quale non ignorava certo la violenza che si abbatte sui veri indifesi, il crudele «impulso annientante» della Storia, come lo chiamava, o anche solo del carrettiere che frusta senza pietà il suo cavallo sfinito, come in quella via di Torino in cui la vista di una simile crudeltà e sofferenza lo travolse in un collasso psichico che era anche uno spezzarsi del cuore. Per congiura dei deboli egli intendeva forse l’ostentazione, l’ideologia, lo sfruttamento della propria debolezza che ne fa il centro del mondo imponendo che lo facciano pure gli altri, forse non meno sofferenti e prevaricati.

Ci sono invece tante persone che dichiarano di essere troppo sensibili per sopportare la vista del dolore e, diceva Bernanos, schiacciano una piccola bestia sofferente per non vederla soffrire. Il debole che vive la propria debolezza come l’unica o la più importante, e vorrebbe che lo pensassero pure gli altri, di cui si infischia. I due, alle nostre spalle, hanno lasciato il tavolo e sono già abbastanza lontani; si sentono le loro voci, ma non le loro parole. Il tono di quelle voci suggerisce che ognuno dei due sta presentando il conto all’altro, senza che gli o le venga in mente di pagare, almeno per la propria parte.








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