giovedì 28 maggio 2020

“Il corpo” di Stephen King / Il racconto che ispirò il celebre film Stand by me

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Stephen King

“Il corpo” di Stephen King: il racconto che ispirò il celebre film Stand by me


26/05/2020

Dal racconto edito su “Stagioni Diverse” intitolato “Il corpo” è stato tratto nel 1986 il film “Stand by me – Ricordo di un’estate”, diretto da Rob Reiner, con Will Wheaton, River Phoenix e Richard Dreyfuss.


Stagioni diverse di Stephen King
Stagioni diverse di Stephen King
Nel settimo capitolo de “Il corpo”, Io Narrante si carica sulle spalle il carico dei suoi taccuini di teenager e ne deposita il pezzo più significativo nel racconto, come si fa con del materiale ingombrante (e maleodorante) che si vuol riciclare una volta per tutte:
Eppure è stata la prima storia che abbia mai scritto che sembrava la mia storia – la prima che sembrava davvero intera, dopo cinque anni di tentativi.”
Cioè da quando era appena novenne.
No, non è una storia molto bella – il suo autore era troppo preso dall’ascoltare le voci degli altri per ascoltare, come avrebbe dovuto, quella proveniente dall’interno. Ma era la prima volta che, in un racconto, usavo i posti che conoscevo e le cose che sentivo e che c’era un entusiasmo smarrito nel vedere le cose che mi avevano turbato per anni presentarsi in una nuova forma, una forma in cui avevo imposto il mio controllo.
Io è oggi uno scrittore affermato:
E anche se da allora ho scritto sette libri su gente che sa fare cose stravaganti come leggere il pensiero e prevedere il futuro, fu quella la mia prima e ultima esperienza di un lampo psichico…
Hai fatto di più, Io caro, hai permesso a chiunque di scrutare con gli occhi sbarrati nella cavità più orrida del tuo cervello.
Volevo che leggesse e al tempo stesso non volevo. Un misto scomodo di orgoglio e di timidezza che non è mai cambiato troppo dentro di me quando qualcuno chiede di vedere. L’atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione…
Non ci avevo mai pensato, ma la cosa è realistica.
Per me è sempre è un voler sesso e non arrivarci – sempre il lavoro di mano da adolescente nel bagno con la porta chiusa.”
E io che credevo che scrivere fosse soltanto un fatto di evacuazione. O di parti extra-uterini! A seconda di quel che nasce. Probabilmente è per il mio retaggio cattolico. I protestanti, specie quelli yankee, hanno meno balle in testa. Ne hanno di più fenomenali, loro.
Nei miei racconti c’erano sempre pezzi di piombo, mai proiettili.”
Perché sei un Io fatto a modo suo, anzi, tuo.
Oggi scrivere è il mio lavoro e il piacere è un po’ diminuito, e sempre più spesso quel piacere colpevole, masturbatorio, è venuto ad associarsi nella mia mente nelle fredde immagini cliniche dell’inseminazione artificiale: vengo secondo le norme e le regole stabilite dal mio contratto di edizione.”
La colpa di chi scrive è che, quando lo fa, il mondo gli è indifferente, e lui al mondo.
Oggi, qualche volta, guardo questa macchina per scrivere, e mi domando quando rimarrà all’asciutto di parole giuste. Non voglio che questo accada. Scommetto che posso rimanere in forma finché non rimango a corto di parole giuste, sapete?
C’è poi un dialogo (di cui riporto solo il discorso diretto) fra Io e Chris, un suo solidale, dopo che il primo aveva raccontato a voce una storia coram puer comitum:
“‘È una storia bellissima. Sono proprio un po’ troppo stupidi per capirla.’
‘No, non è un granché. È una fesseria.
‘Dici sempre così. Non raccontarmi cazzate che non ci credi nemmeno tu. La scrivi, la storia?’
‘Può darsi. Ma per ora no. Non posso scriverle subito dopo averle raccontate. Aspetterà.’
‘Sai, quello che ha detto Vern. Del finale che sarebbe un bidone?’
‘Be’?’
‘La vita è un bidone, lo sai. Guarda noi.’”
Stand by me
Stand by me
E poi:
“‘Ti vengono fuori così, come bolle dalla coca.’
‘Che cosa?’
‘Le storie. Mi fai morire amico. È come se potessi raccontare un milione di storie e ne avessi sempre una da aggiungere. Sarai un grande scrittore, un giorno, Gordie.’
‘No, non credo.’
‘Ma sì invece. Forse scriverai anche su di noi se mai ti trovassi a secco di materiale.’
Chris è il primo vero fan di Io.
‘È come se Dio ti avesse dato qualcosa, tutte quelle storie che sai inventare. E ti dicesse: Questo è quanto abbiamo per te, ragazzo. Cerca di non perderlo.’”
Mai avuto un amico così.
Quattordici anni dopo vendetti il mio primo romanzo e feci il mio primo viaggio a New York.”
L’editore si chiamava Keith.
… avrei voluto dirgli: L’unico motivo per cui uno vuol scrivere delle storie è per poter capire il passato e prepararsi per qualche futura mortalità. È per questo che tutti i verbi delle storie sono al passato, mio buon Keith, anche in quelle che vendono milioni di copie di paperbacks. Le uniche due forme d’arte utili sono la religione e la narrativa.
Caro Io, ti regalo un proverbio della mia terra: “ôgni cajòun gh’à la so passiòun.” Te la traduco: “every fool people has his passion.
La mia non è capire il passato, ma riviverlo. La tua non so. Il mio verbo è il presente. Il tuo è quello che si usa nei discorsi funebri, dove il morto, che i vermi stan già divorando, è sempre stato una persona dabbene.
Quello che gli dissi fu: ‘Stavo pensando ad altro, ecco tutto’, le cose più importanti sono le più difficili da dire.’”
Per questo le vado cercando dentro di me e le scaravento fuori senza manco guardarle bene in faccia.
Poi ti rivolgi a me (con lo you):
Se vi pare che ci sia una certa leggerezza da parte mia, avete ragione – ma forse ne ho motivo. A una età in cui tutti e quattro saremmo considerati troppo giovani e immaturi per fare il presidente, tre di noi sono morti. E se è vero che i piccoli eventi rimbalzano allargandosi sempre di più nel tempo, sì, forse, se avessimo fatto la cosa più semplice e avessimo fatto semplicemente l’autostop fino alla zona di Harlow, allora loro oggi sarebbero ancora vivi.
Un giorno, magari sotto sera, ti parlerò di Richard Feynman, di Hugh Everett III, di Andrej Linde e di Alan Guth. Non ci capirai un tubo, anche perché spifferò il tutto nella lingua di Dante e tu annuirai in quella di Whitman, però poi ci imbastirai su una storia da tre milioni di dollari. Faremo a metà?
A questo punto della storia, Io e i suoi amici decidono di andare a cercare il corpo dello scomparso coetaneo, che si sapeva che giaceva più o meno da quelle partiUna giovane vittima del caso di cui sopra, travolto da quello stesso treno che, per un pelo, non sotterra Io e i suoi amici che, ad un certo punto xytz dello spazio-tempo, devono mettere le ali ai piedi, mentre quel mucchio di ferraglia li rincorre emettendo grida lancinanti: Tutu! Tutu! tutu! E quei balordi, terrorizzati ma soprattutto trafelati, fuggono dalla morte e poi se la ridono come scemi. Sono soltanto mocciosi e fanno tenerezza quanto pietà.
Un capoverso mi gusta e lo riporto, perché c’è tutta la semplice ficcantezza di Io:
Facemmo un po’ di mugugni sul guarda un po’ dove ci doveva capitare di farci prendere dalla pioggia, ma solo perché era solo quello che ci si aspettava che ci dicessero – in realtà eravamo tutti ansiosi, non vedevamo l’ora che arrivasse…
Stand by me
Stand by me
La banalità di una situazione banale che banalmente diventa epica. Come traspare quando trovano quello che cercano:
Sul fondo del salto c’era una macchia di sottobosco paludoso, fangoso, che mandava un brutto odore. E da un cespuglio di more spuntava una mano bianchissima.
Qualcuno di noi respirò. Io no.”
Caspita, sembra di essere lì, insieme a quella marmaglia d’infanti!
… quella mano inerte tesa, orribilmente bianca, le dita aperte, come la mano di un bambino annegato. Ci diceva la verità di tutta la faccenda. Ci spiegava tutti i cimiteri del mondo. L’immagine di quella mano mi ritorna ogni volta che sento o leggo di un’atrocità. Da qualche parte, attaccato a quella mano, c’era il resto di Ray Brower.”
Sento un rapido sverginamento di un, ancora per poco, incontaminato Io.
Mia moglie, i miei figli, i miei amici – sono convinti che avere un’immaginazione come la mia dev’essere molto bello; a parte il fatto che mi procura un bel po’ di quattrini, ho la possibilità di vedere un piccolo film mentale ogni volta che le cose si fanno noiose. In linea di massima hanno ragione. Ma ogni tanto la cosa si rivolta e ti morde a sangue con quei lunghi denti, denti che sono stati limati e appuntiti come quelli di un cannibale. Vedi cose che davvero vorresti proprio non vedere, cose che ti tengono sveglio fino alle prime luci dell’alba. In quel momento vidi una di quelle cose, la vidi con assoluta chiarezza e certezza. Era stato strappato via dalle sue scarpe. Il treno lo aveva strappato via dalle sue scarpe, come aveva strappato la vita dal suo corpo.
Narra un’altra multiversa storia (che ha la voce squillante di mia figlia Anna) che Io aveva solo quattr’anni quando gli capitò di vedere un amichetto scivolare sulle rotaie per venire poi travolto da un treno.
Io, in stato confusionale, tornò a casa e pare che avesse dimenticato ogni cosa.
Il ragazzo era no. era il lato della batteria dove il terminale dice NEG
Era semplicemente morto, caro mio Io!
Nulla di più semplice.
“… la distanza tra i suoi piedi nudi a terra e le sue scarpe sporche di terra appese ai rovi. Era quasi un metro, era miliardi di anni luce. Il ragazzo era sconnesso dalle sue scarpe al di là di ogni possibile speranza di riconciliazione. Era morto.”
Cavoli!
Uno scarabeo gli uscì dalla bo…
E basta! Ho capito!
“… e si rende conto di quanto è sottile il velo tra la tua attitudine di uomo razionale – lo scrittore con le toppe di pelle sui gomiti sulla giacca di velluto – e i bizzarri miti gorgonici dell’infanzia.”
Io parla ora di sé, di quel che era.
In inglese was vale sia per era che per fuEi fu!
Quel ragazzo ero io, penso. E il pensiero che segue, che mi insegue come un getto di acqua gelata è: Quale ragazzo intendi?
Pensa addirittura di tornare, in incognito e senza dirlo ad anima viva (o morta) in quel mitico luogo, a cercare il secchiello da mirtilli del ragazzo che non c’è più. Il ragazzo, perché forse il secchiello è sempre là, da qualche parte. Ma che ci vuoi fare, ragazzo?
Be’, semplicemente tirarlo fuori dal tempo. Me lo rigirerei tra le mani, attento alla sensazione che produce, riflettendo sul fatto che so che l’ultima persona che l’ha toccato è da tempo sepolta.”
Lo baceresti anche, eh?
Lo stringerei, lo leggerei, lo sentirei tra le mani… e guarderei il mio viso in quei punti dove ci sarebbe rimasto del riflesso. Riuscite ad afferrare?
Sì, Io, ci riesco, senza che mi esca l’ernia, ci riesco.
A volte la mia voglia di sapere cosa sta facendo in quel momento un oggetto inanimato in una casa che so al momento deserta è assurda. Ma non ci faccio caso. E saluto da lontano quell’anima vicina.
Ma osa sta facendo ora! Non cosa faceva allora quando la vidi per l’ultima volta, e magari nemmeno le badai.
Stephen King
Stephen King
Quel ricordo, se mi ritorna, se lo rivedo dentro di me, allora lo voglio rivivere, come se fosse ambientato nel presente. È una balla, non pensare che non lo sappia, ma me ne frego. La descrivo come la ri-vedo ora.
Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuta dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore, credo – è un bel casino per uno scrittore dire una cosa del genere, penso, ma sono sicuro che è così. Se parlate per dire a una daina che non avete nessuna intenzione di farle del male, quella svanisce in un batter d’occhio. La parola è danno. L’amore non è quello che i poeti del cazzo come…”
Ognuno lo è per il prossimo, un poeta del cazzo… Ognuno, anche il , è un Autre, diceva quel tale.
Un ragionamento terribile: “L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole può chiudere quelle ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro. Credetemi pure. Io mi sono fatto una vita con le parole e so che è così.”
Sei un fingente, caro Io: “Una volta mia moglie mi chiese cos’era e io le dissi una bugia prima ancora di rendermi conto che intendevo farlo.”
Sono una persona sincera, io. Soprattutto quando mento.
Io?
Io sono uno scrittore, adesso, come ho detto. E un sacco di critici pensano che quello che scrivo è merda. Molte volte penso che abbaino ragione… ma ancora adesso mi fa girare la testa metter questa parola, ‘Scrittore’, nel punto Occupazione nei formulari che devi riempire in banca o dal dottore. La mia storia pare tanto una favola che è tanta fottutamente assurda.”
Esatto, ognuno scrive ed evacua la sua, di merde.
E mi chiedo se c’è davvero senso in quello che sto facendo, o in quello che si suppone che stia facendo, in un mondo in cui un uomo può arricchirsi giocando a ‘facciamo finta che’.”
Una buona notizia: sei capitato nel mondo giusto per te.
Io non so, ma mi sa di no.
Il ponte ferroviario è scomparso, ma il ponte è ancora in giro. E anch’io.”
E anch’io, mio caro Io.
Al prossimo racconto-cazzata, caro!


venerdì 22 maggio 2020

Le métier de la critique / Amedeo Modigliani, la straordinarietà di un artista dalla vita disordinata

Archivo:Amedeo Modigliani, 1919, Jeanne Hébuterne, oil on canvas ...

Jeanne Hébuterne, 1919

Amedeo Modigliani

Le métier de la critique: Amedeo Modigliani, la straordinarietà di un artista dalla vita disordinata


“Con un occhio cerca nel mondo esterno, mentre con l’altro cerchi dentro di te”.

Carolina Colombi
24 / 01 / 2020






Amedeo Modigliani
Amedeo Modigliani

Non è facile ricostruire la vicenda personale e artistica di Amedeo Modigliani. La leggenda creata intorno alla sua persona, di indiscutibile spessore artistico, è stata inquinata da fonti anche romanzate che hanno amplificato l’attendibilità dei fatti a lui appartenuti.
“Voglio che la mia vita sia un torrente fertile che attraversa la terra con gioia”.
Oggi, 24 gennaio 2020, a cento anni dalla morte dell’artista definito il ‘pittore maledetto’, manifestazioni e mostre a lui dedicate sono la rappresentazione plastica del ruolo che ha occupato, e ancora occupa, uno dei più autorevoli rappresentanti dell’arte del Novecento.
È dunque un atto dovuto celebrarne l’abilità artistica e fare memoria di un pittore che molto ha dato al mondo pittorico.
Ma, per avere un quadro biografico il più prossimo alla realtà, quella che gli è appartenuta, è bene mettere da parte il mito che si è creato intorno alla sua persona, e andare oltre. Lì, dove tutto ha avuto inizio.
Perché, piuttosto che nella sua biografia, disseminata di rimandi negativi relativi soprattutto alle sue condizioni fisiche, la grandezza di Modigliani sta nel suo singolare modo di interpretare la figura umana, dall’originalità piuttosto inedita.
È il 1884 quando Amedeo Modigliani vede la luce in quel di Livorno, città che rimarrà per lui solo un piccolo punto sulla carta geografica; non saranno molte, infatti, le occasioni in cui vi farà ritorno.
Fin dalla più tenera età denota una straordinaria inclinazione al disegno, e incoraggiato dalla madre che vede nel figlio un’anticipazione del mito che diverrà, si dedica con passione agli studi artistici presso Firenze, luogo della sua iniziazione.
Artista poliedrico dal tratto stilistico inconfondibile, l’attività di Modigliani prende il via nel laboratorio del macchiaiolo Guglielmo Micheli, allievo di Giovanni Fattori.
Ma, persona dal carattere inquieto, per approfondire la sua sensibilità artistica raggiunge Venezia, dove rimane particolarmente colpito dai nudi femminili e dalle opere degli impressionisti.
Ma il livornese presta attenzione anche ad artisti che fanno parte di un lontano passato artistico. I classici per eccellenza. Fra cui Simone Martini, piuttosto che Botticelli e il Bronzino.
Frutto delle sue creazioni è anche lo studio dell’arte egizia e di quella africana, espressioni in cui Modigliani si riconosce. Ed è grazie a queste forme d’arte che si viene a creare una sintesi interessante fra arte europea ed extraeuropea.
Dalle diverse suggestioni artistiche Modigliani ne ricava una tecnica personalissima, tanto da poter collocare la sua produzione a metà tra pittura e scultura. Perché inizialmente la sua aspirazione è dedicarsi alla scultura monumentale.





Chaïm Soutine, ritratto da Modigliani nel 1916
Chaïm Soutine, ritratto da Modigliani nel 1916

Sollecitato anche dall’incontro con lo scultore Brancusi, che lo sostiene nella sua idea di scultura su legno o pietra, il cui intento è far emergere tratti più duri per ‘via di levare’, come avrà modo di affermare il Modigliani.
Ma l’artista non possiede la forza fisica necessaria per fare esercizio di scultura, non gode del vigore e dell’energia che quest’attività richiede; deve quindi uniformarsi e rivolgere ogni sua attenzione all’arte pittorica. Una prova che gli riesce in maniera eccellente, portandolo a occupare un posto importante nel panorama pittorico non solo europeo.
A un certo punto della sua vita però l’ambientazione provinciale gli va stretta. Decide quindi, per rispondere alla propria vocazione, di intraprendere un viaggio che lo porterà a Parigi, crogiuolo e punto di riferimento per gli artisti in cerca di ispirazione e dell’idonea atmosfera per vedere affermato il proprio talento.
È il 1906 quando raggiunge la capitale francese, anno che rimarrà impresso nella memoria di coloro che amano l’arte di Modì, soprannome dal vago sapore francese, in stretta assonanza con la pronuncia del termine francese maudit, ovvero maledetto.
E maledetto lo sarà per davvero il Modigliani, a causa più che altro della vita dissoluta che conduce.
A Parigi, dove soggiornerà fino alla sua prematura morte, non ha il successo immediato cui aspirava. Quello arriverà postumo. Come d’altra parte accade a molti altri artisti.
Qui, entra in contatto con esponenti dello spessore artistico di Picasso, Rivera, Utrillo, Cezanne, Toulose-Lautrec e Renoir.
In alcuni di loro troverà amicizia, da altri invece sarà indirizzato verso la strada della decadenza dovuta all’uso di droghe e di alcol.
“Dipingere una donna è possederla”. – A. Modigliani
Costretto a vivere in povertà e dedito all’abuso di alcolici, che certamente non giovano alla sua cagionevole salute, povertà e tubercolosi sono i compagni di strada del grande Modì, che tuttavia si dedica in maniera ossessiva a dare il meglio di sé al mondo dell’arte.
E ciò grazie anche a due mecenati che gli danno il conforto che merita, sollevandolo da un amaro destino: il medico Paul Alexandre e il polacco Leopold Zborowski.
Fra il 1915 e il 1920 Modigliani realizza un’ampia produzione artistica, soprattutto di ritratti e nudi femminili, caratterizzati da una semplicità di disegno e da un elegante allungarsi di forme sinuose.
È il 1917 quando incontra Jeanne Hébuterne di cui si innamora perdutamente. Pittrice e modella, Jeanne gli dà una figlia e gli starà accanto fino alla sua morte, avvenuta nel 1920 a soli 36 anni.





Jeanne Hébuterne - Amedeo Modigliani
Jeanne Hébuterne – Amedeo Modigliani

Ma per Jeanne la vita senza Modì è vuota e inutile, e nell’immediatezza della sua scomparsa si uccide, perché non ammette di vivere senza il suo uomo.
“Quello che cerco non è né la realtà né l’irrealtà, ma l’inconscio, il mistero della razza umana”. – A. Modigliani
Ma quale può essere la lettura delle opere di Modigliani, tanto originali quanto insolite?
Come già accennato la prima vocazione di Modigliani è la scultura, abbandonata nel 1910 a causa delle sue precarie condizioni di salute.
A rafforzarlo nella sua passione è l’incontro con lo scultore rumeno Brancusi, che sostiene l’interesse del pittore per l’arte antica e primitiva che, con le sue forme allungate ed essenziali manifestano tratti anche duri; da qui, l’aspirazione dell’artista per una forma pura, priva di ornamento e decorazione, una suggestione che dà spazio a una forte stilizzazione.
Altrettanto interessanti sono le sue forme di espressione pittorica. Anche in queste sue raffigurazioni, come in quelle scultoree, si nota la tendenza a una forte schematizzazione della figura umana.
All’inizio, sono pennellate nervose e aguzze a definire il suo modo di dipingere, sulla falsariga di Klimt e Toulouse-Lautrec. In seguito, è la scoperta di Cezanne che suggerisce a Modigliani elementi nuovi da introdurre nei suoi soggetti, sia per l’aspetto compositivo, come per il colore e per la tecnica pittorica.
I suoi nudi e i suoi volti non hanno una connotazione esplicita di denuncia sociale, ciononostante una sottolineatura importante da interpretarsi come un atto di biasimo la si può riscontrare ugualmente nei suoi soggetti, che hanno occhi spesso vuoti, tali da fare il paio con quelli delle statue, nello specifico quelle realizzate in bronzo.
Alle rappresentazioni di questi soggetti i critici hanno dato una duplice interpretazione. In primis, la difficoltà a relazionarsi con le donne; si racconta infatti che Modigliani non dipingesse gli occhi finché non aveva carpito l’animo della modella.
Oppure, altra interpretazione, la causa del virtuoso esercizio è il suo stile di vita: troppo intenso, tale da nascondere l’uomo dietro all’artista, e di occultare l’artista dietro a simile condotta.
È inoltre da ricordare, che il suo senso classico della forma non lasciava spazio a rappresentazioni di un contesto urbano o ambientale, riproduzioni che dipingerà solo in sporadiche circostanze.



Amedeo Modigliani nel suo studio - Madame Kisling 1917 - Donna con cravatta nera 1917
Amedeo Modigliani nel suo studio – Madame Kisling 1917 – Donna con cravatta nera 1917

Il Modigliani voleva rendere l’arte una disciplina nobile accentuandone aspetti geometrici da assegnare ai suoi soggetti. Sono infatti cilindri, sfere e triangoli, coniugati in figure, a partecipare alla sua produzione artistica formata da forme molto semplificate e dai contorni netti, tanto da asserire che si assiste a una costruzione geometrica della figura, cui il pittore perviene anche grazie alle suggestioni suscitategli dall’arte primitiva di provenienza africana, celebrate nelle figure dai colli troppo lunghi e dalle proporzioni lontane da quelle reali.
Come peraltro i seni delle donne, eccessivamente sferici; che non intendono essere una deformazione della realtà, semmai la proiezione dell’idea di scultura che Modigliani non ha mai abbandonato.
Da non trascurare poi, il fatto che Modigliani eseguiva un lavoro in una o due sedute al massimo, e non ritoccava mai i suoi dipinti. Esercizio questo, che dà la misura della grandezza di uno dei massimi rappresentanti dell’arte pittorica del Novecento.
“La vita è un dono. Dai pochi ai molti: di coloro che sanno o che hanno, a coloro che non sanno o non hanno”. – A. Modigliani

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