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sabato 15 ottobre 2022

“Un movimento partigiano di una nazione partigiana” / La poetessa bielorussa Valzhyna Morte riflette sulle proteste nella sua patria

La poetessa bielorussa Valzhyna Mort. Foto (c): Tanya Kapitonova, usata con il permesso.


“Un movimento partigiano di una nazione partigiana”: la poetessa bielorussa riflette sulle proteste nella sua patria




 

Dopo le elezioni presidenziali i cui risultati sono contestati dall'opposizione e da gran parte della popolazione, gli artisti bielorussi si esprimono per denunciare la violenza da parte dello Stato ed esprimere solidarietà ai manifestanti. Valzhyna Mort, una celebre poetessa bielorussa che vive negli Stati Uniti e scrive in bielorusso e in inglese, ha parlato a Global Voices della sua risposta, delle sue impressioni e di ciò che sta facendo per sensibilizzare l'opinione pubblica.

Valzhyna Mort è l'autrice di due raccolte di poesie, “Factory of Tears” e “Collected Body”. Ha ricevuto la borsa di studio della fondazione Lannan, la borsa di studio Amy Clampitt e il premio Bess Hokins della rivista “Poetry magazine”. Insegna anche alla Cornell University. Il suo secondo libro in lingua bielorussa, “Эпідэмія Ружаў”, [The Rose Epidemic], è uscito nel 2017. Il suo prossimo libro, “Music for the Dead and Resurrected”, sarà pubblicato quest'anno.

L'intervista è stata modificata per renderla più breve.

Ricamo dell'artista bielorussa Rufina Bazlova che raffigura dei bielorussi che sostengono la candidata dell'opposizione Sviatlana Tsihanouskaya. Immagine utilizzata con il permesso.

Filip Noubel (FN): Dopo 26 anni di potere per lo più incontrastato, il presidente bielorusso Alexander Lukashenka affronta ora la più grande sfida al suo governo, tra manifestazioni e scioperi. Perché proprio ora?

Valzhyna Mort (VM): Questo doveva essere un cambio di potere pacifico nel mio paese. Questo momento è durato così tanto perché la gente non voleva la violenza. Noi bielorussi, che abbiamo sopportato molte guerre, diremmo a noi stessi: “Sopportiamo ancora un po’. Nessuna rivoluzione vale una vita umana”.

Quest'anno, quando i candidati presidenziali sono stati imprigionati e dichiarati criminali durante la notte, la gente è stata commossa dalla chiarezza di quanto sia debole e patetico il nostro governo. I bielorussi non devono fare nulla per far sì che il loro governo li tema, basta semplicemente esistere. La polizia antisommossa e le truppe del Ministero dell'Interno commettono violenza contro persone indifese. È cominciata con persone che sono state picchiate e arrestate per aver fatto un segno di vittoria mentre andavano al lavoro. In questo momento, la polizia antisommossa sta trascinando le persone fuori dai negozi di alimentari e dalle loro auto a caso, picchiandole e arrestandole.

Quando i brogli elettorali sono iniziati con la formazione di comitati elettorali e il mancato accreditamento di osservatori indipendenti, è sembrato ovvio che fosse necessario opporsi seguendo i  passi legali più elementari. Anche se il tribunale controllato dallo Stato non era d'accordo, solo il fatto di un'udienza sulla questione ha reso visibile la corruzione. Un forte senso di solidarietà di base che si era già formato durante la pandemia della COVID-19, quando il governo non era riuscito a offrire un sostegno sistematico, si è sviluppato in un impegno civile ben informato. Quando sono iniziate le frodi ai seggi. Io, pur essendo dall'altra parte dell'oceano, ho avuto la sensazione di vedere attraverso i muri e di leggere le menti peccaminose dei funzionari.

Allo stesso tempo, il governo non sapeva cosa aspettarsi dal suo popolo. Forse si aspettava la violenza? È per questo che la polizia e le truppe antisommossa continuano a comportarsi come se qualcuno li stesse attaccando? Poco fa ho visto la foto di un quindicenne immobile a terra con tre poliziotti che lo picchiavano. Forse la più grande debolezza resa visibile in questi ultimi mesi è stata quanto poco lo Stato conosca la propria gente.

FN: I bielorussi sono stati spesso descritti come politicamente indifferenti. Li abbiamo visti scendere in strada per quattro notti, sfidando la violenza della polizia, gli arresti e le minacce. Cosa c'è di diverso questa volta?

VM: Quello che sta succedendo in Bielorussia è unico. Non vogliamo sacrificare una sola vita: in Bielorussia non c'è altro che il sangue del nostro popolo sotto i nostri piedi. Questo sangue è senza nome, senza ossa, senza voce. Nascere in Bielorussia significa ereditare la paura e l'impavidità, la vergogna e la sfrontatezza, e la voce. Ma una cosa è certa: nascere in Bielorussia significa ereditare una grande invisibilità e fiducia in se stessi. Piantare orti, fare conserve per l'inverno, seminare, sistemare le cose, leggere, presentarsi ad eventi educativi e culturali: sono tutte attività politiche di persone autosufficienti che si nutrono, si vestono, si educano. Ecco perché ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi tre giorni e tre notti è diverso dalle proteste che abbiamo visto altrove. Questo è un movimento partigiano di una nazione partigiana che sopravvive da secoli sulla fiducia in se stessa.

In Bielorussia internet è chiuso, eppure ho appena visto una breve intervista con un custode di una stazione della metropolitana che mostra una registrazione sul cellulare del sangue che doveva pulire. Con l'aiuto dei canali bielorussi su Telegram, ho guardato più TV bielorussa che durante i miei anni in Bielorussia. Tutti questi sono video di violenza della polizia registrati da privati sui loro cellulari personali e poi condivisi con il mondo. Questo, insieme alla protesta partigiana di strada auto-organizzata e non centralizzata, è una versione della polifonia, il dispositivo letterario preferito dai nostri scrittori Ales Adamovich e Svetlana Alexievich. Questa è la nostra tradizione.

Ricamo dell'artista bielorussa Rufina Bazlova che rappresenta le forze dell'ordine che depongono l'equipaggiamento protettivo e le armi. Illustrazione utilizzata con il permesso.


FN: Molti bielorussi come lei hanno scelto di vivere fuori dal loro paese per motivi politici ed economici. Oggi la diaspora ha un ruolo importante? Può e deve svolgerne uno?

VM: Questo è un momento di solidarietà bielorussa in tutto il mondo. Siamo tutte persone con poca conoscenza delle nostre radici, con alberi genealogici appesi a un solo sopravvissuto, tutto ciò che abbiamo è l'altro. Siamo troppo soli e invisibili nel mondo per non essere uniti. E sì, la diaspora sta facendo di tutto per attirare l'attenzione internazionale sulla lotta bielorussa per la dignità. Ci sono proteste con richieste concrete, petizioni e raccolte fondi. C'è il tenersi in contatto, semplice come superare le interruzioni telefoniche per controllare la famiglia e gli amici e far sapere loro che non sono soli.

In Bielorussia, le persone sono intrappolate senza alcun mezzo di comunicazione con il mondo esterno, senza una chiara comprensione di ciò che si vede, di ciò che si comprende della loro situazione. I giornalisti stranieri sono stati deportati. Molti giornalisti sono stati uccisi e picchiati dalla polizia. Alcuni giornalisti, soprattutto in Russia, hanno così poca conoscenza della situazione bielorussa che potrebbero fare più danni che aiutare con i loro infondati parallelismi con l'Ucraina e/o con le cornici coloniali senza scuse.

Quindi, è dovere di tutti noi, al di fuori del Paese, rendere la Bielorussia visibile e sostenuta. Anche in questo caso, non è una cosa che andava dichiarata. Piuttosto, si è sentito subito, è andato da sé. È mia convinzione che la maggior parte della gente della diaspora non se ne sia andata per sempre. Abbiamo legami con casa nostra, torniamo regolarmente, educhiamo i nostri figli sulla loro provenienza, forniamo un sistema di sostegno per il nostro popolo in Bielorussia e per i bielorussi in tutto il mondo.

FN: Lei è una poetessa che scrive sia in bielorusso che in inglese. Com'è presente la Bielorussia nella sua scrittura? Gli eventi attuali in Bielorussia influenzano quello che scrivi o che potresti scrivere?

VM: Il mio nuovo libro di poesia “Music for the Dead and Resurrected” è un'opera profondamente bielorussa. Lo pubblicherò in bielorusso in Bielorussia quando sarà possibile.

In questi ultimi giorni ho vissuto interamente online, in una Bielorussia virtuale. L'orologio del mio corpo si è spostato, non so dire che lavoro ho dovuto fare in questi giorni. Potrei avere una versione leggera del PTSD – vedere la gente discutere di politica americana o andare avanti come se niente fosse in Bielorussia mi sembra assurdo e, ancora di più, mi fa infuriare. Nei miei molti anni di vita all'estero mi sono sentita fuori posto molte volte, ma questo è un nuovo livello di quella sensazione. Non voglio che una sola persona, che in questo momento non stia guardando la Bielorussia, vicino a me. Naturalmente, questa è un'emozione cruda. Gli americani non hanno scioperato quando i bambini sono morti in gabbia al loro confine meridionale. Ma posso dire questo: Sono stanca di una curiosità ignorante. Voglio vedere un'empatia internazionale.

Oggi ho scritto una dichiarazione di solidarietà con i bielorussi e l'ho inviata a un paio di redattori. Ho voluto pubblicarlo immediatamente, in modo che tutti lascino perdere tutto e vedano cosa sta succedendo a casa mia. Quando ho premuto il tasto “invia” e il testo mi è sfuggito di mano, una grande paura mi ha sopraffatto. Mi sono chiesta se avessi davvero sognato quello che ho descritto nella mia dichiarazione. Ho immaginato qualcuno che lo leggeva – qualcuno che pranzava e diceva “oh wow, è troppo, è così arrabbiata, così emotiva”, e mi sono spaventata che tutto fosse solo un trucco della mia mente folle.

Poi il mio telefono ha suonato. Il mio caro amico mi scriveva su Telegram da Minsk: “Sentiamo spari ed esplosioni. C'è qualcuno fuori che ci vede?”.

GLOBAL VOICES

giovedì 13 ottobre 2022

Il poeta barbadiano Kamau Brathwaite lascia dietro di sé un retaggio linguistico

Il poeta barbadiano Kamau Brathwaite legge la sua poesia “Calypso” presso l'Università della Virginia nell'aprile 2008. Schermata tratta da un video di YouTube caricato da RJ Ramazani.

Il poeta barbadiano Kamau Brathwaite lascia dietro di sé un retaggio linguistico

Kamau Brathwaite leaves behind a legacy of language (Kiss)

 

Lo stimato poeta barbadiano Kamau Brathwaite [it], la cui voce unica è stata universalmente riconosciuta parte integrante del canone della letteratura delle Indie occidentali del dopoguerra, è morto il 4 febbraio 2020 all'età di 89 anni.

Nato Lawson Edward Brathwaite, la sua evoluzione in Kamau Brathwaite – quell'abbinamento deliberato del suo nome africano, assegnatogli in un secondo momento, con il suo cognome britannico – è la rappresentazione dello spazio da lui creato per far convivere questi due mondi. Il suo lavoro, noto per la sua innovativa “creolizzazione” del linguaggio, è stato fondamentale per aiutare a forgiare un senso di identità regionale [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione] nel doloroso periodo successivo a schiavitù e colonizzazione. Accanto a scrittori come Derek Walcott e V.S. Naipaul [it], Brathwaite ha contribuito a dare voce ai Caraibi per raggiungere il mondo intero.

Ha esordito attraverso l'audace rivista letteraria Bim di Frank Collymore, la quale ha permesso al lavoro di scrittori emergenti di essere divulgato assieme a quello di autori più affermati nelle Indie occidentali. Il blog Memo from La-La Land suggerisce:


Ma se fu l'incoraggiamento di [Frank] Collymore a mantenere viva la vena poetica in Brathwaite, fu il periodo da lui trascorso nella Gold Coast (l'odierno Ghana) dal 1955 al 1962, a costruire l'immagine vivida nella sua mente della stretta relazione tra gli africani e le esperienze dei Caraibi. A mio avviso, la ricerca permanente di Brathwaite si basa sul presupposto che la cultura caraibica è intrinsecamente connessa alla cultura africana, non per mezzo di una connessione eterea o genetica, ma attraverso una trasformazione attiva delle norme sociali che ha avuto luogo per oltre tre secoli di schiavitù […]

In una regione in cui, dopo decenni, esiste ancora un dibattito sull’uso dell'inglese “corretto” rispetto alla espressione sovraccaricata “dialetto”, Brathwaite ha coniato il termine “lingua nazione”, che ha definito “il tipo di inglese parlato dalle persone deportate nei Caraibi, non l'inglese ufficiale di adesso, ma la lingua degli schiavi e dei lavoratori, i servi che vennero introdotti “.

La sua difesa intelligente e amorevole di questo ibrido, non solo utile a fini linguistici, ma come parte integrante dell'identità caraibica, ha ispirato molti altri scrittori delle Indie occidentali, tra cui Sam Selvon [it] e Louise Bennett. Inoltre, ciò che fece fu accrescere il valore della tradizione orale della regione, attraverso la quale molte usanze africane furono mantenute e tramandate nel corso del commercio transatlantico di schiavi [it].

Come espresso dall'utente di Facebook Tara Inniss-Gibbs:


Leggere Kamau è ciò che di più vicino esiste al mettere nero su bianco l'intensa emozione sia del trauma che dell'amore, per una lingua che non è la tua.

Memo from La-La Land inoltre spiega:


Brathwaite afferma attraverso la sua poesia che l'oralità – la parola – è re. […] Ad esempio, nel 1992 Brathwaite pubblicò una selezione di poesie, principalmente dalle sue prime due trilogie, “The Arrivants” (1972) e “Other Exiles”, (1975), se non fosse che in questa fase aveva scoperto i vantaggi di lavorare su un computer. Ciò ha portato allo sviluppo dei suoi testi “Syncorax video style”, che è un altro modo per descrivere l'uso di vari stili e dimensioni dei caratteri durante tutto il libro. I cambiamenti avvengono sia all'interno di una poesia che da una poesia all'altra e lo spettacolare effetto grafico si presta a essere scartato come capriccio estetico o inno alle meraviglie della tecnologia. Al secondo esame, tuttavia, diventa evidente che le innovazioni grafiche sono, in effetti, inserite per evidenziare, riprodurre, la naturale enfasi e modulazione che riguardano il discorso caraibico.

Le prime tre raccolte di poesie di Brathwaite – “Rights of Passage”, “Masks” e “Islands” – pubblicate in rapida successione nel 1967, '68 e '69, gli valse il riconoscimento globale e il plauso della critica. In seguito furono ripubblicati come “The Arrivants“. La sua trilogia successiva – “Mother Poem” (1977), “Sun Poem” (1982) e “X/Self” (1987) – ha anche approfondito questioni di identità.

Una volta che la sua scomparsa è stata annunciata sui social media, i netizen locali hanno iniziato a condividere i loro ricordi. Pubblicando le parole della sua poesia “Calypso”, l'artista multimediale e curatrice delle Barbados, Annalee Davis ha dichiarato su Facebook:


Ricordo la sua lezione alla Frank Collymore Hall di molti anni fa – quella bellissima cadenza nella sua voce, un ritmo che poteva provenire solo dalle Barbados e un modo davvero unico di usare la sua stessa lingua che onorava ciò che siamo. […]

Il suo uso della lingua nazionale e l'ampiezza del lavoro che ha prodotto lasciano un segno indelebile su tutti noi e so che le persone nei Caraibi e la sua diaspora piangeranno la sua morte come faremo alle Barbados.

Il primo ministro del paese, Mia Mottley, ha reso omaggio a Brathwaite definendolo come “senza dubbio uno dei titani della letteratura e delle arti post-coloniali”, mentre il George Padmore Institute lo ha descritto come “un terzo del trio pan caraibico di fondatori dell'influente Caribbean Artists Movement “(gli altri due sono John La Rose di Trinidad e Andrew Salkey, con sede in Giamaica).

Candace Ward, utente di Facebook, ha affermato che “l'influenza di Brathwaite sul [suo] lavoro come studiosa dei Caraibi è stata profonda”, mentre l'accademico Bartosz Wójcik ha ricordato la sua gentilezza. Il professore Kenneth Ramchand ha ricordato l‘imponente contributo di Brathwaite:


Kamau era versatile e sempre interessante. Ha scritto un libro molto importante sulla creolizzazione, ha discusso ampiamente sul “linguaggio della nazione”, che ha dimostrato brillantemente nella sua poesia, e che è stato la principale influenza nella scoperta delle potenti tradizioni popolari e orali della regione. Il suo lavoro e le sue teorie si nutrivano dei legami sotterranei tra i Caraibi, l'Africa e la diaspora africana, ed era particolarmente sensibile alla musica, ai ritmi e alle immagini della cultura afroamericana. […] Non ho mai esitato nella mia ammirazione verso il suo fervente interesse per la nostra cultura e società, la sua manifestazione della propria terra natia, Barbados, come radice e simbolo luminoso così come l'incessante sperimentazione formale nel suo verso. È confortante sapere che come Walcott e [Wilson] Harris non si sia perduto, poiché è rimasto nella coscienza della nostra civiltà.

Kamau Brathwaite era anche un accademico e un rispettato insegnante; ha studiato al Pembroke College dell'Università di Cambridge e ha conseguito un dottorato di ricerca conferito dall'Università del Sussex. Ha ricevuto entrambe le borse di studio Guggenheim e Fulbright e ha pubblicato molti libri sulla cultura e l'identità africane.

Il periodo trascorso in Ghana come ufficiale dell'istruzione ha influito notevolmente sulla sua comprensione dell'esperienza nera. Alcune delle sue importanti opere accademiche includono “Folk Culture of the Slaves in Jamaica” (1970), “Afternoon of the Status Crow”, (1982) e “History of the Voice”, (1984), in cui ha presentato le sue teorie sulla lingua nazionale. Ha anche lavorato come insegnante presso l'Università di New York e l'Università delle Indie occidentali.

Ben noto nel mondo letterario, Brathwaite è stato il vincitore internazionale del Griffin Poetry Prize nel 2006, per la sua raccolta “Born to Slow Horses“. Ha anche vinto il Neustadt International Prize for Literature (1994), la Gold Musgrave Medal for Literature [en] dall'Institute of Jamaica (2006), la Medaglia Robert Frost dalla Poetry Society of America (2015) e il premio per la poesia PEN / Voelcker Award for Poetry (2018) .

Per quanto i suoi scritti accademici abbiano raccontato l'esperienza caraibica post-colonizzazione, tuttavia, è nella poesia di Brathwaite dove viene immortalata l'immaginazione sia della regione che del mondo. Nelle parole dell'utente di Facebook Richard Drayton:

Era come un poeta/sciamano il cui nome risuonerà per sempre ogni volta che il popolo caraibico cercherà di dare un senso a se stesso.

GLOBAL VOICES

martedì 24 novembre 2020

La Biblioteca nazionale di Napoli acquista all'asta una lettera di Leopardi


La Biblioteca nazionale di Napoli acquista all'asta una lettera di Leopardi

Comprata per ottomila euro dalla Finarte. Il poeta la scrisse nel 1825 al conte Muzzarelli per ringraziarlo di una poesia che gli aveva dedicato

Una lettera per “ Sua eccellenza reverendissima, monsignore Carlo Emmanuele Conte Muzzarelli”. La calligrafia, chiara e gentile, non inganna. È proprio quella di Giacomo Leopardi. La Biblioteca nazionale di Napoli entra in possesso di una rara missiva del grande poeta, che arricchirà l’enorme fondo a lui dedicato. Risale infatti a una settimana fa esatta il suo acquisto all’asta della Finarte dedicata a libri, autografi e stampe. L’operazione, conclusa per ottomila euro, ha visto l’importante la collaborazione della Soprintendenza archivistica del Lazio, che ha consentito alla Nazionale, riconosciuta come sede naturale del documento ( dato che sono proprio a Napoli quasi i tutti i fogli del recanatese, custoditi a lungo dall’amico Ranieri), di attivarsi attraverso i canali di spesa. Ed eccolo lì, il messaggio per il conte Muzzarelli, revisore dei conti al tribunale della Sacra Rota, accademico e figura di spicco nell’ambiente culturale romano.

La data di composizione è il 18 dicembre 1825, quella di ricezione il 22. Sono presenti ancora le tracce del bollo a cera e del timbro postale di Bologna, città in cui Giacomo alloggiò fino al novembre 1826. L’autografo appare al quarto foglio ( le cui dimensioni sono di 240 millimetri per 188). « La Biblioteca Nazionale – spiega il direttore, nonché soprintendente archivistico per la Campania Gabriele Capone – custodisce la quasi totalità del corpus delle opere leopardiane, oltre all’80 per cento delle corrispondenze inviategli da parenti e amici. Il nostro impegno è da tempo rivolto a incrementare il nucleo di lettere scritte da Leopardi stesso, per svelarne quegli aspetti artistici, poetici e personali». Un documento importante, quindi. E non solo per l’autore, quanto per il contenuto, che rivela un Giacomo ben poco schivo e riservato, come la sua canonica immagine ci tramanda.

Nei suoi fogli, infatti, ringrazia Muzzarelli per le “ gentilissime espressioni” a lui dedicate in un’ode scritta dallo stesso amico. « Si tratta di un componimento di particolare interesse bibliografico e storico – riprende Capone - di cui si trovano riferimenti: più volte citato negli epistolari e repertori, si rivela utile ad una maggiore comprensione della personalità del poeta». La lettera ci presenta un Leopardi tutt’altro che riluttante, anzi, ben felice per i versi in suo onore. E che, addirittura, accoglie compiaciuto l’invito di farli pubblicare. “ Approfittando della licenza che ella mi ha conceduto – scrive il Recanatese - ho fatto stampare qui le sue belle quartine in un foglio periodico di cui le mando copia. Se ne desiderasse qualche altro esemplare vedrei di poterla servire”.

Il componimento apparve sul settimanale “ Il Caffè di Petronio” del 24 novembre 1825 (numero 51, pagina 203), edito da Pietro Brighenti, che abitava a pochi passi dall’alloggio bolognese di Leopardi (preso a pensione dal tenore Aliprandi), attiguo al teatro del Corso. “ O tu, che la tua patria in suono ardito – compone Muzzarelli nella prima delle sette strofe - Togliesti all’ozio indegno/ Di un’anima non vile odi l’invito/Di Te, di Ausonia degno”.

Il conte è ammirato per il sincero entusiasmo patriottico del poeta per le sue prime Canzoni, soprattutto per quella “ All’Italia”, versi che in quel momento infiammavano tutti i liberali. L’ode sembra infatti elogiare il sodale tanto per la sua grandezza lirica quanto per il suo ardore risorgimentale. L’epistola, che presenta uno strappo al margine bianco superiore, è stata convalidata da Daniela Bacca, responsabile per la Nazionale della sezione Manoscritti rari, confrontando la grafia con gli altri autografi presenti nel Fondo Leopardiano. Un’ultima chicca arriva nella parte finale della pagina, in cui si legge di “ ritornare i miei saluti alla signora Orfei”. Molto probabilmente si allude ad Enrichetta Dionigi Orfei, poetessa romana amica di Giacomo ( che invece poco sopportava la madre, Marianna). “ Ho saputo – prosegue lo scritto - che ella è stata qui (a Bologna, ndr) qualche giorno e m’informai dove abitasse con l’intenzione di farle visita”. Un incontro che però non è mai avvenuto: “ In quel tempo fui obbligato da un incomodo di salute a tenermi per più settimane e però non mi fu possibile di vederla”.

LA REPPUBLICA





mercoledì 11 novembre 2020

Jorge Cadavid / Teoria dell'iceberg

 



Jorge Cadavid

TEORIA DELL'ICEBERG


Nella cabina, con l'asma,

leo Moby Dick.

Sento lo sfioramento del metallo

della passantissima nave di artiglieria

contra gli icerberh.

L'ombra della morte è bianca.


Jorge Cadavid
Antartica
Raffaelli Editore, Rimini, 2020, p. 73



domenica 28 giugno 2020

Góngora / Finchè vano emulo dei tuoi capelli

Luis de Góngora


Luis de Góngora 

Mientras por competir con tu cabello
Oro bruñido al sol relumbra en vano,
Mientras con menosprecio en medio el llano
Mira tu blanca frente el lirio bello,

Mientras a cada labio por cogello,
Siguen más ojos que al clavel temprano
Y mientras triunfa con desdén lozano
Del luciente marfil, tu gentil cuello:

Goza, cuello, cabello, labio y frente,
Antes de los que fue en tu edad dorada,
Oro, lirio, clavel, cristal luciente,

No sólo en plata, o víola troncada
Se vuelva, mas tú, y ello juntamente,
En tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

Giuseppe Ungaretti

I. Versione del 1932

“A una ragazza, per invitarla a godersi la sua gioventù”

Finchè vano emulo dei tuoi capelli,
l’oro cupo nel sole sia splendore;
finchè sdegnosa la tua fronte bianca
veda fiorire i gigli alla pianura;

finchè bramoso attragga più gli sguardi
il tuo labbro che il precoce garofano,
finchè coll’orgogliosa sua gaiezza
vinca l’avorio, il tuo collo grazioso;

bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
prima che ciò che fu in età dorata
giglio, oro, fuoco e cristallo lucente

non solo in viola appassisca e in argento,
ma tu più non sia tu, a fondo mutata,
e tutto non sia più, confusamente,

Che terra, fumo, polvere, ombra, niente...

II. Versione del 1948

Finchè dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole,
finchè negletto la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello,

finchè per coglierlo gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano,
finchè con la sdegnosa sua allegria
vinca l’avorio, il tuo gentile collo,

bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
prima che ciò che fu in età dorata,
oro, garofano, e cristallo lucido

non solo in una viola tronca o argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, niente.

III. Versione del 1951

Finchè dei tuoi capelli emulo vano,
vada splendendo oro brunito al Sole;
finch, negletto, la tua fronte bianca
in mezzo al piano ammiri il giglio bello;

finchè, per coglierlo, gli sguardi inseguano
più il labbro tuo che il primulo garofano;
finchè più dell’avorio, in allegria
sdegnosa, luca il tuo gentile collo:

la bocca e chioma e collo e fronte godi,
prima che quanto fu in età dorata,
oro, garofano, cristallo e giglio

non solo in viola vizza od in argento,
ma si volga, con essi tu confusa,
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.


sabato 2 novembre 2019

Tracce Maturità 2018, Alda Merini l’amore e la solitudine della poetessa


Tracce Maturità 2018, Alda Merini l’amore e la solitudine della poetessa

Un articolo ritratto uscito su «Sette»: « Soprattutto, di notte, i suoi dubbi più belli e più umani, le sue fragilità e i suoi versi che battevano e sbattevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti dalla tua gabbia, e rendevano più caldo, più vero, il tuo sentire»

20 giugno 2018 (modifica il 20 giugno 2018 | 12:25)

Ecco il testo dell’articolo uscito su «Sette», supplemento del Corriere della Sera, a firma dello scrittore e poeta Andrea Salvatici nel 2014. Un ritratto di Alda Merini

Alda Merini nacque il primo giorno di primavera e fino alla fine, con i suoi battiti, con le sue labbra sempre innamorate, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. I suoi versi, come polline a primavera, entravano nel corpo della gente comune. Il rosso che affiorava dalle sue labbra, dalle sue unghie, dalla pareti della sua camera, era un petalo di anemone sempre in balia dei suoi respiri, dei suoi versi, delle sue lacrime. Una donna che amava collane, orecchini, anelli giganteschi: un’alchimia personale, originale fino alla provocazione. Alda Merini era capace di usare il rossetto come cosmetico o matita dalla punta grossa e morbida per scrivere un numero di telefono importante vicino al letto. La parete era la sua rubrica personale. Si sollevava leggermente dal materasso, voltava lo sguardo, prendeva la cornetta, che spesso sembrava un impiccato abbandonato dal boia, e faceva il numero. Quella matematica rossa diventò un elemento necessario per la sua vita.


Telefonava a qualsiasi ora del giorno, ma prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina. Sapeva che avrebbe strappato una persona al sonno, ma voleva stare con lui o con lei a tutti i costi. «Com’è questa cosa? Sarà così?» iniziava sempre con una domanda. Non si presentava quasi mai, ma la vittima felice delle sue chiamate riconosceva subito la sua voce e la sua tosse. Perenne, goffa principiante della vita, sentiva la necessità di condividere sentimenti, dubbi, paure. E pause, e lì capivi che stava decapitando la sua quarantesima sigaretta, che quella testolina gialla sarebbe caduta per terra insieme ad altre dozzine. Un piccolo cimitero fatto di cenere e di anelli bruciacchiati, che preoccupava parenti e amici soprattutto quando era sola e i mozziconi si trasformavano in buchi neri nelle lenzuola. Il pavimento della sua camera richiamava, o forse rivelava, un furto e assumeva ogni giorno tratti e forme diverse.

Tavolozza di pittore, caos moderno, si modificava secondo i suoi stati d’animo: era territorio lunare di mozziconi, di lattine e barattoli, geometria di piatti abbandonati da giorni con affreschi secchi disegnati da una forchetta svogliata e distratta. Amava il suo corpo, amava sentirlo e mostrarlo attraverso una smagliatura delle calze, uno strappo della camicetta. Spesso una vestaglia, magari macchiata ma indossata con leggerezza, come una crisalide rotta esaltava la sua spregiudicatezza, la sua voglia di comodità assoluta. A volte, ridendo, diceva di assumere sul materasso la stessa posizione del bruco di Alice sul fungo. Era fatta così.

Era bella e unica perché non rassicurava nessuno. Non stava da nessuna parte, e non difendeva verità assolute. Le interessava viversi così, lontana da qualsiasi convenzione o regola sociale. Viveva l’amore con la stessa semplicità di un segno di matita nera: libero di essere tratto che incornicia uno sguardo, o potente acquerello sfumato sulle tracce ancora calde e sudate della passione. Sapeva custodire e proteggere il senso della vita, non solo la sua, dentro un rammendo rabberciato e quasi inutile. Alda Merini viveva da sola nel suo bilocale perché sentiva di essere libera. Non era una penitenza del cuore, non era una rinuncia, era il suo spazio vitale, la sua struttura ossea. Quelle pareti sapevano accogliere barboni, mendicanti, uomini semplici che non avevano bisogno di un titolo di studio o di un ruolo sociale: privi di bigliettini da visita si presentavano con i loro sguardi, le loro carezze, i loro sorrisi, sapevano comunicare e vivere la vita, la loro. Per lei dare era ricevere: un anello, una collana, un vaso di ceramica, un manifesto gigantesco di Papa Wojtyla, incorniciato, da non sapere come salire in metropolitana, un mazzo di fiori, un vassoio di pasticcini, una sciarpa di lana dura fatta a mano lunga tre metri.

Ma soprattutto, di notte, i suoi dubbi più belli e più umani, le sue fragilità e i suoi versi che battevano e sbattevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti dalla tua gabbia, e rendevano più caldo, più vero, il tuo sentire. Era impossibile riattaccare anche dopo tre ore. Traboccava di vita e trasformava qualsiasi argine in un castello di sabbia e ti invitava a giocare, a raccontare, per annodare o sciogliere nuove storie. Usava i versi per strappare e rammendare il suo amore per la vita, spesso invisibile, la sua, agli occhi degli intellettuali che l’accolsero giovanissima e la dimenticarono troppo presto negli anni dolorosi del manicomio. Ricoveri, offese, dolori non hanno mai inquinato la sua linfa vitale, la sua sensibilità, la sua febbre. Quando ti regalava una poesia rompeva un caleidoscopio di vissuti: pezzettini colorati che assumevano forme nuove che scoprivi cosa volessero dirti magari dopo giorni o dopo un anno. Nei pori della sua pelle, aveva una pelle bellissima, c’era la farina, c’era il dolore, la stanchezza, la solitudine, la gioia analfabeta di un sguardo dopo l’amore, la povertà, l’amore verso le figlie, gli abbandoni, c’era la passione, c’era la preghiera. Nel buio di un reparto, Alda Merini riuscì a trovare un cielo stellato dentro una lampadina, e i suoi amori, i suoi desideri, i suoi fallimenti, i suoi versi, i suoi aforismi, come farfalle notturne testarde, continueranno a bruciare di vita contro quel cielo stellato che ha solo bisogno per sopravvivere di un semplice filo di rame.