lunedì 31 luglio 2017

Valeria Caldelli / L'altra Marilyn / Psichiatria e psicoanalisi di un cold case

L'altra Marilyn

Psichiatria e psicoanalisi di un cold case

1 AGOSTO 2016, 
Marilyn, la femme fatal, ancora una volta nuda davanti a noi. Spogliata di quegli abiti che non coprivano solo un corpo perfetto e sinuoso, ma anche l'anima, come una maschera. La maschera del mito, del sex symbol, che l'ha trasformata in una favola. "Non mi interessano i soldi, voglio solo essere meravigliosa", diceva. E trascorreva sei ore nella sala trucco alla ricerca di quella perfezione assoluta che potesse soddisfare il suo narcisismo ed essere un'ancora per la sua sconfinata insicurezza. Perché dietro la grande Marilyn Monroe, attrice-dea e insieme oca bionda, c'era un'altra Marilyn, anzi c'era Norma.
Per la precisione c'era Norma Jeane Mortenson, figlia di Gladys, bella donna dalla vita sessuale abbondante e promiscua e dal tragico destino psichiatrico. Oltre a non aver mai saputo chi fosse suo padre, Norma era anche nipote di Della, che aveva cercato di soffocarla con un cuscino prima di essere internata con la diagnosi di "psicosi maniaco-depressivi". Il bisnonno, che di cognome faceva Monroe, era invece morto suicida, per impiccamento. Vari gli orfanotrofi e dodici le famiglie affidatarie che si erano prese in qualche modo cura di lei, vista l'assenza pressoché costante della madre, e due gli episodi conosciuti di molestie sessuali, il primo all'età di 9 anni e il secondo di 11, entrambi all'interno dei nuclei familiari adottivi.


C'è poco da stupirsi se Norma ha cercato con tutte le sue forze e con ferrea determinazione di rompere le sbarre di quella gabbia di povertà, tristezza e incultura e abbia usato il suo splendido corpo e la sua bocca sensuale per trasformarsi nell'impudica svampita e ipersessuata Marilyn. Semmai ci sarebbe da chiedersi perché quell'immagine artificiosa di donna felice che nascondeva una psicologia gravemente ammalata dai marcati tratti bipolari, con numerosi tentativi di suicidio alle spalle, fobica, sospettosa, paranoica, dipendente dai farmaci, dall'alcol, dal caffè, dalla cocaina, dal telefono, dal sesso, dagli psicanalisti e dalla fama, abbia potuto diventare una leggenda vivente di dimensioni pressoché mondiali.
Come è successo a molte altre star, da Jim Morrison e Jimi Hendrix, da Brian Jones a Amy Winehouse, e, recentemente, Prince, tutti spericolati guidatori di vite dominate dal malessere esistenziale e dalla droga, e tutti morti giovani per suicidio o overdose. Dimensioni borderline che sono diventate sempre più frequenti nelle cliniche, ma anche nella società in cui quotidianamente viviamo. Per questo due psichiatri, Liliana Dell'Osso e Riccardo Delle Luche hanno riesaminato il "caso Marilyn" alla luce delle nuove tendenze della psichiatria e della psicanalisi indagando la documentazione clinica, i materiali biografici, i video e una serie di poesie, appunti, note di diario e riflessioni scritte dall'attrice stessa. Così è nato L'altra Marilyn. Psichiatria e Psicoanalisi di un cold case (casa editrice Le Lettere), un saggio che affronta con un linguaggio semplice problematiche complesse . "Credo che le acquisizioni scientifiche debbano essere rese comprensibili e divulgate al maggior numero possibile di persone", spiega Liliana Dell'Osso che insieme a Delle Luche è partita da Marilyn per allargarsi anche al mestiere dell'attore, alla psicopatologia del doppio, della personalità multipla e della maschera con le infinite possibilità di modulazione del rapporto tra attore e personaggio.

Lei, però, eroina tragica, non riusciva a coincidere con la sua maschera e ne soffriva: impossibile diventare una vera attrice, come avrebbe voluto, visto che già recitava Marilyn. Così, se le sue numerose patologie psichiche l'hanno all'inizio spronata e aiutata a inventare il personaggio della vamp stratosferica, alla fine sono emerse in tutta la loro gravità. Cure sbagliate, mariti e amanti che se ne andavano, il licenziamento della Fox, il fallimento del tentativo di avviare una propria azienda di produzione innescarono un circolo vizioso inevitabile in cui le sue dipendenze da tutto e da tutti si amplificarono fino a rendere catastrofica la sua condizione psichica.
Norma Jeane e Marilyn non potevano più coabitare. Nel suo ultimo mese di vita il suo psichiatra, Ralph Greenson, l'ha visitata 28 volte, di cui due il 4 agosto del 1962, cioè il sabato della nefasta notte in cui sarebbe morta. Sottolinea Liliana Dell'Osso: "Nella malattia mentale gli eventi traumatici si sommano in una progressione continua che la rendono cronica e naturalmente la aggravano. Aggiungiamo che i farmaci di allora non erano appropriati e che il suo psichiatra era di mano pesante. Fatto è che quella maschera lei era stata costretta a indossarla per nascondere Norma Jeane. Ma parliamoci chiaro: una maschera ce l'abbiamo tutti, però la togliamo quando vogliamo. Lei no, lei non poteva togliersela, perché senza la maschera era niente, tornava ad essere la povera orfanella senza istruzione, senza padre, con una madre assente e ammalata, una bambina di tre anni che non riusciva a comunicare".


Povera Marilyn, che "parlava" solo attraverso il sesso e che quando riusciva a vincere la perenne insonnia viveva nell'inconscio la falsità del suo personaggio. In un sogno del 1956, quando già la malattia stava galoppando verso la meta finale, lei vede tutte le persone a lei più vicine che cercavano di guarirla con un'operazione. Ma quando affondano il bisturi nel suo corpo trovano solo segatura. Una bambola di gomma piena di vuoto, al cui interno non c'è nulla di vivo, né di umano. Niente anima, niente di niente. A questo punto poco importa ai due autori indagare su come sia morta Marilyn. Fu suicidio? Fu overdose di farmaci prescritti dallo psicanalista e somministrati attraverso un clistere? Fu omicidio volontario legato alle minacce dell'attrice - fatte pochi giorni prima a Bob Kennedy - di rivelare alcuni segreti di Stato?
Esistono prove pro e contro ognuna di queste ipotesi, ma la sua tragica fine ad appena 36 anni appare comunque una conclusione necessaria, inevitabile, di un processo drammatico e irreversibile. E allora ecco la diagnosi. "Non è sensato pensare che in uno stesso individuo coesistano così tanti disturbi psichici, mentre è ragionevole ricondurli ad un denominatore comune, ad una condizione morbosa unificante che individuiamo nella vulnerabilità cerebrale. È questa la matrice innata su cui si innescano i vari eventi negativi o traumatici, come le separazioni, gli abbandoni, le difficoltà interpersonali, provocando una reazione a catena che, se non è trattata tempestivamente, dà origine a patologie mentali gravi, come quella di Marylin".


In psichiatria si chiama "spettro autistico sottosoglia" e nella storia familiare dell'attrice si era già espresso più di una volta in maniera persino più grave. Impossibile oggi ricondurre la sua malattia ai soli aspetti psicologici. Lo dimostrano anche le più recenti scoperte delle neuroscienze: è dal cervello che tutto nasce perché "il pensiero è il frutto del nostro cervello, così come la bile è il frutto del nostro fegato". Norma Jeane è dunque nata con uno spettro autistico che l'ha aiutata a crearsi una immagine falsa, ma perfetta, sprofondandola però negli abissi della malattia quando la sua inadeguatezza a identificarsi con Marilyn, la dea, è diventata sempre più evidente, e quindi ossessiva.
Ma quante Marylin ci sono oggi e qual è il confine tra normalità e patologia? "La soglia è arbitraria e cambia a seconda delle epoche e dell'ambiente. la normalità assoluta comunque non esiste: tutti noi abbiamo fragilità. E di Marilyn ce ne sono tante, sia nelle cliniche che fuori. Gli uomini 'belli e dannati', però, sono assai di più. La percentuale tra maschi e femmine con spettro autistico sottosoglia è di 8 a 1. Ma nel 70 per cento dei casi la patologia non si sviluppa perché si riescono ad acquisire competenze sociali che nel corso della vita portano a un miglioramento. Sono più sfortunati e sfociano nella malattia coloro che, nati con una situazione genetica grave, incontrano condizioni ambientali sfavorevoli".


Pensare "diverso", però, è una ricchezza. Liliana Dell'Osso ce la spiega così: "I tratti di autismo sottile sottosoglia in realtà sono quelli che forniscono un'originalità di pensiero e tutto ha origine dall'originalità. Pensiamo a scrittori come Virginia Woolf e Ernest Hemingway, già ampiamente setacciati dagli studi psichiatrici, o a scienziati come Albert Einstein. Sono tutte persone che esulano dalla norma, che hanno un modo di ragionare e di pensare diverso. Si potrebbe persino ipotizzare che l'umanità, per la sua evoluzione, abbia necessità della diversità, della neuroatipia, e che il disturbo mentale che vi si può associare è un rischio che dal punto di vista evoluzionistico vale la pena di correre".


domenica 30 luglio 2017

Luciana Manco / Derive


Derive

Il mondo sommerso

22 FEBBRAIO 2015, 
LUCIANA MANCO
Ti vedevo dall'alto. Nettamente. Della folla tu eri l'occhio. La tua testa l'iride accesa di bellezza. Le spalle bianche, ampie. Il movimento lento, tuo.
Tra tutti i muri, le scale, le ringhiere, gli ostacoli naturali e innaturali che si contrappongono a noi, come i promessi sposi della periferia est di Milano, che manco si conoscono, dalla cima delle rovine del mondo, io ti guardo, con la mia tazza scheggiata di caffè, il mio pigiama largo alle estremità, consumato dal mio continuo strisciare sotto il filo spinato dei sogni che non voglio. Ti guardo e sei lo spettacolo del mio planetario minuscolo dove tu sei unico astro. Ne abbiamo fatte tante di manifestazioni, di cortei contro qualcosa, prima di voi. Ne abbiamo sventolate tante di bandiere, comprate nelle cartolerie insieme ai pennarelli indelebili, alle forbici con le punte arrotondate. Ne abbiamo urlate di rime che ci spaccavano il petto come quelle delle poesie, ma più stupide e più violente, bombe di ironia nella nostra vita serissima.


E adesso tocca a te, essere lì sotto al sole invece che sui banchi di scuola, a protestare contro il sistema, lo stesso che ti ha messo l'abbonamento mensile in tasca, la bustina del tabacco, e gli appuntamenti mancati di tuo padre con tua madre che per sempre lo aspetta come una colonna di speranza. Adesso tocca a te, che ti divincoli dalle sciarade dell'essere grande e ancora vuoi qualcuno che ti rincorra per non farti cadere, mentre corri, corri, corri, e non sei altro che un occhio cieco che commuove la vita.
Sorseggio caffè e il muro è freddo sul mio braccio destro, e il vetro diventa umido di me sul contorno delle labbra riflesse, e non mi verrebbe mai in mente di aprire la finestra, o di urlare il tuo nome. Me ne sto lenta come la moviola di ciò che tu conosci, a gustarmi il panico composto del tuo essere parte del tutto, significando niente. Poi ti vedo scavare nella tasca, avvicinare la mano all'orecchio, ed in quello stesso istante il mio telefono squilla. Il tuo nome sul display. “Posso salire?”. “Sali.”

Mi metto il cardigan di lana rosso, mi lego i capelli in alto, scomposti. Mi guardo nello specchio dell'ingresso. Ho trentaquattro anni in ogni angolo del viso. Il campanello suona, leggero come se spingesse un dito di vento. Apro. Hai l'affanno. I capelli neri con la griglia di luce da cartone animato. Gli occhi fissi, le labbra socchiuse inchiodate di fossette sul viso liscio. Sembri chiedermi aiuto per qualcosa che non so e che non sai. Per qualcosa che ti ha ingannato, per una promessa che mai ti è stata fatta.
“Entra”, dico. Cammini mentre cammino, e in mezzo all'universo io sono quella che ora ti cammina accanto, non più la folla strepitante che ti chiudeva, gabbia toracica della tua gabbia toracica. “Che succede?” chiedo. “Non so nemmeno cosa vogliamo.” dici. E sembri chiederlo a te, a me, al mondo, a quelli che fanno inni banali sotto la mia finestra. “Mi sentivo una barca senza remi”, dici. “Che andava alla deriva.”


Ti guardo. Sorrido. Ti invito a sederti, vado a prenderti una tazza di caffè. Torno e sei sul margine più esterno del divano. Ti dico che di certo non te ne intendi di linguaggio del corpo, visto che quello è un netto segnale che indica che vuoi scappare via. Sorridi, e dici: “Ma no, no...” sottovoce. Ti tiri indietro per affondare nei cuscini, per farmi capire che invece vuoi restare.
“Vi ha trovati preparati il professor Rinaldi?”, chiedo. “Uhm, boh. Abbastanza.” dici. Ti guardi la mano aperta sulla coscia, l'altra mano stringe sospesa la tazza fumante. “Com'è andata l'ultima versione?” chiedo. “Ma che ne so. Che senso ha studiare il latino, boh... Una lingua così vecchia... Cioè, non per offendere lei eh, anzi. Lei è stata meglio del prof Rinaldi.” “Non mi sembra.” Rido. Sorridi, guardi giù. Hai ciglia che sembrano ali.


Sollevi lo sguardo. Torni serio. Il rosso del sangue emerge tenue sulle tue guance. “Ritornerà?” chiedi. “No. Ho chiuso con le supplenze.” dico. Tutti i progetti per organizzare il mio futuro mi scorrono davanti agli occhi, e mi sembrano troppo complicati da spiegare, e quindi non spiego. Non serve. “Perché me lo chiedi?”. “No, così.”. Così. Così. Nella somiglianza che cerco con qualcuno o con qualcosa, nel tuo fissare il niente attraverso lenti di purezza, io cerco memoria di me. Sei la nostalgia che si fa corpo, che si condensa. Che mi viene in soccorso, che mi risveglia. Come ero io, come sarei stata adesso, avrei abbracciato il tuo corpo sul sedile di dietro del tuo scooter, avrei aspettato di baciarti sulla soglia di casa mia, prima di fare i compiti, con mia madre che mi chiama perché è finito il nostro tempo, perché siamo valvole di libertà in questa asfissia del mondo dei grandi, che mettono regole e tubi al gas euforico della nostra esistenza. Però non sono e non sarò più coetanea della tua carne, del tuo gruppo preferito, del tuo lunedì mattina, della tua maglia bianca. Sono anche io, qui, ora, grande, a riparare gli strappi che la tua inesperienza mi produce. Ma sono in questa età di mezzo in cui non sono niente, in cui mi vedo fiorire e sfiorire, come una pianta carnivora con la trappola a scatto, e più sbrano per vivere e più muoio.
E sono sempre così lontana dalla follia che la posseggo, e sono vittima di ogni retaggio, sono costretta a toccare ogni suolo, a rinnegare, a dimenticarmi nell'ospizio prima ancora di diventare vecchia, perché questo è un passaggio in cui io devo essere qualcuno o qualcosa, e fare figli, e avere marito, e avere un lavoro, e avere dei soldi, e avere dei mobili miei, e avere un conto in banca, e avere il frigo pieno, e avere i vestiti in ordine, e intanto ti sono addosso, che sei maggiorenne da dieci giorni e poche ore e quando tu sei nato forse io facevo l'amore con un altro come te che era come me ed io ero la prima, ed io sono la prima ora, e mi muovo su di te, coi remi delle mie dita che ti cercano e ti guidano, e stiamo andando alla deriva, sì, e senti le onde perché io sono le onde, e trattieni il respiro, e sotto di noi l'oceano degli altri brilla di coralli e brulica di squali, e non c'è niente che possa farmi sentire in colpa, perché mai sono stata così infinitamente viva.


Così infinitamente viva.




sabato 29 luglio 2017

Diario di uno scandalo / La bruciante ferita della solitudine dell’anima


Diario di uno scandalo

La bruciante ferita della solitudine dell’anima

12 GIUGNO 2015, 
LUISA MARIANI

Diario di uno scandalo è un film del 2007 diretto da Richard Eyre, tratto dall’omonimo romanzo di successo di Zoe Heller. Ecco la storia. Ci troviamo in un liceo della periferia di Londra, Barbara, anziana insegnante, è una donna sola, rigida, si presenta con una maschera di durezza e impenetrabilità, una sorta di sergente di ferro che è odiata dagli alunni e mal tollerata dai colleghi per la sua cattiveria e insensibilità, nessuno può supporre che, a casa, nel suo spazio privato, tenga un diario segreto su cui annota scrupolosamente i suoi pensieri e le sue sensazioni, come se fosse un’adolescente, e dove si permette di pensare e provare sentimenti in libertà.


Questo suo mondo triste e scontato cambia improvvisamente quando nella scuola arriva Sheba, una giovane professoressa di arte, bionda, sottile, dall’aspetto angelico, delicato, a cui Barbara, dopo averla osservata e studiata a distanza, si avvicina cautamente; sembra non avere paura di lei come lo è solitamente del genere umano, si permette di fidarsi, la sente buona, inoffensiva. Nella vita di Barbara si accende un barlume di speranza e di gioiosità, la fatica del vivere è compensata da questa nuova presenza che pare abbia la funzione benefica di ammorbidire la sua aridità e di riappacificarla con il mondo. Il suo diario accompagnerà con vivezza questa esperienza, dove lo spettatore assiste alla creazione di un legame affettivo impensabile e partecipa con simpatia e benevolenza all’insperata opportunità di sconfiggere la solitudine più nera che aveva incupito l’esistenza di Barbara e dentro cui si era ostinatamente blindata. Sheba, a differenza di Barbara, ha una vita familiare, con due figli di cui uno portatore di handicap e un marito affezionato, di parecchio più anziano di lei.

Judy Dench e Cate Blanchett

Tra le due donne inizia un’amicizia che si fa sempre più intensa, tanto che la giovane rende Barbara partecipe della sua vita privata e sembra “adottarla” con generosità offrendole uno spazio reale e affettivo. Il loro rapporto prende una piega anomala quando Barbara, che si sta insinuando in maniera sempre più sottile e richiestiva nella vita di Sheba, scopre che l’amica ha instaurato una relazione amorosa con un allievo di quindici anni. All’inizio si mostra sconvolta, scandalizzata, si indigna e, a condizione della rottura di quel rapporto moralmente e socialmente inaccettabile, potrà perdonare l’amica ed eviterà di denunciarla al preside della scuola risparmiandole le inevitabili conseguenze sul piano personale e professionale. In realtà, l’anziana donna, con una mente molto più complessa e contorta di quello che appare, non tollera la frustrazione per questo tradimento e, solo allora, si scoprirà la sua inconfessabile passione per l’amica. A questo punto, diventando l’unica custode del segreto di Sheba, Barbara metterà in atto i mezzi più abietti, ordirà un gioco di ricatti, complicità perverse e confessioni che riveleranno un piano preciso e ben architettato per legare a sé la giovane donna che sarà vittima delle mire della donna e della propria ingenuità. L’ira di Barbara, la ferita del tradimento, diventeranno un’ossessione che la porterà a disintegrare la vita dell’amica, ma di conseguenza anche se stessa.
Diario di uno scandalo

Dietro la trama manifesta degli accadimenti del film si cela una sconvolgente storia di anime tormentate da una complessità inestricabile, che lottano furiosamente in una disperata ricerca di felicità. Con la scoperta dell’inconscio la psicoanalisi dà voce e legittimazione all’ambiguità, al mistero, all’inconoscibile, che è parte dell’umano e differenzia, di conseguenza, l’essere dall’apparire. Con la bella metafora dell’iceberg, Freud ha esemplificato il funzionamento mentale, attribuendo alla punta emergente del ghiacciaio la parte conscia, conoscibile e razionale della persona, mentre assegna a quella grossa parte sommersa dalle acque, nascosta e invisibile, la funzione dell’inconscio che soggiace, influenza e codetermina l’intero ghiacciaio.
La maschera e il volto sono immagini significative che parlano di questa complessità dell’essere umano, dove l’essenza, la verità ultima della persona sembra davvero essere inconoscibile e impensabile, perché è intollerabile, irraggiungibile e suscita terrore. La maschera può essere vista come una forma di travestimento per combattere stati di paura e di debolezza, la si può considerare altresì un mezzo ambiguo perché, da un lato è funzionale alla verità che ama nascondersi per salvaguardare la sua profondità, dall’altro è utilizzata per non vedere la realtà, addirittura per fuggire da essa. Questa doppia attitudine è codificata nella psicoanalisi dalle parole Conscio e Inconscio, dove si presume che nell’Inconscio sia custodita la verità dell’esistenza, mentre nel Conscio si nutra l’illusione concessa all’individuo per poter vivere e che, secondo Schopenhauer, corrisponderebbe alla maschera.
Gli artisti molto prima degli scienziati hanno visto, intuito, sognato, rappresentato queste contorsioni del mondo interno e, a riprova di questo, anche il film di Richard Eyre rappresenta in maniera intrigante quello straordinario doppio che è appunto il volto e la maschera. Le due coprotagoniste si fanno avanti con un impeto prepotente tanto quanta è la prepotenza della verità emotiva mascherata che trasmettono; è un film che tocca in profondità gli spettatori perché parla il linguaggio comune, universale, dell’uomo che in esse si riconosce, sono personaggi che esprimono la complessità di cui è intessuto l’essere umano, comunicano in maniera forte la fatica di vivere, il disagio della civiltà, la paura delle emozioni, il terrore dell’incontro, ma esprimono anche l’anelito alla felicità e il bisogno ineluttabile dell’altro, a qualsiasi costo.
Cate Blanchett

In questo bel film ci imbattiamo in un’adolescenza non incontrata, mal vissuta, temuta, disconosciuta, che allora, proprio per questo si fa viva in età adulta con una nostalgia ineffabile e reclama di essere riconosciuta, ascoltata, sperimentata anche se, purtroppo, fuori tempo, con un triste anacronismo che la rende patetica, stonata, fuori dalle righe, quindi, in un certo senso perversa. La storia delle due donne rappresenta dunque magistralmente l’adolescenza, età di confusione, di scoperta di sé, di nascondimenti, di costruzione dell’identità, di oscillazione tra stati mentali contrapposti, momento di fluttuazioni tra euforie e depressioni, ma soprattutto età in cui la domanda ontologica è: Chi sono io? Cosa desidero? La maschera adombra bene questo inquietante enigma dove il sé si colora di differenti aspetti e dove l’adolescente fatica a trovarsi e a farsi trovare. Davvero le adolescenti Barbara-Sheba per sopravvivere hanno bisogno di celarsi dietro un’immensa maschera e occorrerà un fatto traumatico prima che il mistero della verità possa emergere. In età adolescenziale si ha bisogno di proteggere il vero sé, si teme di esporlo a sguardi malevoli, ma c’è anche la paura di scoprirsi irriconoscibili, quasi mostruosi, come succede nel film per le due donne. Oltretutto, con la maschera ci si può permettere di sperimentarsi illimitatamente, è come un lasciapassare che non obbliga a precludersi ogni tipo di possibilità di essere, di sentire, passando da infatuazioni erotiche omo ed eterosessuali, a fantasie onnipotenti o suicide, da rabbie devastanti e avversione verso il mondo che obbliga a un contatto con le regole della realtà.
Il nascondimento inteso, dunque, come salvezza dalla paura di perdersi, come modo per creare mondi che siano più facilmente abitabili, come ammortizzatore di verità inconoscibili e soprattutto insopportabili. Per l’adolescente la maschera è uno stato fisiologico di attraversamento del guado della confusione, è paragonabile al segreto, è il salvagente che lo accompagna nella ricerca appassionata e spaventata del suo volto, per l’adulto la maschera è segnale di una difficoltà a riconoscere e a convivere con il vero Sé e a rapportarsi al reale. Bion ne L’elogio della menzogna, paradossalmente, riconosce la funzione protettiva della bugia quando l’incontro con la verità potrebbe essere troppo ustionante per la pelle mentale. Il bisogno di mascherarsi, allora, può essere pensato non più come strategia di falsità avvilente l’uomo e distruttiva della mente, ma anche come metafora, come difesa necessaria per digerire dolori intollerabili in certi momenti della vita, riconoscendo che, come dice Schopenhuer, “intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera”.

Judy Dench

Barbara e Sheba sono due donne intelligenti e sensibili, costrette dentro un insanabile conflitto tra desiderio e divieto, che le obbliga ad assumere ruoli che sentono stretti e inadeguati, ma indispensabili per rientrare nelle regole sociali, e sono indotte a camuffarsi con maschere di perbenismo per non lasciar trapelare desideri, vuoti e il vissuto di una realtà pesante e deludente. Sono simili e, allo stesso tempo, differenti: Barbara sente lo scorrere del tempo e le sfuggono di mano le illusioni della giovinezza che non si stanno realizzando; Sheba, splendida quarantenne, si sente altrettanto sola e fragile di fronte a prove dolorose e, a volte, impensabili. Reagiscono alla durezza della vita cercando sentimenti intensi, esperienze ustionanti che sono anche vie di fuga, una sorta di “antidepressivi”, modi per uscire da una normalità noiosa e frustrante: questo è il segreto che le unisce e che diventerà il fulcro della storia. Tutte e due si incontrano in un momento in cui la stanchezza del vivere, il bisogno di conforto e di un aggrappamento, la ricerca di un rispecchiamento consolidante urge famelicamente e l’incontro con un altro da sé che funga da sostegno alla pericolosità traballante dell’esistenza diventa un’esigenza imperdibile: ognuna ha bisogno dell’altra e parlando quella particolare lingua che è l’inconscio riconoscono la reciproche valenze affettive aperte a un legame.
Judy Dench e Cate Blanchett in una scena del film

C’è come un magnetismo che le attrae in una complicità di intenti: è una storia di solitudini che si riflette nelle due donne, diverse per età e vita sociale, ma accomunate dal doloroso vuoto interiore mal contenuto da un rigido controllo emozionale e da una incontrollabile bulimia affettivo-passionale. Solitudine e passione sono i due elementi del loro mondo emotivo per cui si riconoscono e si affidano l’una all’altra. Ma sono muri di dolore e vuoti esistenziali le basi fragili su cui si innestano e galleggiano le storie di Barbara e Sheba. L’incontro con Sheba, così eterea e seducente, risveglia in Barbara una passione latente sfogata nelle pagine del suo diario in cui si ritrae affettivamente dipendente da figure femminili più giovani, figure che si illude rispecchino il suo Sé ideale e che la mantengano in una giovinezza eterna. L’apparente ascetismo di Sheba sarà una molla scatenante il suo bisogno di controllo e di possesso. Mentre Sheba avrà modo di riempire il suo vuoto quando un allievo la corteggia con passione e lei si lascia facilmente sedurre dall’irruenza di questo amore impetuoso, che riattiva la sua parte adolescenziale travolta da un turbine di sessualità non addomesticabile. Ma quanto l’età e la vitalità del ragazzo possono anche adombrare una valenza riparatoria, sostitutiva, negante il pensiero atrocemente doloroso e indigeribile di avere un figlio maschio portatore di handicap?
Il titolo del film Diario di uno scandalo, diario che farà da leit-motiv allo scorrere del film, è rivelatore del dramma che si sta consumando attraverso la storia che racconta: parla di un mondo adolescenziale, out of time, ma intensamente e inesorabilmente vissuto dalle due donne. È un film che narra le debolezze umane, le angosce, le solitudini, i dolori della solitudine o le prove eccessive a cui la vita impietosamente espone. Il regista sa trattare con stile, misura, partecipata sensibilità, chiarezza, senza cadere nel moralistico o nel trash, temi delicati e inquietanti, ancora oggi annusati dai benpensanti con rigido distacco, con disprezzo o con giudizi rinneganti.
Cate Blanchett

Richard Eyre riesce a empatizzare con le difficoltà delle due donne, le accompagna con una pietas che non dà spazio alla morbosità o alla condanna perbenista, non c’è una mentalità rigida e preconcetta, ma si identifica con loro, dando immagine e trama a ciascuna, rispecchiando con sensibilità il loro mondo interno e relazionale. La possessività, la debolezza, la fiducia tradita, il bisogno di conforto, la pusillanimità, la vigliaccheria, la cattiveria, la passionalità incontrollabile, la gelosia, l’invidia, l’egoismo, la tenerezza, la vulnerabilità, la tristezza sono sentimenti che il regista fa entrare in scena come reali personaggi dando anima e corpo alla trama filmica; sono sentimenti che funzionano da motore implacabile e indomabile, spasmi emotivi che urlano aiuto e vicinanza e non riescono a controllare l’incontenibile fame dell’altro quale balsamo ineffabile alla bruciante ferita della solitudine dell’anima.


venerdì 28 luglio 2017

Incontro con Patrizia Milani / Da Euripide a Testori

La vita che ti diedi

Incontro con Patrizia Milani

Da Euripide a Testori

27 LUGLIO 2015, 
LUISA MARIANI

Patrizia Milani, diplomata col primo premio all'Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 1973, ha debuttato ne L'Avaro di Molière, regia di Orazio Costa. Per le sue interpretazioni ha ricevuto svariati riconoscimenti: il Premio Mediterraneo, il Veretium, il Fondi La Pastora, il Premio della Critica Italiana, l'Hystrio, il Flaiano. Ha preso parte a sceneggiati e commedie televisive e condotto un programma culturale per Rai 1.
Patrizia Milani in Gassosa, 2005-2006

Che cosa vuoi raccontare di te?
E’ difficile parlare di se stessi. Si rischia o di esagerare enfatizzando le proprie qualità o, al contrario, di sminuirsi per non diventare agiografici. Credo però che mi piacerebbe raccontare come e perché è nata la passione per il teatro e la decisione di diventare attrice di prosa. Sono stata una ragazza sensibile, determinata, solo apparentemente timida e l’insegnante di greco e latino aveva capito che la mia inquietudine aveva bisogno di trovare un linguaggio per esprimersi. E’ stata lei a far emergere la passione che è poi diventata il mio lavoro. L’Accademia milanese dei Filodrammatici e la facoltà di lettere a Pavia a cui mi ero iscritta per non deludere la famiglia che non capiva del tutto la scelta teatrale, sono state per anni una palestra. Poi, con grande facilità, ho avuto le prime scritture accanto a mostri sacri come Santuccio, Calindri, Villi, Brignone e ho capito davvero che quella sarebbe stata la mia strada. Non so come mi percepiscano gli altri, forse un po’ eccentrica o esibizionista. Questo è un lavoro difficile che richiede una grande concentrazione e che costringe a orari diversi da quelli della maggior parte delle persone, ma io mi sento assolutamente normale e sono riuscita a realizzarmi anche come donna e madre.
Ti senti di raccontare il tuo sogno?
Ho due sogni ricorrenti, nel primo nuoto placidamente in una risaia o in uno stagno con ciuffi d’erba che spuntano qua e là, nel secondo invece la sarta di palcoscenico non riesce ad allacciarmi il vestito che indosso e quindi non posso entrare in scena. Se invece con sogno si intende desiderio, quello di fermare il tempo e continuare a vivere con leggerezza e passione accanto alle persone che amo. Il resto sono solo ciliegine.
Per te piacere è…
Perdermi per le strade delle città in cui arrivo con lo spettacolo, scoprire luoghi e giardini nascosti inseguendo pensieri e progetti… sentirmi leggera e deresponsabilizzata prima di affrontare il pubblico.
Patrizia Milani in Medea, 1996-1997


La donna oggi : liberazione o integrazione?
L’una presuppone l’altra. L’integrazione nasce dalla libertà di scelta, dalla possibilità di decidere il proprio destino. La rivendicava già Mirandolina nella Locandiera di Carlo Goldoni nel 1751. Molto è stato fatto, qualcosa resta ancora da completare (retribuzioni pari a quelle maschili per parità di impegno e competenze, per esempio).
Donne e /è potere… Cosa ne pensi?
Credo che le donne, senza generalizzare, siano meno interessate al potere degli uomini. Forse perché da sempre, hanno assolto al compito dell’accoglienza, dell’accudimento, e non alludo solo a quello dei figli. Il mondo femminile ha un orizzonte più ampio e meno finalizzato su un unico traguardo. Il potere richiede una dedizione assoluta.
Stereotipo e realtà della donna milanese
Quando gli amici mi vogliono prendere in giro mi dicono che sembro proprio una "milanesina". In realtà non ho mai capito bene che cosa significhi. Forse alludono a un certo modo di vestire raffinato e poco appariscente o di parlare. In realtà le milanesi che conosco sono donne di grande energia, abili organizzatrici e molto generose, “cont el coeur in man”.
Il rapporto della donna con l’uomo contemporaneo: confronto o scontro?
Per fortuna donne e uomini sono diversi. Dunque: sì al confronto senza avere però paura dello scontro che non necessariamente è sempre negativo. Anzi, spesso, partendo da posizioni lontane, si raggiungono risultati migliori. Mio marito e io collaboriamo da anni, mi ha diretto (è regista e direttore di teatro) molte volte e non sono mancate tra noi divergenze di vedute su un personaggio o sul modo di interpretare una scena. L’importante è riuscire a trovare una nuova strada comune. Insieme abbiamo dato vita ad alcuni degli spettacoli più interessanti degli ultimi anni.

Il gabbiano

Sessualità, maternità, lavoro: tre fili che si intrecciano, confliggono o si elidono?
Riuscire a tenere in mano e gestire questi tre fili è, senza dubbio, la scommessa più difficile per una donna oggi. Non vogliamo o non possiamo rinunciare a niente: chi non si è sentita inadeguata o piena di sensi di colpa qualche volta? Io, lontana da casa, in tournée, ho vissuto anni al telefono. Credo, comunque, che il segreto sia imparare a delegare laddove sia possibile ma, soprattutto, avere un compagno comprensivo e complice.
Il volto e la maschera… ovvero come si trasforma l’identità della persona in personaggio, dell’uomo in attore?
Quando devo affrontare un personaggio penso subito a come camminerà, a come si muoverà. L’approccio è confuso ed emotivo. Procedo per illuminazioni… ma parto sempre dal testo, da quello che l’autore dice. Spesso lo associo a un animale per capire le reazioni istintive che lo fanno agire in un modo piuttosto che in un altro. Fare l’attore nasce da un’esigenza profonda, credo, dalla necessità di sentirsi amati, accettati. Gli attori sono spesso dei timidi.
Nella tua carriera teatrale hai interpretato più di sessanta personaggi, dal classico al contemporaneo, dal comico, al drammatico, al tragico: in quali ruoli ti sei maggiormente identificata?
Sono un’attrice versatile, mi piace passare dai ruoli drammatici a quelli comici o brillanti. Considero questa possibilità il privilegio più grande che offra il nostro mestiere. Certo ci sono dei personaggi che ho amato in modo particolare: La Locandiera di Carlo Goldoni, prima vera donna moderna cinica e disincantata e Geesche di * Libertà a Brema* di Rainer Werner Fassbinder, pronta a tutto, anche a uccidere, pur di ottenere, appunto, la propria libertà.
Quale premio o riconoscimento, dei tanti che hai ottenuto, ti ha dato maggiore soddisfazione?
Forse il premio Hystrio che mi è stato assegnato nel 2006 per Gassosa * di Roberto Cavosi e *Musica a richiesta di Franz Xaver Kroetz. Monologhi sulla condizione di sofferenza e solitudine di due donne, storie estreme in cui logorrea e afasia si contrappongono.

Il teatro comico

Sei attrice di teatro, cinema e televisione: che differenze ci sono?
Ho frequentato molto il palcoscenico e solo occasionalmente il cinema e la televisione. In Italia è difficile passare da un mondo all’altro, soprattutto negli ultimi anni, mentre all’estero gli attori di teatro vengono spesso utilizzati dai registi cinematografici. In realtà si tratta solo di tecniche diverse, il grumo emotivo e l’onestà con cui si comunica sono gli stessi.
Un autore o un’opera da riscoprire…
Direi Arthur Schnitzler, La contessina Mizzi. Amo molto la letteratura viennese tra Ottocento e Novecento, quando nasce la psicoanalisi con Freud e si comincia a scandagliare l’animo umano per dare delle risposte alle nostre pulsioni.
Esiste un teatro al femminile?
Da tempo sostengo che il teatro ha assolutamente bisogno della sensibilità femminile. Se è vero che sono più numerosi gli autori delle autrici è vero anche che registe e attrici hanno contribuito non poco all’innovazione del linguaggio scenico.
Ibsen, Pirandello, O’Neal: cosa ci possono dire ancora?
I grandi autori affrontano temi universali e parlano a tutti noi, per questo sopravvivono al loro tempo. Ogni epoca fa emergere in loro quello che necessita in quel momento.
C’è una tradizione teatrale ambrosiana?
Carlo Maria Maggi, Francesco Da Lemene, Carlo Porta, Cletto Arrighi, Marco Praga, Carlo Bertolazzi , Carlo Terron, Giovanni Testori sono solo le punte di diamante di una tradizione teatrale molto ricca. La produzione dialettale dopo le grandi prove de El nost Milan viene tenuta viva dalle tante compagnie amatoriali. Devo confessare che io, per esempio, quando affronto un testo nuovo traduco le battute in dialetto per trovare la spontaneità e l’immediatezza che solo il dialetto sa restituire. E’ una lingua viva, molto espressiva. Per uscire dai confini milanesi, come non ricordare il dialetto di Carlo Goldoni o di Eduardo De Filippo?
Immagina di poter ambientare una pièce teatrale nel mezzo della città : quali angoli , vie, piazze, monumenti, ambienti sceglieresti?
Certamente sceglierei il quartiere di Brera, dove vivo, con il suo dedalo di viuzze che va dall’Accademia all’ Orto Botanico fino a via Madonnina, per poi proseguire verso via Solferino e Garibaldi e arrivare ai nuovi grattacieli di Piazza Gae Aulenti. Questa è la Milano che amo, una città discreta e misteriosa in cui passato e presente si contaminano.
I tuoi progetti…
Intanto un po’ di “otium” dopo la fine della tournée della Vita che ti diedi di Pirandello conclusasi a Napoli. Ne ho bisogno per ricaricare le batterie ed essere pronta a nuove sfide. E poi si vedrà… Forse un testo di Karen Blixen.

Il malato immaginario di Moliére, Patrizia Milani con Paolo Bonacelli

Patrizia Milani
Ha debuttato ne L'Avaro di Molière, regia di Orazio Costa. Nel 1974 è Annabella in Peccato che sia una sgualdrina di Ford, regia di Roberto Guicciardini e Ofelia nell’Amleto diretto da Maurizio Scaparro. Sarà poi la figliastra dei Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello e Lisa ne Il Pigmalione di Shaw con Giulio Bosetti. Dal 1982 all'85 ha lavorato con il Teatro Stabile di Palermo interpretando, tra l'altro, La signorina Giulia di Strindberg e Il mercante di Venezia con Gianni Santuccio. Nel 1988 il fortunato incontro con Marco Bernardi, regista e direttore del Teatro Stabile di Bolzano, con cui inizia una lunga collaborazione. Insieme hanno dato vita ad alcuni degli spettacoli più interessanti della scena italiana degli ultimi 25 anni. Ricordiamo qualche titolo: La Locandiera e La vedova scaltra di Goldoni, Libertà a Brema di Fassbinder e Anni di piombo della von Trotta, Medea e Troiane di Euripide, Coppia aperta, quasi spalancata di Fo e Rame, L'Arialda di Testori, Il giardino dei ciliegi e Il gabbiano di Cechov , La vita che ti diedi e Ma non è una cosa seria di Pirandello, quasi sempre con Carlo Simoni. Con Paolo Bonacelli, regie sempre di Bernardi: La brigata dei cacciatori di Thomas Bernhard e Il malato immaginario di Molière. Sempre a Bolzano ma diretta da Cristina Pezzoli: Spettri di Ibsen con Fausto Paravidino, Precarie età di Maurizio Donadoni con Maria Paiato e Gassosa di Roberto Cavosi.