GIOVANNA LACEDRA
13 FEBBRAIO 2015
Inizialmente è stato il suo corpo a farsi parola. Poi ha cominciato a fotografare altre donne. E il brandello di pelle scoperta – si è trattato di un piede, di una mano o di un intero viso – è divenuto pagina bianca per un fiume di silenzi.
Shirin Neshat, fotografa e videoartista iraniana, ha raccontato della sottomissione femminile al fondamentalismo islamico, attraverso immagini dal grande potenziale comunicativo e dalla straordinaria eleganza estetica. Dalle sure del Corano ai versi ribelli di alcune poetesse, la pelle è diventata un silenzioso dire. Una muta narrazione di obblighi, divieti, censure, come anche del desiderio di liberazione. È nata a Qazvin, nel 1957. La sua era una famiglia agiata, che le ha consentito di ricevere un’educazione notevolmente emancipante rispetto a quella delle sue connazionali. In questo modo, nel 1974, è riuscita a lasciare l’Iran per andare a studiare arte e pittura presso l’Università di Berkeley, in California. Quello che si è portata dentro, però, era un pressante punto di domanda: per quale ragione nel suo paese d’origine le donne non avevano la possibilità di essere se stesse, di esprimersi e realizzarsi? La sua indagine artistica è dunque partita da quel punto di domanda.
Cosa significa essere donna? E quanto spersonalizzante è esserlo in Iran? Quanto può pesare – e schiacciare – il proprio genere, se si nasce in una determinata area del pianeta? Il trasferimento negli Stati Uniti ha occidentalizzato in maniera determinante il suo pensiero, pur senza adombrarne le radici. Parlando di sé, Shirin si è definita divisa tra Oriente e Occidente. Ma proprio questa divisione ha plasmato e reso peculiare la sua poetica. E più che di divisione, si è trattato di arricchimento. Shirin ha saputo portare avanti una ricerca di chiara impronta politica, religiosa e culturale, pur senza schieramenti. Come lei stessa ha affermato: “A me non interessa stabilire chi ha ragione, (…) il lavoro che faccio è una combinazione di che cosa esperisco nella mia storia personale”. Il suo spartirsi tra Oriente e Occidente le ha certamente permesso di portare avanti un discorso in cui i due estremi sono sempre stati sapientemente analizzati e intrecciati. Perno di tutta la sua indagine è stato ed è – come dicevamo – il corpo femminile. Il corpo e l’identità violata della donna musulmana. Una donna con molte più catene e ferite culturali, rispetto al suo corrispettivo occidentale. Una donna blindata, chiusa all’ombra di un burqa. E un burqa non è altro che una gabbia, una barriera protettiva che dovrebbe immunizzarla dal rischio di una mercificazione della carne e dell’immagine. Dunque, il corpo femminile nella ricerca di Shirin è pensato ed esposto come “corpo politico”.
Ramin, 2012 |
Ho già approfondito la condizione delle donne musulmane all’interno di un articolo dedicato a Shamsia Hassani, l’audace street artist di Kabul. In quell’occasione ho raccontato di come ancora oggi il fondamentalismo islamico uccida milioni di donne, se non nel corpo, certamente nello spirito e nella dignità. Donne private dei propri sogni, delle proprie ambizioni, del proprio lavoro, della propria identità. Donne stuprate da mani, da corpi, da divieti inammissibili. Donne asfissiate da un velo. Donne sottratte alla vita. Donne perfino lapidate. Quando Shirin decise di recarsi in California per studiare non immaginava quanto sarebbe stato complicato rientrare nel proprio paese. La rivoluzione del 1979 prima e la guerra tra Iran e Iraq poi, le resero impossibile il rientro sino al 1990. E nel frattempo il volto e sostanza della sua terra erano mutate: la rivoluzione, incitata dal leader Khomeini, aveva trasformato la monarchia in repubblica islamica, fondando una Costituzione ispirata alla legge Coranica, e la guerra del Golfo aveva stremato l’economia del paese a causa dei continui attacchi alle industrie e ai campi petroliferi.
L’impatto fu per lei dirompente. Soprattutto la condizione delle sue coetanee la impressionò. Lei era certamente riuscita a salvarsi. Pensava di continuo a quell’immagine di donna ingabbiata, e per comprenderla decise di vestirne i panni. Nasceva così, nel 1993 la prima serie di fotografie dedicate a questo tema: Women of Allah. In queste fotografie i versi di rivoluzionarie poetesse iraniane – una tra tante la Farrukhzād – e gli stessi testi del sacri, camminano il suo volto, i suoi piedi, le sue mani. Davanti all’obiettivo fotografico, Shirin diventa una donna rabbiosa e sottomessa. Modella di se stessa, utilizza il proprio sguardo per arrivare allo spettatore. Gli elementi essenziali sono tre: il velo nero, una pistola e la parola.
In una delle immagini più note di questa serie, intitolata Speechless – “ senza parole” –, il primo piano del suo viso risulta tagliato a metà sull’asse di simmetria, e dal buio del velo spunta la canna di un’arma. Una pistola che le rasenta il viso e che sembra essere puntata verso l’altro. Ma potrebbe anche trattarsi dell’arma con cui viene tenuta in ostaggio. La chiave di lettura è duplice ed è comunque verosimile. Lo sguardo di Shirin è diretto, afferra lo spettatore. Sul suo volto scorre fittissimo il testo sacro del Corano, trascritto in persiano (la calligrafia persiana non è altro che una versione modificata dell’alfabeto arabo, affermatasi in seguito ala conversione all’Islam da parte della Persia). Gli ideogrammi calligrafici sono sinuosi, precisi, ordinati: riempiono fronte, gote, naso, bocca, zigomi, mento. In silenzio raccontano di donne, di obblighi e di prigioni. Il volto, luogo dell’espressività soggettiva, diventa una pagina anonima colonizzata dal silenzio imperativo della legge. La scrittura è un intervento postumo, realizzato con inchiostro su stampa fotografica in bianco e nero. Shirin è, in quest’opera, una donna devota ad Allah. È una donna costretta alla devozione. È una donna che non ha mai scelto. Dopo il suo volto, volti di altre donne e anche di alcuni uomini si sono prestati a questa rappresentazione visiva della parola silenziata.
In una delle immagini più note di questa serie, intitolata Speechless – “ senza parole” –, il primo piano del suo viso risulta tagliato a metà sull’asse di simmetria, e dal buio del velo spunta la canna di un’arma. Una pistola che le rasenta il viso e che sembra essere puntata verso l’altro. Ma potrebbe anche trattarsi dell’arma con cui viene tenuta in ostaggio. La chiave di lettura è duplice ed è comunque verosimile. Lo sguardo di Shirin è diretto, afferra lo spettatore. Sul suo volto scorre fittissimo il testo sacro del Corano, trascritto in persiano (la calligrafia persiana non è altro che una versione modificata dell’alfabeto arabo, affermatasi in seguito ala conversione all’Islam da parte della Persia). Gli ideogrammi calligrafici sono sinuosi, precisi, ordinati: riempiono fronte, gote, naso, bocca, zigomi, mento. In silenzio raccontano di donne, di obblighi e di prigioni. Il volto, luogo dell’espressività soggettiva, diventa una pagina anonima colonizzata dal silenzio imperativo della legge. La scrittura è un intervento postumo, realizzato con inchiostro su stampa fotografica in bianco e nero. Shirin è, in quest’opera, una donna devota ad Allah. È una donna costretta alla devozione. È una donna che non ha mai scelto. Dopo il suo volto, volti di altre donne e anche di alcuni uomini si sono prestati a questa rappresentazione visiva della parola silenziata.
Ma non è soltanto con la fotografia che la Neshat si è espressa. Molti sono stati anche i video e i lungometraggi da lei realizzati. Tra questi vanno ricordati Shadow under the web del 1997, Turbulent del 1998 e Soliloquy del 1999, tutti lavori che affrontano tematiche sociopolitiche e culturali come la sottomissione, il terrorismo, la violenza. Turbulent, ad esempio, tratta una delle più assurde e violente leggi iraniane, quella che vieta alle donne di cantare in pubblico. Come l’artista stessa ha spiegato in un’intervista di Francesca Caraffini pubblicata sul numero 14 di Virus, in questo video vi è “un pieno complesso di emozioni represse: affetto, desiderio, sessualità” trasformate in veri e propri tabù. All’interno della stessa intervista, dichiara: “quello che interessa a me è la possibilità di realizzare opere che siano il più possibile poetiche, opere in cui conta molto il fatto di esprimere delle emozioni, nonostante il fatto che toccano argomenti sociali, religiosi e politici”.
Nel 1999, il video Soliloquy non è altro che il ritratto (autoritratto?) di donna musulmana combattuta tra tradizioni d’oriente e contemporaneità occidentale. Il suo riconoscimento più alto giunge nel 2009: è il Leone d’Argento vinto durante il 66° Festival del Cinema di Venezia, con un lungometraggio titolato Donne senza Uomini, in cui quattro donne di Teheran, provenienti da quattro differenti classi sociali, si trovano a vivere il Colpo di Stato del 1953. Ciascuna ha la propria storia, la propria perdita, la propria ferita: Fakhri è stata costretta a sposare un uomo che non ama, Zarin si prostituisce, Munis vorrebbe lottare per i propri ideali politici ma viene isolata da un fratello assolutamente fedele ai principi islamici, e infine Faezeh appare completamente noncurante rispetto a quello che le accade intorno. I loro destini inevitabilmente si intrecciano quando si ritrovano costrette a rifugiarsi in un giardino.
Attualmente Shirin continua a creare muovendosi ancora tra l’Iran e New York. E forse è proprio questo il segreto della sua produttività.
Attualmente è autrice per Wall Street International Magazine, sezione Arte e cura un proprio Blog, titolato Ellepourart e dedicato esclusivamente all'arte fatta dalle donne, includendovi artiste giovani o storicizzate, pittrici, scultrici, fotografe, performer, poetesse...
WSI
Giovanna Lacedra
Nasce nel 1977 a Venosa (PZ). Nel 2000 consegue il diploma di laurea in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 2004 consegue l’abilitazione all’insegnamento presso l’Università di Pisa. Si trasferisce poi a Milano, dove attualmente vive e lavora come docente, artista visiva, performer e autrice. Come performer si è esibita sia in progetti di altri artisti, quali: "La bara del Bastardo" di Daniele Alonge - 2011; "Yummy Good!" di Manuela De Merito - 2011, che in propri
Dal 2011 al 2015 ha portato in scena, con un tour itinerante che ha toccato ben 14 tappe in gallerie, musei e spazi espositivi italiani e in città come Milano, Sassuolo, Cesena, Pescara, Lecce, Napoli, etc… la Performance Confessional "Io Sottraggo. La Triangolazione Cibo-Corpo-Peso", un progetto riguardante la patologia anoressico-bulimica, da lei ideata, scritta e interpretata. A Milano la performance è stata portata in scena anche presso il Museo della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” in occasione della fiera d’arte contemporanea Step09 Art Fair, nel novembre 2011, a Venezia è andata in scena il 9 maggio 2015, in concomitanza con l’apertura della 56 Biennale Internazionale di Arte Contemporanea, e ha fatto parte della V Biennale d’arte di Anzio e Nettuno. La performance è stata introdotta nelle tesi di laurea di alcune studentesse del Dams e della Facoltà di Beni Culturali, per gentile concessione dell’artista. Inoltre, la scuola di Giornalismo “Walter Tobagi” dell’Università Statale di Milano ha realizzato una video-intervista in occasione di Expo2015, pubblicata sulla piattaforma ExpoStories.
Nel settembre 2013 nasce la performance "L'Aspirante", un nuovo progetto che affronta il tema della prevaricazione e della violenza di genere, intellettuale e psicologica, prima che fisica, sbocciato dalla rilettura dell’omonima poesia di Sylvia Plath e dei suoi Diari. Ideata, scritta e interpretata da Giovanna Lacedra e Roberto Milani, la performance è andata in scena tra il 2013 e il 2015 presso le seguenti location: galleria d’Arte Amy-D di Milano, fiera d’arte ArtVerona, per CUNTemporary Art|Feminism|Queer di Londra, Galleria Comunale Ex Pescheria di Cesena, con Patrocinio del Comune e dell’Assessorato Politiche delle Differenze Casa Museo di Ludovico Ariosto a Ferrara, Chiostro di Voltorre a Gavirate (Varese) per la mostra “la neve non ha voce” a cura di Alessandra Redaelli.
Nel maggio 2014 a partire dall’omonima poesia di Vittorio Varano, scrive e porta in scena la performance “Come il mare in un Bicchiere”, con la partecipazione performativa di Irene Lucia Vanelli. La performance viene realizzata tra il 2014 e il 2015 presso: 77Art Gallery di Milano, MAG – Marsiglione Art Gallery di Como, “CORPO | Festival di Arti Performative” di Pescara, V Edizione a cura di Ivan D’Alberto e Sibilla Panerai. Nel giugno 2014 ha portato scritto e portato in scena, prima presso la Casa Museo di Ludovico Ariosto a Ferrara e poi presso l’ArtFarm Pilastro di Bonavigo (Verona), una performance articolata sui versi dell'ultima poesia di Sylvia Plath e su un percorso di 100 acquerelli che la ritraggono come innumerevoli sindoni-tracce, titolata "EDGE | Ultimo Ritr-Atto".
Nell’autunno 2014 scrive e porta in scena una performance sull’infansia abusata, liberamente ispirata al libro “I quaderni delle bambine” della psicologa Maria Rita Parsi. La performance si intitola NONSONOMAISTATAUNABAMBINA. Si esibiscono con lei il fotografo e attore Massimo Festi e la piccola Giulia Fumagalli. I monologhi sono di Giovanna Lacedra, le musiche di Larva Casei. Le tappe sono due: Palazzo Pirola, Gorgonzola (MI) e Galleria Biffi Arte di Piacenza. Entrambi gli eventi fanno parte della rassegna “Femminile Plurale” a cura di Alessandra Redaelli.
Ha partecipato a progetti fotografici di Massimo Prizzon, Pablo Peron, Christian Zucconi, Marco Chiurato, Franco Donaggio, Massimo Festi.
Ha scritto testi critici per artisti come: Elisa Anfuso, Anna Caruso, Paola Mineo, Urban Solid, Daniele Duò, Pep Marchegiani, Alessio Bolognesi, Alessandro Carnevale.
WSI
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Ketty La Rocca / Il mio corpo dall'Io al Tu
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Valie Export / Quando l'arte è autodeterminazione
Francesca Woodman / Alcune disordinate geometrie interiori
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