mercoledì 6 settembre 2017

Emmanuel Carrère / “Sono un genio perché vi metto in imbarazzo”

Emmanuel Carrère, scrittore e sceneggiatore, è nato a Parigi nel 1957. Tra le sue opere, «La settimana bianca», «Limonov», «L’Avversario» (storia di Jean-Claude Romand, che ha vissuto una vita di menzogne prima di sterminare i famigliari, trasformata in film da Nicole Garcia, con Daniel Auteuil), «Il Regno», «Io sono vivo, voi siete morti» (sulla vita vera e sognata di Dick) e il reportage «A Calais» nella baraccopoli dei migranti (tutti pubblicati da Adelphi; che ha rilanciato lo scrittore portato in Italia da Einaudi a metà Anni 90)

Emmanuel Carrère
“Sono un genio perché vi metto in imbarazzo”


Articoli, reportage, appunti di lettura, discorsi e lettere che attraversano venticinque anni di carriera


Per provare a capire il grado di realismo di un racconto, Emmanuel Carrère propone il «criterio dell’imbarazzo». Se incontriamo un dettaglio che l’autore deve avere verosimilmente pensato di eliminare perché imbarazzante o in qualche modo scomodo, avvertiamo un istintivo «senso di verità». Non è solo una dichiarazione di principio ma anche un criterio operativo in grado di attraversare l’intera opera di Carrère, o almeno la sua fase più nota, quella della non-fiction. Pochi autori contemporanei hanno fatto come Carrère del culto – e dell’esibizione- del dettaglio scomodo, delle pulsioni che i più preferirebbero tacere, un marchio di fabbrica.


Ogni appassionato dello scrittore francese ricorda la lunga lettera erotica alla compagna pubblicata sulle pagine di Le Monde (oggi contenuta all’interno dello splendido La mia vita come un romanzo russo) una storia con un epilogo che sarebbe stato sommamente umiliante se solo il primo ad esibirlo non fosse Carrère con quel misto di stoicismo ed egocentrismo dichiarato che contraddistingue il suo stile. I lettori si dividono fra chi è infastidito da una prospettiva così apertamente egotica e chi invece coglie i due messaggi sottintesi a questo approccio. Il primo è: sono fallibile e imperfetto come tutti gli altri, seppur a modo mio - come appunto tutti gli altri. Il secondo, forse ancora più importante, è che l’unico racconto onesto possibile sia quello dichiaratamente soggettivo.


(Emmanuel Carrère «Propizio è avere ove recarsi», 
trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi pp. 429, € 22)



Propizio è avere ove recarsi è uno zibaldone il cui titolo è una risposta dell’I Ching, l’antico libro oracolare cinese, ed è composto di articoli, reportage, recensioni, discorsi e lettere che attraversano venticinque anni di carriera. Una raccolta con cui è possibile entrare nel cantiere aperto del lavoro dello scrittore francese e dove è spesso lui stesso a riflettere apertamente sulle tecniche che utilizza e sui loro significati. Centrale in questo senso è il discorso su A Sangue freddo di Truman Capote, uno dei testi fondanti della non-fiction contemporanea, un paradigma ingombrante con cui Carrère si confronta quando decide di scrivere un libro su Jean-Claude Romand, un impostore che dopo aver fatto a credere a tutti per anni di essere un medico quando in realtà era nemmeno laureato, sterminò la famiglia, i genitori e il cane. All’ultimo momento, quando dopo anni di ricerche Carrère si è ormai deciso ad abbandonare il progetto anche a causa dell’incapacità di convivere con il fantasma di Capote, riesce finalmente a sbloccarsi inserendo nella storia sé stesso, la sua famiglia e il suo mondo.



Come un fisico quantistico Carrère riconosce l’impossibilità di indagare nel profondo della materia senza che il suo scrutare causi dei cambiamenti nell’oggetto osservato, ed è questa consapevolezza a cambiare tutto. In campo scientifico tutto ciò si chiama «principio d’indeterminazione», in campo letterario si traduce in un approccio in cui l’onestà intellettuale non deriva più dalla pretesa equidistanza di un narratore onnisciente dai personaggi del racconto, ma al contrario dalla dichiarazione esplicita della peculiarità dell’osservatore, del peso ineliminabile non solo del suo agire ma anche delle sue convinzioni pregresse, delle sue aspirazioni e della sua storia personale. Qualsiasi cosa sia «La Verità» in Carrère rimane sullo sfondo come una particella inconoscibile o un noumeno kantiano, quello su cui possiamo invece mettere le mani è la versione del narratore, accuratamente filtrata dalle sue idiosincrasie e ossessioni. Nel caso di Carrère questo si traduce in uno scrittore che non fa mistero della sua estrazione alto borghese e del fatto di vivere con una giornalista «in una zona decisamente radical chic» di Parigi, capitale di un Paese «in una fase di lento declino» e di «mobilità sociale ridotta». 


Se in certi momenti il maggior desiderio di Carrère sembra essere per sua stessa ammissione comprare una casa in Grecia, a questo orizzonte aspirazionale ben delimitato e apparentemente privo di rischi, corrispondono una serie di ossessioni personali per la violenza, la morte, la follia, ma anche l’ammirazione per la freddezza della madre (il motto materno «Never explain, never complain» risuona in tutta l’opera di Carrère come una sorta di stella polare irraggiungibile, ne è prova il fatto che la sua, di freddezza, Carrère l’argomenta per mestiere) o ancora un’attrazione per una Russia a metà fra avamposto di frontiera senza legge e luogo dell’anima dove sono ancora possibili sentimenti non viziati dall’ironia post-moderna che affligge la vita di un intellettuale parigino benestante che ritiene di aver già visto tutto. 

È così che nelle pagine di Propizio è avere ove recarsi vediamo Carrère piangere a dirotto al cospetto di un coro di bambini di una scuola elementare di Mosca che prendono molto sul serio il loro compito. È chiaro, dati questi presuppo sti, che il racconto di Carrère non ha mai la pretesa di essere oggettivo, ammette ad esempio di non sapere fin dove arrivi il vero Limonov e dove inizi invece quello della sua fantasia. 

Ogni tanto nelle sue storie appare un’interferenza rivelatrice, come quando intervistando una giovane fotoreporter individua nella sua sicurezza i segni di un’origine benestante, ipotesi che la diretta interessata smentisce fra le risate. Piccoli episodi a parte la controprova manca quasi sempre – e dovremmo comunque affidarci alla volontà dell’autore di riportarla- bisogna quindi fidarsi ed in fondo va bene così, è il senso dell’intera operazione e a ben guardare è qualcosa che finiremmo per fare comunque anche partendo da presupposti diversi, meno trasparenti. Il tutto funziona anche perché l’abilità nel mettere in dubbio l’io narrante, l’autoanalisi impietosa e destrutturante della sua psiche è forse la più notevole delle qualità letterarie di Carrère, un capacità di decodifica di portata tale che si gli perdonano alcuni vizi minori come una pressoché totale mancanza di ironia, qualità temuta e un po’ disprezzata per ragioni che lui stesso ci suggerisce appunto biografiche. 

Il libro ha molto da offrire anche ai lettori meno interessati a questioni tanto teoriche, contiene reportage memorabili sul misterioso autore del bestseller degli anni 70 L’uomo dei dadi o sul meeting economico di Davos, un ottimo profilo biografico di Alan Turing, un buon numero di viaggi in Russia e uno in Romania sulle tracce di Dracula. Tutto materiale che ricorda come prima ancora di essere un’anima tormentata che ha osato dichiarare il peso del punto di vista nella scrittura, elefante nella stanza del conformismo letterario, Carrère sia un eccezionale narratore. 


LA STAMPA





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