James Joyce David Levine |
L'ODISSEA CLINICA DI JAMES JOYCE
Luca Ventura, Cinzia Carloni
Unità Operativa di Anatomia ed Istologia Patologica, ASL N. 4,
Ospedale San Salvatore, Coppito - L’Aquila
Ospedale San Salvatore, Coppito - L’Aquila
Riassunto
James Joyce, unanimemente considerato uno dei maggiori romanzieri del ventesimo secolo, fu affetto da numerose malattie. Una serie di circostanze sfavorevoli complicò progressivamente il suo stato di salute, reso già precario da sregolate abitudini di vita. Tralasciando le argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, vogliamo riassumere in questa sede le molteplici patologie organiche che lo riguardarono in vita.
Gravi disturbi oculari, causati da ricorrenti attacchi di irite complicati da glaucoma e cataratta, lo condussero quasi alla cecità, costringendolo a subire ben undici interventi chirurgici. Alimentazione sregolata, ansia ed abuso di alcool furono alla base dell’ulcera peptica che lo tormentò per anni, causandone infine la morte. A tali condizioni vanno aggiunte febbre reumatica, carie dentali e malattie veneree. Resta, invece, ancora da dimostrare l’ipotesi che Joyce sia stato affetto anche da neurolue.
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati contro tali malattie, gran parte delle quali oggi agevolmente curabili, va imputato alla complessità della condizione clinica del paziente, alla sua scarsa “compliance” ed ai limitati mezzi della medicina del tempo.
James Joyce, unanimemente considerato uno dei maggiori romanzieri del ventesimo secolo, fu affetto da numerose malattie. Una serie di circostanze sfavorevoli complicò progressivamente il suo stato di salute, reso già precario da sregolate abitudini di vita. Tralasciando le argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, vogliamo riassumere in questa sede le molteplici patologie organiche che lo riguardarono in vita.
Gravi disturbi oculari, causati da ricorrenti attacchi di irite complicati da glaucoma e cataratta, lo condussero quasi alla cecità, costringendolo a subire ben undici interventi chirurgici. Alimentazione sregolata, ansia ed abuso di alcool furono alla base dell’ulcera peptica che lo tormentò per anni, causandone infine la morte. A tali condizioni vanno aggiunte febbre reumatica, carie dentali e malattie veneree. Resta, invece, ancora da dimostrare l’ipotesi che Joyce sia stato affetto anche da neurolue.
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati contro tali malattie, gran parte delle quali oggi agevolmente curabili, va imputato alla complessità della condizione clinica del paziente, alla sua scarsa “compliance” ed ai limitati mezzi della medicina del tempo.
Introduzione
“A man of genius makes no mistakes, his errors are volitional and are the portals of discovery”. Questa citazione dello scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) riassume la smisurata alterigia dell’autore e l’alta opinione che egli ebbe di sé, profondamente convinto del suo genio versatile e precoce, dote comunque riconosciuta dalla moderna critica letteraria, che gli attribuisce il merito di aver rivoluzionato il romanzo contemporaneo.
Finzione narrativa ed autobiografia s’intrecciano sapientemente nell’opera di Joyce, che ha reso l’arte lo strumento per interpretare la propria esistenza ed il mondo che lo circonda. Egli rappresenta il prototipo dell’intellettuale moderno, che antepone l’arte a qualunque interesse, interpretandola come l’essenza stessa del suo esistere. Sin da ragazzo dimostra doti di grande intelligenza, insieme ad una propensione per la vita goliardica ed esuberante; intellettualmente “curioso”, impersona bene il ribelle irriverente, amante delle compagnie allegre, indulge ai piaceri dell’alcool, abitudine che coltiva tutta la vita, senza neppure sottrarsi ad un licenzioso “whoring”. Già in gioventù cerca di affermare la sua identità di artista, rifiutando qualunque conformismo morale ed intellettuale, una ricerca che sosterrà malgrado le traversie personali e professionali con grande fermezza.
Dopo l’allontanamento da Dublino, città natale e microcosmo di ogni sua storia, ma che abbandona perché percepita come l’ambiente culturalmente gretto che soffoca i suoi fermenti intellettuali, egli vivrà gran parte della vita spostandosi da una città all’altra, sempre alla ricerca di una sistemazione, tentando di conciliare le esigenze della vita contingente con le proprie aspirazioni artistiche. Per anni vive nella precarietà cercando di sfuggire ad una grama povertà e ad una vita disordinata persino nelle abitudini alimentari.
Particolarmente affascinante risulta il profilo nosografico di questo autore, caratterizzato da una serie di eventi che complicarono progressivamente il suo stato di salute, già reso precario da abitudini di vita sregolate. Tralasciando le pur interessanti argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, ci occuperemo in tale sede di riassumere le numerose patologie organiche che afflissero Joyce nel corso della vita.
“A man of genius makes no mistakes, his errors are volitional and are the portals of discovery”. Questa citazione dello scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) riassume la smisurata alterigia dell’autore e l’alta opinione che egli ebbe di sé, profondamente convinto del suo genio versatile e precoce, dote comunque riconosciuta dalla moderna critica letteraria, che gli attribuisce il merito di aver rivoluzionato il romanzo contemporaneo.
Finzione narrativa ed autobiografia s’intrecciano sapientemente nell’opera di Joyce, che ha reso l’arte lo strumento per interpretare la propria esistenza ed il mondo che lo circonda. Egli rappresenta il prototipo dell’intellettuale moderno, che antepone l’arte a qualunque interesse, interpretandola come l’essenza stessa del suo esistere. Sin da ragazzo dimostra doti di grande intelligenza, insieme ad una propensione per la vita goliardica ed esuberante; intellettualmente “curioso”, impersona bene il ribelle irriverente, amante delle compagnie allegre, indulge ai piaceri dell’alcool, abitudine che coltiva tutta la vita, senza neppure sottrarsi ad un licenzioso “whoring”. Già in gioventù cerca di affermare la sua identità di artista, rifiutando qualunque conformismo morale ed intellettuale, una ricerca che sosterrà malgrado le traversie personali e professionali con grande fermezza.
Dopo l’allontanamento da Dublino, città natale e microcosmo di ogni sua storia, ma che abbandona perché percepita come l’ambiente culturalmente gretto che soffoca i suoi fermenti intellettuali, egli vivrà gran parte della vita spostandosi da una città all’altra, sempre alla ricerca di una sistemazione, tentando di conciliare le esigenze della vita contingente con le proprie aspirazioni artistiche. Per anni vive nella precarietà cercando di sfuggire ad una grama povertà e ad una vita disordinata persino nelle abitudini alimentari.
Particolarmente affascinante risulta il profilo nosografico di questo autore, caratterizzato da una serie di eventi che complicarono progressivamente il suo stato di salute, già reso precario da abitudini di vita sregolate. Tralasciando le pur interessanti argomentazioni relative all’analisi psicopatologica del personaggio, ci occuperemo in tale sede di riassumere le numerose patologie organiche che afflissero Joyce nel corso della vita.
Nosografia del personaggio
Diversi sono i quadri patologici registrati nelle numerose biografie e che vanno dalla degenza ospedaliera nell’estate del 1907, causata da una febbre reumatica, ai disturbi oculari (irite, glaucoma e cataratta) che lo condussero quasi alla cecità, fino ai ricorrenti dolori addominali dovuti ad un’ulcera peptica. Oltre alle numerose opere biografiche, che raccontano con dovizia di particolari la tumultuosa vita di Joyce, una fonte utilissima è rappresentata dalle innumerevoli lettere che lo scrittore amò indirizzare ai più svariati destinatari. In esse si ritrovano spesso chiari riferimenti al suo stato di salute.
Così racconta al fratello, in una lettera da Pola del 7 febbraio 1905, i primi problemi alla vista:
“Sono stato visitato dal dottore dell’Ospedale Navale di qui la settimana scorsa e adesso porto occhiali a pince nez attaccati a un cordoncino per leggere. Il mio numero di diottrie è molto alto…”.
E’ questa la prima menzione dei gravi disturbi oculari, che tormentarono Joyce per il resto della vita ed in seguito ai quali subì ben undici interventi chirurgici.
Al primo attacco di irite all’occhio sinistro, accusato nel 1907 mentre era in cura per febbre reumatica e sepsi dentale, ne seguiranno altri nel 1908, nel 1909 e nel 1917. Quest’ultimo fu complicato da sinechie e glaucoma e seguito dalla prima iridectomia. In una lettera all’amica e mecenate Miss Weaver scrive:
“Sono ancora in cura e piuttosto depresso perché il male all’occhio – forse per via del tempo infame – dura tanto. Nessun attacco precedente è durato così a lungo. Non ho dolori, ma le conseguenze questa volta sembrano piuttosto gravi. Spero sempre però che si possa evitare un’operazione. Sono in grado comunque di leggere e scrivere e continuo il mio libro al consueto passo di lumaca”.
A partire dall’anno seguente cominciarono ad essere coinvolti entrambi gli occhi, curati con gocce miotiche ed impacchi freddi. Un nuovo, fortissimo attacco si ebbe nel 1922; la sua editrice, Sylvia Beach, lo condusse dal proprio oftalmologo, Louis Borsch. Costui convinse Joyce che i precedenti interventi erano stati un errore, rimandando qualsiasi atto chirurgico a quando l’irite sarebbe scomparsa. Ma la sfinterectomia effettuata nel 1923 (dopo il nono attacco di irite) e l’iridectomia del 1924 non produssero alcun miglioramento. L’anno successivo fu rimossa la cataratta dall’occhio sinistro, con persistenza di membrane secondarie. Seguirono quattro capsulotomie sinistre con perdita del vitreo ed emorragie. Anche a destra, dopo i reiterati attacchi di irite, si era sviluppata cataratta.
Alla morte di Borsch, Joyce finì in cura dal Professor Alfred Vogt, il più quotato chirurgo oftalmico europeo dell’epoca. Si presentò a costui quasi cieco, reduce da otto interventi sull’occhio sinistro. Nel 1930 Vogt lo sottopose a discissione orizzontale di cataratta terziaria dell’occhio sinistro. Per i due anni successivi Joyce, assillato da nuovi gravissimi problemi familiari (la figlia manifestava i primi palesi sintomi della schizofrenia), non si presentò alle visite di controllo consigliate e sollecitate da Vogt. Solo una nuova diminuzione dell’acuità visiva lo condusse a rivolgersi nuovamente a lui. L’occhio destro presentava ormai cataratta totale con glaucoma secondario e parziale atrofia di retina e nervo ottico.
La scrupolosità di Vogt nei sistematici richiami e controlli trimestrali successivi, unita alla decisione di non intervenire più sull’occhio sinistro portò presto Joyce a recriminare sulla propria superficialità e rimpiangere di non averlo incontrato prima.
Nonostante i momenti di comprensibile sconforto, nei periodi in cui la malattia gli procurava la cecità, la sua volontà creativa aumentava, arricchendo la densità della scrittura. Continuò infatti imperterrito la sua attività di scrittore, portando avanti la grande opera Finnegans Wake, meta finale della sua rivoluzione linguistica e letteraria nel romanzo del ventesimo secolo.
Durante tutta l’età adulta Joyce soffrì di ricorrenti dolori addominali, dovuti certamente ad ulcera peptica, ma attribuiti dai medici ai “nervi”. I sintomi furono trascurati per almeno sette anni, avendo Joyce accettato la matrice psicosomatica dei suoi dolori, suggerita da medici e conoscenti. Il dolore era spesso associato al digiuno (protratto a volte fino a quarantadue ore), a preoccupazioni finanziarie, al tormento per la sorte della figlia ed all’abuso di alcool.
Nel 1933 a Parigi consultò la dottoressa Bertrand-Fontaine, la quale stabilì, dopo aver esaminato gli esami radiografici, che lo stomaco non presentava ulcere. Al momento di abbandonare Parigi, nel settembre 1939, i dolori addominali si ripresentarono, ma Joyce disattese l’indicazione del medico che lo invitava ad effettuare nuove radiografie nel timore potesse trattarsi di una neoplasia.
Poche settimane dopo l’arrivo a Zurigo, il 9 gennaio 1941, al ritorno a casa dopo cena avvertì improvvisamente dolori addominali fortissimi. Un medico del posto gli somministrò, poco giudiziosamente, della morfina per consentirgli di riposare. Il giorno dopo lo stesso medico, non avendo riscontrato miglioramenti, richiese una consulenza chirurgica. Nonostante i segni clinici fossero ancora camuffati dall’effetto dei narcotici, il dottor Freyz fece ricoverare Joyce d’urgenza. Seguì un rapido peggioramento del paziente, che allora presentava chiari segni di peritonite.
All’intervento chirurgico fu subito evidente un’ulcera duodenale perforata del diametro di 3 mm, posta anteriormente, che fu prontamente suturata e ricoperta con un patch omentale. Un’emorragia massiva con relativo shock si manifestò il pomeriggio seguente. Le trasfusioni non modificarono il quadro e Joyce entrò in coma, per morire durante la notte seguente, il 13 gennaio 1941, all’età di 58 anni.
L’esame autoptico confermò la peritonite, dimostrando che la sutura chirurgica era ancora intatta. In più furono notate due ulcere superficiali del duodeno ed una gran quantità di sangue coagulato nel tratto gastroenterico. La causa di morte fu quindi identificata con la peritonite da ulcera duodenale perforata, complicata da due ulcere duodenali posteriori con emorragia massiva e polmonite ipostatica.
Resta infine totalmente da dimostrare che Joyce fosse affetto da neurosifilide. Non c’è dubbio che Joyce possa aver contratto malattie veneree nei bordelli di Dublino e Parigi, ma non esistono evidenze tali da suffragare l’ipotesi che sia stato affetto dalla lue. Gli attacchi ricorrenti di uretrite in giovane età nonché la presenza di dolori reumatici ed atteggiamenti posturali tipici inducono alcuni studiosi a ritenere che Joyce possa esser stato affetto da un’artropatia sieronegativa, quale la spondilite anchilosante o la sindrome di Reiter, quest’ultima caratterizzata dall’associazione di artrite, congiuntivite ed uretrite. Se l’assenza di radiogrammi che documentino lo stato in vita delle articolazioni sacroiliache non consente di confermare l’ipotesi della spondilite anchilosante, l’eventualità di un’infezione luetica è resa poco credibile da vari elementi, il più importante dei quali è l’assenza di plasmacellule descritta all’esame istologico delle lesioni aortiche riscontrate durante l’autopsia. Tali elementi, invariabilmente confinati alla valutazione storico-biografica del personaggio, avvalorano la tesi dell’artropatia sieronegativa, ma non consentono di escludere la diagnosi di lue. Solo un accurato studio paleopatologico dei suoi resti mortali, condotto con le moderne metodologie radiologiche e biomolecolari, sarebbe in grado di fornire risultati definitivi, gettando nuova luce sul principale mistero della vita di James Joyce.
Diversi sono i quadri patologici registrati nelle numerose biografie e che vanno dalla degenza ospedaliera nell’estate del 1907, causata da una febbre reumatica, ai disturbi oculari (irite, glaucoma e cataratta) che lo condussero quasi alla cecità, fino ai ricorrenti dolori addominali dovuti ad un’ulcera peptica. Oltre alle numerose opere biografiche, che raccontano con dovizia di particolari la tumultuosa vita di Joyce, una fonte utilissima è rappresentata dalle innumerevoli lettere che lo scrittore amò indirizzare ai più svariati destinatari. In esse si ritrovano spesso chiari riferimenti al suo stato di salute.
Così racconta al fratello, in una lettera da Pola del 7 febbraio 1905, i primi problemi alla vista:
“Sono stato visitato dal dottore dell’Ospedale Navale di qui la settimana scorsa e adesso porto occhiali a pince nez attaccati a un cordoncino per leggere. Il mio numero di diottrie è molto alto…”.
E’ questa la prima menzione dei gravi disturbi oculari, che tormentarono Joyce per il resto della vita ed in seguito ai quali subì ben undici interventi chirurgici.
Al primo attacco di irite all’occhio sinistro, accusato nel 1907 mentre era in cura per febbre reumatica e sepsi dentale, ne seguiranno altri nel 1908, nel 1909 e nel 1917. Quest’ultimo fu complicato da sinechie e glaucoma e seguito dalla prima iridectomia. In una lettera all’amica e mecenate Miss Weaver scrive:
“Sono ancora in cura e piuttosto depresso perché il male all’occhio – forse per via del tempo infame – dura tanto. Nessun attacco precedente è durato così a lungo. Non ho dolori, ma le conseguenze questa volta sembrano piuttosto gravi. Spero sempre però che si possa evitare un’operazione. Sono in grado comunque di leggere e scrivere e continuo il mio libro al consueto passo di lumaca”.
A partire dall’anno seguente cominciarono ad essere coinvolti entrambi gli occhi, curati con gocce miotiche ed impacchi freddi. Un nuovo, fortissimo attacco si ebbe nel 1922; la sua editrice, Sylvia Beach, lo condusse dal proprio oftalmologo, Louis Borsch. Costui convinse Joyce che i precedenti interventi erano stati un errore, rimandando qualsiasi atto chirurgico a quando l’irite sarebbe scomparsa. Ma la sfinterectomia effettuata nel 1923 (dopo il nono attacco di irite) e l’iridectomia del 1924 non produssero alcun miglioramento. L’anno successivo fu rimossa la cataratta dall’occhio sinistro, con persistenza di membrane secondarie. Seguirono quattro capsulotomie sinistre con perdita del vitreo ed emorragie. Anche a destra, dopo i reiterati attacchi di irite, si era sviluppata cataratta.
Alla morte di Borsch, Joyce finì in cura dal Professor Alfred Vogt, il più quotato chirurgo oftalmico europeo dell’epoca. Si presentò a costui quasi cieco, reduce da otto interventi sull’occhio sinistro. Nel 1930 Vogt lo sottopose a discissione orizzontale di cataratta terziaria dell’occhio sinistro. Per i due anni successivi Joyce, assillato da nuovi gravissimi problemi familiari (la figlia manifestava i primi palesi sintomi della schizofrenia), non si presentò alle visite di controllo consigliate e sollecitate da Vogt. Solo una nuova diminuzione dell’acuità visiva lo condusse a rivolgersi nuovamente a lui. L’occhio destro presentava ormai cataratta totale con glaucoma secondario e parziale atrofia di retina e nervo ottico.
La scrupolosità di Vogt nei sistematici richiami e controlli trimestrali successivi, unita alla decisione di non intervenire più sull’occhio sinistro portò presto Joyce a recriminare sulla propria superficialità e rimpiangere di non averlo incontrato prima.
Nonostante i momenti di comprensibile sconforto, nei periodi in cui la malattia gli procurava la cecità, la sua volontà creativa aumentava, arricchendo la densità della scrittura. Continuò infatti imperterrito la sua attività di scrittore, portando avanti la grande opera Finnegans Wake, meta finale della sua rivoluzione linguistica e letteraria nel romanzo del ventesimo secolo.
Durante tutta l’età adulta Joyce soffrì di ricorrenti dolori addominali, dovuti certamente ad ulcera peptica, ma attribuiti dai medici ai “nervi”. I sintomi furono trascurati per almeno sette anni, avendo Joyce accettato la matrice psicosomatica dei suoi dolori, suggerita da medici e conoscenti. Il dolore era spesso associato al digiuno (protratto a volte fino a quarantadue ore), a preoccupazioni finanziarie, al tormento per la sorte della figlia ed all’abuso di alcool.
Nel 1933 a Parigi consultò la dottoressa Bertrand-Fontaine, la quale stabilì, dopo aver esaminato gli esami radiografici, che lo stomaco non presentava ulcere. Al momento di abbandonare Parigi, nel settembre 1939, i dolori addominali si ripresentarono, ma Joyce disattese l’indicazione del medico che lo invitava ad effettuare nuove radiografie nel timore potesse trattarsi di una neoplasia.
Poche settimane dopo l’arrivo a Zurigo, il 9 gennaio 1941, al ritorno a casa dopo cena avvertì improvvisamente dolori addominali fortissimi. Un medico del posto gli somministrò, poco giudiziosamente, della morfina per consentirgli di riposare. Il giorno dopo lo stesso medico, non avendo riscontrato miglioramenti, richiese una consulenza chirurgica. Nonostante i segni clinici fossero ancora camuffati dall’effetto dei narcotici, il dottor Freyz fece ricoverare Joyce d’urgenza. Seguì un rapido peggioramento del paziente, che allora presentava chiari segni di peritonite.
All’intervento chirurgico fu subito evidente un’ulcera duodenale perforata del diametro di 3 mm, posta anteriormente, che fu prontamente suturata e ricoperta con un patch omentale. Un’emorragia massiva con relativo shock si manifestò il pomeriggio seguente. Le trasfusioni non modificarono il quadro e Joyce entrò in coma, per morire durante la notte seguente, il 13 gennaio 1941, all’età di 58 anni.
L’esame autoptico confermò la peritonite, dimostrando che la sutura chirurgica era ancora intatta. In più furono notate due ulcere superficiali del duodeno ed una gran quantità di sangue coagulato nel tratto gastroenterico. La causa di morte fu quindi identificata con la peritonite da ulcera duodenale perforata, complicata da due ulcere duodenali posteriori con emorragia massiva e polmonite ipostatica.
Resta infine totalmente da dimostrare che Joyce fosse affetto da neurosifilide. Non c’è dubbio che Joyce possa aver contratto malattie veneree nei bordelli di Dublino e Parigi, ma non esistono evidenze tali da suffragare l’ipotesi che sia stato affetto dalla lue. Gli attacchi ricorrenti di uretrite in giovane età nonché la presenza di dolori reumatici ed atteggiamenti posturali tipici inducono alcuni studiosi a ritenere che Joyce possa esser stato affetto da un’artropatia sieronegativa, quale la spondilite anchilosante o la sindrome di Reiter, quest’ultima caratterizzata dall’associazione di artrite, congiuntivite ed uretrite. Se l’assenza di radiogrammi che documentino lo stato in vita delle articolazioni sacroiliache non consente di confermare l’ipotesi della spondilite anchilosante, l’eventualità di un’infezione luetica è resa poco credibile da vari elementi, il più importante dei quali è l’assenza di plasmacellule descritta all’esame istologico delle lesioni aortiche riscontrate durante l’autopsia. Tali elementi, invariabilmente confinati alla valutazione storico-biografica del personaggio, avvalorano la tesi dell’artropatia sieronegativa, ma non consentono di escludere la diagnosi di lue. Solo un accurato studio paleopatologico dei suoi resti mortali, condotto con le moderne metodologie radiologiche e biomolecolari, sarebbe in grado di fornire risultati definitivi, gettando nuova luce sul principale mistero della vita di James Joyce.
Conclusioni
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati per curare le malattie del nostro illustre paziente va imputato a tre fattori fondamentali.
Il fallimento dei presidi terapeutici adottati per curare le malattie del nostro illustre paziente va imputato a tre fattori fondamentali.
- La complessità della sua condizione clinica che comprendeva, oltre ai problemi gastrici ed oculari, febbre reumatica, carie dentale, sciatica, artrite e malattie veneree.
- La scarsa “compliance” del paziente, incostante non solo nelle abitudini, ma persino nel farsi curare: fu visitato da ben trentacinque medici, dei quali però difficilmente seguiva i consigli.
- I mezzi ancora assai limitati che la medicina del suo tempo aveva a disposizione. La non disponibilità di steroidi e di strumentazioni chirurgiche valide contribuì enormemente a peggiorare i suoi problemi, specialmente quelli visivi.
I numerosi studi nosografici finora effettuati sul personaggio non sono riusciti a stabilire con certezza la principale condizione patologica che colpì James Joyce. Solo la riesumazione delle sue spoglie mortali ed un loro dettagliato studio paleopatologico consentirebbero di dirimere ogni dubbio sull’eventualità che Joyce sia stato affetto dalla sifilide.
Bibliografia
Andreasen N J C. James Joyce. A portrait of the artist as a schizoid. JAMA 1973; 224: 67-71.
Baron JH. Illnesses and creativity: Byron’s appetites, James Joyce’s gut, and Melba’s meals and mésalliances. BMJ 1997; 315: 1697-1703.
Carloni C. “Dear Stannie”, James Joyce e Stanislaus Joyce: 1903-1922. Tesi di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, Libera Università Maria SS. Assunta, Roma, A. A. 1996-1997.
Carter R. James Joyce (1882-1941): medical history, final illness, and death. World J Surg 1996; 20: 720-724.
Ferris K. James Joyce and the burden of disease. University Press of Kentucky, Lexington, 1995.
James Joyce, Lettere. Mondadori, Milano, 1974; p. 80.
James Joyce, Lettere. Mondadori, Milano, 1974; pp. 299-300.
Lyons JB. James Joyce and medicine. JAMA 1973; 225: 313-314.
Lyons JB. James Joyce: steps towards a diagnosis. J Hist Neurosci 2000; 9: 294-306.
Quin JD. James Joyce: seronegative arthropathy or syphilis? J Hist Med Allied Sci 1991; 46: 86-88.
Sullivan E. Ocular history of James Joyce. Surv Ophthalmol 1984; 28: 412-415.
Ventura L, Carloni C, Iacomino E, Lupi E, Romani F. Odissea clinica di un genio. Studio nosografico di James A. Joyce (1882-1941). Oftalmologia Sociale 2007; in corso di stampa.
Baron JH. Illnesses and creativity: Byron’s appetites, James Joyce’s gut, and Melba’s meals and mésalliances. BMJ 1997; 315: 1697-1703.
Carloni C. “Dear Stannie”, James Joyce e Stanislaus Joyce: 1903-1922. Tesi di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, Libera Università Maria SS. Assunta, Roma, A. A. 1996-1997.
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James Joyce, Lettere. Mondadori, Milano, 1974; pp. 299-300.
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Quin JD. James Joyce: seronegative arthropathy or syphilis? J Hist Med Allied Sci 1991; 46: 86-88.
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Ventura L, Carloni C, Iacomino E, Lupi E, Romani F. Odissea clinica di un genio. Studio nosografico di James A. Joyce (1882-1941). Oftalmologia Sociale 2007; in corso di stampa.
Didascalie
Fig. 1 – Joyce convalescente dopo uno degli interventi all’occhio sinistro.
Fig. 2 – Joyce ritratto da Jacques-Emile Blanche nel 1935.
Fig. 1 – Joyce convalescente dopo uno degli interventi all’occhio sinistro.
Fig. 2 – Joyce ritratto da Jacques-Emile Blanche nel 1935.
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