domenica 7 aprile 2019

Cesare Pavese / I ritorni impossibili La nuova collana in edicola


Cesare Pavese, i ritorni impossibili
La nuova collana in edicola

Esce il 19 marzo con il quotidiano il primo volume della biblioteca dedicata allo scrittore, per il quale realtà e romanzi diventano segnali di una ricerca senza fine

di Chiara Fenoglio
18 marzo 2019 (modifica il 19 marzo 2019 | 21:20)

A rileggere Il mestiere di vivere, il diario che Cesare Pavese tenne dall’ottobre del 1935 all’agosto del ’50, la sensazione predominante che se ne trae è quella di una parabola tesa verso il compimento di un destino ineluttabile: confessione senza speranza di riconciliazione, riscrittura del Secretum petrarchesco privato di fede, Il mestiere è la religione di Pavese, ma una religione sprovvista delle virtù teologali. Di qui il senso di una tragicità che affonda le sue radici nel mito greco e che si declina nelle forme di una società tradizionale e contadina devastata. Paesi tuoi uscì nel ’42, lo stesso anno delle Poesie a Casarsa ed è il romanzo che più compiutamente e luttuosamente descrive questo mondo, ma nella langa di Pavese, a differenza del Friuli pasoliniano, l’origine mitica è già corrotta, portatrice di quei germi di dolore e morte che saranno amplificati dalla modernità: la parola del mito, con la sua forza esoterica e terribile, svela una realtà che conduce ineluttabilmente al nulla.





Per questo la tensione neorealistica — con cui Pavese fu inizialmente confuso — è molto lontana dalla formazione di questo intellettuale cultore di Euripide ed Esiodo, lettore attento di testi mitografici, etno-antropologici e psicologici (da James Frazer a Károly Kerényi, da Lucien Lévy-Bruhl a Carl Gustav Jung), e scopritore della letteratura d’oltreoceano negli stessi anni in cui Elio Vittorini pubblicava l’importantissima antologia Americana. Il vero destino di Pavese fu in effetti la ricerca inesausta di una consuetudine coi classici come se fossero contemporanei, e con i contemporanei come se fossero classici.

Fu proprio attraverso il linguaggio del mito e della narrativa americana che Pavese si liberò dalla retorica fascista che negli anni Trenta aveva pesantemente plasmato la cultura, la mentalità e i costumi degli italiani: Pavese fu tra i primi nostri scrittori a tentare attraverso la letteratura la fuga dalla prigione in cui era stato allevato. Come Piero Gobetti, egli svelò la «mitica forza» delle parole che se contaminate dai toni roboanti del potere portano al pervertimento del mondo: occorreva compiere un giro più ampio, passare attraverso parole nuove (quelle di John Milton per Beppe Fenoglio, quelle di Herman Melville o William Faulkner per Pavese) per poter tornare a parlare di quelle campagne di cui l’Uomo della Provvidenza si era impossessato per mezzo delle «battaglie del grano». Certamente — lo dichiara l’orfano Anguilla, alter ego dell’autore, nel primo capitolo de La luna e i falò — «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», e paese significa «non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

Eppure per trovare il proprio destino nelle case, nei campi, nei falò, Anguilla quel paese ha dovuto lasciarlo, girare il mondo, vivere a lungo in America: ritornare significa tuffarsi nel passato, recuperare le origini mitico-simboliche delle cose, ritrovare non la realtà dei luoghi e delle persone lasciate (che non esistono più) ma svelare ciò che di arcaico e immutabile essi conservano.

Per questa ragione in Pavese la terra assume sempre le caratteristiche del corpo materno: le colline langarole simili a enormi mammelle che scandalizzarono i primi lettori non sono altro che le membra di Gea; nel mondo rurale, estraneo ai movimenti della storia, si sedimentano le tracce di un passato sempre uguale a sé stesso, dove sangue, morte, tragedia sono altresì gli elementi propiziatori di un rito di fertilità e rinascita già iscritto nel titolo dell’ultimo romanzo, pubblicato appena quattro mesi prima della morte, nell’agosto del 1950.



Ma Pavese fu anche il cofondatore della casa editrice Einaudi, l’intellettuale impegnato che non si riconosce in nessun movimento politico: mandato al confino in Calabria dal regime fascista, nel dopoguerra prese la tessera del Pci, rimanendo tuttavia sostanzialmente estraneo al «dovere di trovarsi dove la storia cammina», come scrisse in un articolo pubblicato su «L’Unità» nel 1946. Per Pavese il comunismo fu la fede in una promessa di libertà, la speranza di innestare e realizzare la propria vita interiore sul piano collettivo: una speranza tuttavia mai realmente perseguita, di cui restano tracce ne La casa in collina (1948).

Egli stesso parlava della sua opera, iniziata «quando il castello della chiusa civiltà letteraria italiana resisteva imperterrito ai venti gagliardi del mondo», come volta a «fondere in unità […] sguardo aperto alla realtà immediata, quotidiana, “rugosa”, e riserbo professionale, artigiano, umanistico» (La letteratura americana e altri saggi). Il suo stile scarno e disadorno era teso a prendere le distanze sia dalla prosa al «grado zero» della discorsività, sia da quella al «grado massimo» del libresco, del prezioso o dell’espressionistico. Una educazione letteraria severa lo spingeva a cercare il sublime nell’umile, il solenne nel prosastico, a far convergere i piani della memoria, della storia e del mito. Ma per questo nuovo Ulisse, il destino fu sempre un impossibile ritorno: «Mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più» (La casa in collina).

La sua tensione verso una forma semplice e insieme assoluta coincide con la sua ricerca ossessiva di una maturità in fuga perenne: Ripeness is all — la maturità è tutto — recita la famosa epigrafe a La luna e i falò.

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