Le tante parole
sul velo islamico
La Corte di Giustizia di Lussemburgo ha deciso che un’azienda privata può imporre ai dipendenti in contatto col pubblico di evitare simboli religiosi, politici o filosofici. Tra questi, il velo islamico. Ma la decisione apre più problemi di quanti ne risolva
di Beppe Severgnini
15 marzo 2017 (modifica il 16 marzo 2017 | 17:20)
Ringraziamo la Corte di Giustizia di Lussemburgo. Ci ha fornito l’occasione per una di quelle discussioni che, in Italia, piacciono tanto: confusa, cattiva e sostanzialmente inutile. Cos’ hanno deciso, i giudici europei? Che un’azienda privata può imporre ai dipendenti in contatto col pubblico di evitare simboli religiosi, politici o filosofici. Tra questi, il velo islamico.
Primo punto: quale? Di «veli islamici» ne esistono tre: il burqa, che copre interamente il corpo e il volto di una donna; il niqab, che le lascia liberi gli occhi; e il hijab, che le lascia scoperto il volto. È il velo che incontriamo spesso, ormai; senza sentirci turbati. Un foulard, in sostanza. Le monache, le donne sarde e le dive del cinema anni ’60 l’hanno indossato a lungo, senza destare scandalo.
In verità la sentenza — destinata a diventare un precedente di riferimento in tutta l’Unione europea — apre più problemi di quanti ne risolva. Un’azienda privata, a questo punto, potrebbe impedire al dipendente di esibire un ciondolo a forma di crocefisso, un copricapo ebraico, un simbolo buddista. I giudici, infatti, sono stati chiari: la norma non deve essere discriminatoria. Deve riguardare tutti i simboli di tutte le religioni (filosofie, dottrine politiche). È facile immaginare che il concetto verrà esteso alle aziende pubbliche e alle istituzioni. E allora — scommettiamo? — qualcuno proporrà di eliminare il Buon Natale! e il suono delle campane di Pasqua. Simboli religiosi, no? Scivoleremmo così in una grottesca, isterica neutralità. Quella ha spinto molti americani, nauseati, a rifugiarsi nello scorrettissimo Donald Trump. La soluzione, invece, c’è. Sta nel luogo dove s’incrociano tolleranza, buon senso e tradizione.
Campane, presepi e crocefissi fanno parte della nostra storia comune europea; così la kippah, che abbiamo vergognosamente costretto a nascondere; così lo hijab, visto che la nostra società è cambiata e cambierà. Niente burqa e niente niqab, invece, neppure se una donna li scegliesse in libertà (cosa che raramente avviene); creano disagio e pongono problemi di sicurezza. Troppo semplice? No. Troppo complicata l’alternativa: credetemi.
CORRIERE DELLA SERA
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