Questa pièce teatrale è stata scritta da Franco Romanò, scrittore e critico letterario e poeta. L’opera si occupa del legame tra l’uomo Picasso e la sua pittura, e ripercorre alcuni momenti cruciali della sua biografia, a cominciare dalla nascita fino ad esplorare l’ossessiva presenza della morte che accompagna tutta la sua esistenza. Mette in luce il rapporto violento, sofferto e distorto che il pittore ha con le forme e con i corpi femminili, capace di creare con la stessa forza con cui distrugge. L'autoritratto dipinto tre giorni prima della morte diviene nel testo teatrale la drammatica sintesi della sua vita e della sua arte. (Patrizia Boi)
Il Minotauro e la scimmia
Buio, un uomo è rinchiuso dentro una gabbia: il pubblico vede solo le sue mani e le sue braccia che escono dalla gabbia, tutto il resto del suo corpo non lo si vede quasi, la gabbia non è proprio del tutto schermata ma impedisce comunque di vederne il volto. Davanti alla gabbia c'è un tavolo. La scena si illumina: siamo nell'atelier di un pittore. L'uomo maneggia i colori, sposta cornici che sono sul tavolo. Sul muro di fronte alla gabbia, ci sono dei quadri ricoperti da un telo, altri sono distesi sul tavolo. In sala, visibile dal pubblico, c'è una giovane donna che svolge le funzioni di aiutante. Mentre continua a lavorare al banco l'uomo in gabbia comincia a parlare.
Dal labirinto non si esce… Ho sezionato e scomposto ogni tipo di oggetto per cercarne la forma e ho trovato l'infinità delle forme, la loro natura mutante. Il brutto, mi aggrediva da ogni lato, il grigio, la ripetizione: era questa la pittura quando nacqui, una grigia rappresentazione di volti e paesaggi inanimati... Mio padre lo rifiutai subito, non potevo mettere il nome di un altro pittore sui miei quadri e poi fu Maria Picasso y Lopez, di lontane origini liguri, a mettermi la matita nelle mani. Poi venne lo studio, la monotonia, il vuoto… lo stampo, il calco su cui ci facevano passare ore e ore in accademia… la sezione aurea, le proporzioni. Imparai quasi annoiandomi, ripetevo tutto quello che mi mettevano davanti, facevo copie di ogni cosa... poi mi stancai anche di quello.
Smette di parlare e si morde nervosamente le unghie. Da questo momento i suoi gesti si ripetono con monotonia: quando tace si morde le unghie, mentre quando parla si torce le mani.
Fossi stato un compositore... la materia avrei potuto soltanto immaginarla e invece... invece no, la materia ti perseguita sempre, il quadro, anche quando è finito continua a guardarti, è uno specchio che ti insegue anche nel sonno. Per questo non ne potevo più dell'accademia. Casa c'è dietro quello che vedi... questo cominciai a domandarmi: ero giovane allora, lo sguardo perso nel vuoto, come quello di un ragazzo qualunque... mi vedevo così almeno.
Smette di parlare, mentre la giovane donna scopre il suo autoritratto da ragazzo poco più che adolescente; poi ne scopre subito un secondo. La riproduzione di una qualsiasi fra le opere del cubismo analitico, purché ci sia la chitarra.
Cominciai a esplorare le forme, lo vedete qui (l'uomo in gabbia tende le mani nella direzione dei quadri appena scoperti.) Non mi bastava l'oggetto che mi veniva incontro, mentre io lo guardavo lui era anche il suo lato nascosto, la sua anima interiore. La musica che esce da una chitarra, per esempio, dove si trova quando lo strumento è gettato lì su un tavolo come se fosse una natura morta. No, deve esserci la musica anche dentro la chitarra e non solo nelle dita di chi suona e allora, ecco... iniziai a scomporle le forme; poi le rimontai di nuovo, secondo la mia voglia, come un dio demente che si diverte a ricostruire il mondo a proprio piacimento e lo fa ogni volta diverso. Ricavai dall'informe quanti più oggetti possibili, non mi stancavo mai… mi svuotavo in essi per continuare a esistere come artista, così come mi svuotavo dentro i corpi femminili per ritornare a esistere come uomo…
La giovane donna: Sono Ol’ga Chochlova, lo sposai nel 18. Pensate che era talmente succube di sua madre che mi dipinse con la mantilla per farle credere che fossi una ragazza spagnola: ma io sono russa.
Picasso: Pensavo di dipingere ciò che avevo scoperto e invece usciva dalla mia mano lo sgomento per quello che mi mancava. Avevo distrutto un ordine, ma era come perdermi in un labirinto… Non vi erano limiti e non capivo allora, dico da giovane, quando l'entusiasmo e anche un po' d'incoscienza mi spingeva incontro alle cose con la baldanza di un hidalgo...
Tace di nuovo, si torce le mani, scuote la testa poi riprende a voce più bassa, cavernosa.
E poi la morte... Io la incontrai subito la morte, prima ancora di nascere! Fui un caso clinico per la medicina. Sì, uscii dal corpo di mia madre, come tutti, ma in silenzio, amorfo... urlai dopo tre minuti, così mi raccontò Maria; nessun medico seppe spiegarla la mia nascita, nessuna medicina, nessun dio. Quello fu il mio primo incontro con lei, la morte. Me la scordavo soltanto quando mi illudevo di aver trovato una forma nuova, ma era solo un istante di pace perché subito me la ritrovavo davanti… poi, Conquita... replicò in peggio la mia stessa nascita. Conquita, Conchita, sorellina mia... Si ammalò di una febbre maligna e io pregai per lei quello che un artista non dovrebbe mai pregare: fammi, o dio, rinunciare alla mia arte pur di salvarla… ma non bastò. Lei morì fra un ritratto e l'altro che le avevo dipinto per farla felice e allora io la odiai perché mi sentii tradito, odiai chi l'aveva generata, odiai quei ventri femminili da cui esce soltanto una sanguinante illusione di vita; odiai dio e scelsi il demone che era in me e aveva invocato con la stessa forza con cui avevo pregato perché lei vivesse, che lei invece morisse, perché solo così avrei salvato la mia arte. Da quel momento non ebbi che uno scopo: riempire la morte di oggetti per impedirle di muoversi... dovevo dare una forma anche a lei, la morte e allora mi gettavo su tutto ciò che trovavo con furia. Dove sei dentro questo corpo, dove sei, la cercavo ovunque.
Mentre continua a parlare la donna s'avvicina di nuovo alla parete.
Per fortuna mi rivolsi alle cose, i gatti me ne saranno stati grati: smisi di ucciderli come facevo invece da ragazzo… Mi infilai nel labirinto e andai fino al suo fondo e lì trovai uno specchio e in esso vidi riflesso il Minotauro, la bestia assoluta, assoluta perché ci assomiglia, è un po' umano no, il Minotauro? Se ne sta infondo, là nell'angolo più buio perché nessuno vuole sapere di averlo il Minotauro nascosto da qualche parte!
La donna copre il Minotauro.
Anch'io come lui (accenna al quadro) mi muovevo dentro una prigione che aveva due porte: da una entrava la morte, dall'altra il vuoto. Mi sovrastavano entrambe e piegavano le mie mani inchiodandole al foglio e allora inventai le forme che sfuggono dai quadri, ma loro erano sempre lì a torcere la mia mano, i miei polsi, da cui ne uscivano forme in continuazione, come il fuoco dalla bocca di un drago…
Alza la testa puntando gli occhi nel vuoto, ma il pubblico deve cogliere solo il movimento del capo che si eleva.
Ho profanato tutto, non riuscivo a fermarmi, inghiottivo gli oggetti uno dopo l'altro ma non mi accontentavo di loro soltanto; dalle forme mi precipitavo sui colori... il periodo blu, quello rosa e gli altri.
La giovane donna scopre rapidamente altri quadri.
E poi questo corpo dannato! Se la mia anima voleva nuovi oggetti da scomporre e rifare, la mia carne voleva corpi da modellare come fossero di creta… Per questo scolpivo e consumavo i corpi femminili, ma cercavo l'anima soltanto nelle forme.
La giovane donna: Amò anche me, Dora Maar, fotografa. Gli piacevo, ma non mi illusi mai di sposarlo.
Picasso: La femmina senza volto era la mia ossessione di carne, la forma assoluta la mia ossessione d'anima. Si fossero parlate almeno una volta quelle due demonie! E invece litigavano come una coppia di amanti folli e gelosi, poi come due vecchi bavosi incapaci di accettare la fine dei loro entusiasmi… Non ne amai nessuna, nessuna! Provai soltanto una pace momentanea nel divorare Fernande, giorno dopo giorno, tenendola prigioniera nel mio studio; e vidi soltanto un breve balenio d'assoluto quando incontrai Françoise; ma in realtà la sola donna che recitai d'amare sinceramente fu… George: ah ah ah, oh, ohh ahh… eh...
La giovane donna: Fui la sua modella, Fernando Olivier, poi divenni la sua amante. Sono settanta i ritratti che dipinse per me, amava quelli non me.
Scopre un altro quadro: è un dipinto del periodo cubista fatto a quattro mani con Bracque, poi riprende a parlare:
Io, Françoise Gilot, fui la sola a lasciarlo... un uomo insopportabile...
Picasso: Io e Bracque ci siamo detti e scritti cose che per nessun altro avrei potuto pronunciare. Ecco, avevamo trovato insieme il modo di rimettere ordine, la ricerca di una nuova armonia: fu questo il cubismo sintetico, ricostruire. Sì, lo ammetto, fu il momento più sereno della mia vita, ma poi George continuò da solo, io non potevo ricostruire per un lungo periodo, l'ordine lascia troppo vuoto fra sé e la morte... La sintesi si chiude, si ritira non si espone... George finì per chiudersi nel suo mondo ordinato. Io invece volevo che tutto fosse esposto, un quadro lo è sempre e allora perché i miei nudi dovevano ossessionarmi, mentre io, il loro autore, avrei dovuto accogliere ben vestito quelli che mi venivano a guardare come se fossi un animale da baraccone? Volete mangiarmi?... Chi dipinge è sempre esposto come le sue opere, non abbiamo più un eremo in cui rifugiarci, siamo davanti a un altare al centro di una piazza... Lasciavo spalancata la porta del mio studio, non avevo alcun ritegno nel mostrami nudo al mondo. Non volevo stupire, ma fare dell'immagine tutto. Anche il mio corpo doveva dissolversi e diventare quadro, almeno agli occhi del pubblico.
La giovane donna prende una tela che si trova sul tavolo, la scopre con movimenti lenti, poi, sempre di spalle al pubblico, l'alza con i gesti lenti di un sacerdote che eleva il calice e lo mostra al pubblico: è un ritratto di Picasso nudo mentre sta lavorando nel suo studio. Dietro di lui l'uomo in gabbia s'inginocchia davanti al bancone come un sacerdote all'altare. La giovane donna deposita il quadro poi si rivolge al pubblico, il suo tono do voce è rancoroso:
Io, Marie-Thérèse Walter, fui la sola a restargli veramente vicino, gli diedi una figlia, facevo tutto quello che lui desiderava... non volle mai sposarmi... mi uccisi dopo la sua morte.
Picasso: Ora capisco che l'immagine non può che diventare pornografia. La cornice ha vinto sul quadro, il contenitore di cornici ha vinto sulla cornice, l'arbitrio della moda ha sconfitto i collezionisti… Volevamo uscire dai musei perché erano vetusti e ammuffiti e siamo finiti nella cloaca del mondo, come zimbelli che tutti si disputano; in realtà ci odiano... Forse il nostro mondo era diventato troppo complesso, ci spaventava trovarci in quel caos, forse volevamo cose semplici come quelle maschere africane che mi hanno tormentato per tutta la vita… così essenziali, scarne, dalle forme elementari, ma questo coraggio ci mancò.
Mentre dice questo, alcune maschere africane vengono fatte calare dall'altro del palco e vengono tenute sospese e oscillanti sopra il tavolo da lavoro con un movimento di fili.
La sovrabbondanza è diventata eccesso, tutto diventa eccesso, e che altro feci io stesso, se non questo? Distruggevo e rifacevo a mio arbitrio corpi ed oggetti. Da ogni forma ne ricavavo altre, facendo leva su una piccola causa ne moltiplicavo gli effetti: sì ero riuscito a riempire il vuoto, ma io chi ero?
Alla fine della battuta apre violentemente la gabbia e si mostra al pubblico indossando una maschera che riproduce il suo ultimo autoritratto, dipinto tre giorni prima di morire: un teschio di scimmia, ma con i suoi occhi.
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