Janis Joplin |
Janis Joplin
RAGAZZA DI PROVINCIA
Janis, Amy J. Berg
19 novembre 2015
JANIS
di Amy J. Berg
di Amy J. Berg
Era apparsa quasi improvvisamente nel nostro mondo di appassionati in continua “agitazione conoscitiva e gustativa” – panorama cultural-musicale diviso e miscelato fra rock, blues, soul e altro, nei loro diversi colori e sfumatura -, con un album già singolare e intrigante nella copertina dal taglio fumettistico (il grande Robert Crumb): Cheap Thrills. Avrebbe anche potuto finire sommersa dalla valanga di talenti e loro vinili sfornati senza tregua in quegli anni, che sembrava non aver fine e confini, col rischio di soffocare sul nascere promesse in erba (beh, anche “quella roba” faceva parte dello show), e ha comunque pagato salato. Tanto più che la Joplin, oltre ad essere una “ragazza di provincia” (chissà se è un termine giusto, riferito alla cittadina di Port Arthur, Texas), calata in un clima prevalentemente maschile e maschilista – a casa era un “brutto anatroccolo”, sbeffeggiata dai coetanei -, era “solo” cantante, quando in maggioranza i leader erano pure strumentisti, prevalentemente chitarristi. Si alza in volo dopo il suo arrivo a San Francisco, città dal clima artistico di ben altri orizzonti, anche “psichedelici”.
Janis è scritto e diretto da Amy J. Berg (ci ha lavorato per diversi anni), ed è strutturato con l’alternanza di riprese, fra esibizioni live, interviste – soprattutto alla sorella e al fratello, ad alcuni dei musicisti della sua band, nonché a produttori e diversi altri interpreti, tra cui Country Joe McDonald -, spesso amare, a volte scintillanti, dissacratorie, ma pure tenere, gioiose e umoristiche, come nello scambio di battute con Jerry Garcia e altri Dead.
Rock e musica nera dicevamo. Buona parte del suo repertorio più famoso – Ball and Chain, Piece of My Heart, Cry Baby, Try, Maybe, Tell Mama, Get It While You Can e altro -, è segnata dallo stretto legame con gli interpreti blues, soul e altro. E certamente la sua “appartenenza stilistica”, la voce e il coinvolgimento psico-fisico, ne sono pregni e semmai venisse qualche dubbio, bastano le sue dichiarazioni-citazioni: “…Bessie Smith, Billie Holiday, Otis Redding (il quale appare in un frammento di Monterey, e lei in un’intervista: «Otis? My man!…»), sono alcuni degli interpreti per i quali esprime grande stima. E ancora: il suo urlo, “disperato, implorante, anche gioioso”, ha quelle radici espressive. Ma in definitiva ciò che importa, come sempre, non è l’etichettatura stilistica, bensì la sua forza comunicativa, il suo donarsi tutta a chi ascolta.
Un docu-film, con diverse immagini inedite, anche da piccola e ragazzina, presentato al festival di Venezia, che pur non potendo seguirla in ogni concerto al di là di quelli classici – ci sono spezzoni presi dallo storico (!) “International Pop Festival” di Monterey (’67), in cui si rivelò a un vasto pubblico, e naturalmente dal più imponente “Woodstock” -, trasmette l’essenza e l’urgenza interpretative in varie, significative occasioni, intercalate dalle sue lettere (la cui lettura è affidata a Cat Power), e dalle sue tormentate relazioni sentimentali. Quando il filmato sta per volgere al termine arriva anche la magnifica Me and Bobby McGee – pubblicata dopo la tragica morte per overdose in un hotel di Hollywood il 4 ottobre 1970, ventisettenne -, e Kris Kristofferson ne loda affettuosamente la versione. Scorrono i titoli di coda accompagnati da qualche clip, compreso un breve intervento, rivolto al ricordo di lei, di John Lennon e Yoko Ono. JJ forever!
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