giovedì 17 marzo 2022

Hanya Yanagihara, la scrittrice che non ama New York ma non riesce a starci lontana

 


Hanya Yanagihara nell'illustrazione di Pia Taccone


Hanya Yanagihara, la scrittrice che non ama New York ma non riesce a starci lontana

L’autrice hawaiana che ha sconvolto il mondo con “A Little Life” trasformando una storia di abusi in un bestseller internazionale

Gotham's Writersdi Michele Crescenzo
29 Nov 2021

New York, oggi. Hanya Yanagihara chiude la porta alle sue spalle. Sospira. Finalmente a casa. Finalmente al sicuro da quell’incubo di nome New York. Si toglie l’impermeabile, le scarpe e cammina scalza nel suo grande appartamento a Manhattan. Si muove lenta sui pavimenti neri e lucidi. Supera il busto in gesso di Ho Chi Minh da Saigon, la mucca d’argento di Mumbai, una vecchia campana di ottone del Bhutan, una testa di ferro proveniente dall’isola indonesiana di Flores, il cervo in bronzo giapponese dell’era Showa e si ferma davanti alla sua libreria bifacciale che contiene più di dodicimila titoli. Ogni libro è ordinato alfabeticamente per autore. “Chiunque disponga i propri romanzi per colore non si preoccupa veramente di cosa c’è dentro”, racconta al The Guardian. L’autrice non si circonda solo di libri e souvenir da viaggi ma anche di fotografie e dipinti che coprono quasi ogni centimetro di parete e persino il pavimento. “Chiunque acquisti opere d’arte per abbinarle al proprio divano non sta effettivamente guardando l’arte; è irrispettoso. L’arte viene prima di tutto e, se ci tieni, è tuo compito adattarla” afferma l’autrice nella stessa intervista.

Hanya Yanagihara allunga la mano nella libreria e afferra il suo romanzo d’esordio The People in the Trees (Il popolo degli alberi Feltrinelli, traduzione di Francesco Pacifico)  che è stato acclamato come uno dei migliori romanzi del 2013 (anche se in Italia è stato pubblicato solo nel 2020). L’ha scritto mentre lavorava come giornalista pubblicista per diverse agenzie newyorkesi e – dal 2007 – per la rivista di viaggi Condé Nast Traveler.

Il romanzo è ispirato alla figura controversa di Carleton Gajdusek che aveva vinto il Premio Nobel nel 1976 per il suo lavoro sulla malattia di kuru. Una persona colta, con una mente ampia ed eclettica, ma per quanto rinomato fosse per i suoi successi professionali, lo era altrettanto per aver adottato decine di bambini della Papua Nuova Guinea. Negli anni Novanta, Gajdusek è stato oggetto di un’indagine dell’FBI ed è stato accusato di aver molestato alcuni dei suoi figli. Fu mandato in prigione e, dopo il suo rilascio, visse il resto dei suoi anni nel nord Europa. “La storia di Gajdusek mi ha affascinato” – ha raccontato a Vogue  “Era una mente indiscutibilmente brillante che faceva anche cose terribili. Se chiamiamo qualcuno un genio, e poi diventa un mostro, è ancora un genio? Come valutiamo la grandezza di qualcuno?”

The People in the Trees è ambientato negli anni 50, dove il dott. Perina si unisce a una spedizione antropologica diretta all’immaginario stato insulare della Micronesia U’ivu. Lì incontra una tribù perduta di “sognatori” – individui eccezionalmente longevi. Più tardi, scopre che il segreto della longevità dei sognatori è la carne di una tartaruga chiamata opa’ivu’eke, che viene ingerita al 60° compleanno di un U’ivuan. Perina riporta di nascosto un campione di tartaruga in America, pubblica le sue scoperte e raggiunge una fama immediata.

Hanya Yanagihara di Sam Levy (wikipedia.org)

Nella seconda parte si raccontano gli effetti collaterali della scoperta e la distruzione dell’isola Edenica. Il lettore assiste ad una vera e propria violenza dello stato immaginario della Micronesia U’ivu sia culturalmente che ecologicamente.

“Una delle cose che volevo fare con questo romanzo era scrivere una storia delle Hawaii, da dove vengo, e degli effetti della colonizzazione lì.” – racconta l’autrice a

Vogue “Non voglio dire che tutta l’occidentalizzazione è sempre cattiva. Ma penso che ci siano modelli delle conseguenze della colonizzazione che vedi echeggiare nelle culture e nelle comunità di tutto il mondo. Quello che accade su Ivu’ivu nel mio romanzo è una versione molto più grottesca ed estrema di ciò che alcuni potrebbero dire sia accaduto alle Hawaii.”

Hanya Yanagihara afferra il secondo romanzo “A Little Life” (Una vita come tante, Sellerio Editore, traduzione di Luca Briasco) che nonostante le difficili tematiche trattate (violenze su minori, autolesionismo) e la lunghezza del romanzo (oltre novecento pagine) è diventato un best seller in tutto il mondo.

Il libro inizia come la storia di quattro amici del college che si trasferiscono a New York: c’è Willem, un affascinante aspirante attore svedese-americano del Wyoming, Malcolm, un aspirante architetto di razza mista dell’Upper East Side, J. B., un aspirante artista haitiano-americano in sovrappeso di Brooklyn e Jude, un giovane avvocato bello, brillante, di razza e origine indeterminate. “New York era popolata da ambiziosi“, osserva JB. “Spesso era l’unica cosa che tutti qui avevano in comune… Ambizione e ateismo”.

Le prime pagine descrivono la vita degli quattro amici ma il romanzo prosegue rapidamente nella storia di Jude, concentrandosi sui suoi episodi di autolesionismo e sulle loro origini. Il primo vero indizio di ciò che aspetta al lettore arriva dopo una sessantina di pagine quando Jude sveglia Willem, il suo compagno di stanza, dicendo: “C’è stato un incidente, Willem; Scusami.” Jude ha il braccio insanguinato avvolto in un asciugamano. È evasivo sulla causa della ferita e insiste sul fatto che non vuole andare in ospedale, chiedendo invece che Willem lo porti da un amico comune di nome Andy, che è un medico. Alla fine della visita, dopo aver ricucito la ferita di Jude, Andy dice a Willem: “Lo sai che si taglia, vero?

Il taglio diventa una costanza. Ogni cinquanta pagine circa, abbiamo una scena in cui Jude mutila la propria carne con una lametta. È descritto con una franchezza che potrebbe far venire la nausea ad alcuni lettori: “Da tempo ha esaurito la pelle bianca sugli avambracci e ora ripassa i vecchi tagli, usando il filo del rasoio per segare il tessuto cicatrizzato e raggrinzito. Quando i nuovi tagli guariscono, lo fanno in solchi verrucosi, ed è disgustato e costernato e affascinato allo stesso tempo da come si è gravemente deformato.” Il taglio è sia un sintomo che un meccanismo di controllo del profondo abuso che Jude ha subito negli anni prima del suo arrivo all’università. La precisa natura di quella sofferenza è accuratamente spiegata da Yanagihara in una serie di flashback, ognuno più raccapricciante dei precedenti. Le rappresentazioni di abusi e sofferenze fisiche che si trovano in “A Little Life” sono rare nella narrativa letteraria tradizionale. I romanzi che trattano questi argomenti spesso svaniscono quando inizia la violenza. L’abuso in “Lolita” di Nabokov, ad esempio, è in gran parte fuori campo. È più probabile che si trovino rappresentazioni esplicite di violenze nella narrativa di genere come “Lisey’s Story” di Stephen King o “Girl with the Dragon Tattoo” di Steig Larsson ma la rappresentazione di Yanagihara dell’abuso di Jude non sembra mai eccessiva o sensazionalistica. Non è inserita per dare al lettore uno shock, come a volte accade nelle opere di horror o crime fiction. La sofferenza di Jude è così ampiamente documentata perché è il fondamento del suo carattere.

“A Little Life” è scritto in modo semplice, diretto per quanto oscuro e inquietante, possiede dentro una bellezza difficilmente descrivibile a chi non ha letto il romanzo.

Yanagihara afferra le bozze del suo terzo romanzo To Paradise che verrà pubblicato l’anno prossimo e  che racconterà tre storie in tre secoli diversi. Yanagihara in un intervista a The Cut ha dichiarato che “la sua speranza è che i lettori vedano riflesse nelle sue pagine alcune delle domande che tutti ci siamo posti sulla premessa degli Stati Uniti, soprattutto in passato.”  To Paradise si aprirà nel 1893, a New York e racconterà la storia d’amore di un fragile giovane rampollo di una famiglia e un’affascinante insegnante di musica”. Con la seconda storia andiamo avanti velocemente a Manhattan del 1993, in una città sopraffatta dall’epidemia di AIDS dove Yanagihara segue la vita di un giovane uomo hawaiano che vive con il suo ricco partner anziano, al quale deve nascondere il suo passato traumatico. L’ultima puntata del libro sembra la più agghiacciante: siamo nell’America nel 2093 in un futuro dilaniato e governato da un regime totalitario.

In To Paradise ci sono temi che Yanagihara ha toccato nei suoi lavori precedenti: il trauma, la nazionalità e la giustizia. Argomenti che l’autrice unisce attraverso tre storie in quella che promette di essere “una sinfonia avvincente e geniale”.

Yanagihara lascia i suoi libri e attraversa il suo appartamento (lo chiama “il mio rifugio”) per affacciarsi alla finestra e buttare uno sguardo a New York. “La odio, ogni anno di più. Odio le scarse infrastrutture, il cibo troppo caro e mediocre, il sistema della metropolitana, il traffico”, ha detto al The Guardian. “Il motivo per cui rimango qui è l’emozione di incontrare costantemente persone più intelligenti e più interessanti di me. La possibilità di partecipare ad eventi che non riuscirei nemmeno ad immaginare. Rimango qui perché senza questa città non sarei la scrittrice che sono.”


LA VOCE DI NEW YORK



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