domenica 19 agosto 2018

Morta Aretha Franklin, regina del soul e dell’attivismo politico

Aretha Franklin, 1981
Morta Aretha Franklin, regina
del soul e dell’attivismo politico

La cantante combatteva da tempo contro un tumore al pancreas Detroit. Il suo stile inimitabile ha segnato varie epoche, andando oltre i generi

16 agosto 2018 (modifica il 17 agosto 2018 | 21:00)

Aretha Franklin, 1980

La più grande di tutte. Aretha Franklin è stata la più grande di tutte e non solo la «regina del soul». Se ne è andata alle 9.50 di ieri mattina nella sua casa di Detroit, perdendo definitivamente la sua battaglia contro un tumore al pancreas. Nell’ultimo decennio la sua cartella clinica le aveva creato più di un problema e spesso era stata costretta a cancellare concerti e impegni. Se ne è andata e adesso è impossibile pensare che il suo regno abbia un’erede. Céline Dion per la voce? Attenti ai fulmini. La voce di Aretha è stata unica, profonda nelle sfumature, sfacciata nel virtuosismo, capace di raccontare storie e di essere trasversale ai generi, sensuale e spirituale. E fino alla fine, YouTube è testimone, è rimasta una voce da incanto. Beyoncé per aver colto lo spirito del female empowerment del momento? Non scherziamo. Un prodotto del marketing neofemminista contro un’icona (forse involontaria) del movimento dei diritti civili.
Aretha Franklin era nata a Memphis nel 1942 e il gospel, il suo primo amore, se l’era trovato in casa: era la figlia di un predicatore battista e una chiesa a Detroit era stata il suo primo palco. Papà non era un predicatore qualunque, papà era C. L. Franklin, uno che faceva spettacolo con la parola di Dio, da prediche incise su disco e trasmesse alla radio, uno in prima fila nella battaglia per i diritti civili della black America. Fu lui il suo primo manager e negli anni 50 le fece pubblicare degli album gospel. Nel 1960 Aretha, con in mente la carriera di Sam Cooke, decise di passare al versante laico della musica e firmò un contratto con la Columbia. Prestò la sua voce perfetta a jazz, r&b, blues ma era ancora presto per la corona. Nel 1966 passò alla Atlantic e il fiuto di un produttore come Jerry Wexler le affiancò i musicisti della Muscle Shoals Rhythm Section.
«I Never Loved a Man (The Way I Love You)» fu la sua prima hit, dritta nella Top 10. E subito dopo arrivò il primo numero 1 con «Respect», cover di un brano di Otis Redding. Non furono solo soltanto i cambiamenti nell’arrangiamento a renderla vincente, quanto l’idea che a chiedere rispetto fosse una donna. Con quel R-e-s-p-e-c-t sbattuto in faccia al suo uomo lettera per lettera e il coretto, il brano divenne prima un inno femminista e poi un simbolo per chiunque lottasse per i diritti, tanto da essere invitata a cantare ai funerali di Martin Luther King. Sull’album di debutto per la Atlantic c’era anche «(You Make Me Feel Like a) Natural Woman». E a questo punto non ci sono più dubbi su chi sarà la regina, celebrata anche da una copertina di Time. Nel giro di un paio d’anni arrivarono «Chain of Fools», «Think» e «I Say a Little Prayer», monumenti assoluti alla canzone e alla capacità di interpretazione. Nel 1972 tornò alle origini gospel con «Amazing Grace», commovente interpretazione dell’inno religioso del Settecento e doppio album inciso dal vivo in una chiesa battista di Los Angeles. A metà degli anni 70, complice il cambiamento del panorama musicale, si aprì una fase in cui i bassi artistici furono più degli alti. Fra questi ultimi un duetto con George Michael per «I Knew You Were Waiting» e la partecipazione al film Blues Brothers che la portò a una nuova generazione. Ma alla fine quanti sono quelli che possono mettere in fila 18 Grammy e 75 milioni di dischi venduti?
Una carriera spettacolare e una vita travagliata. Bambina-madre, ebbe il primo dei quattro figli a 12 anni e il secondo a 14, un matrimonio a 19 anni macchiato da violenza domestica, qualche confidenza di troppo con l’alcol. A partire dagli anni 80 Aretha aveva smesso di volare. Niente tour o apparizioni in Europa. Da allora si è esibita solo in nord America, sempre con la pelliccia addosso come simbolo di riscatto e, le vecchie tradizioni non muoiono mai, sul palco saliva solo se il suo onorario veniva saldato in contanti. Ma non era una star sul viale del tramonto. Lo era sul piano discografico — peccato che la sua carriera non sia stata gestita meglio — ma dal vivo si mangiava ancora tutte. Roba da far piangere dall’emozione. Era capitato pure a Barack Obama. La regina che aveva strappato una lacrima al presidente Usa oggi fa piangere la musica.

CORRIERE DELLA SERA




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