NEW YORK, 11 SETTEMBRE 2001: HO VISTO L’INFERNO
di Antonio Muñoz Molina
All’inizio, quando mi sono affacciato alla finestra, la strada era quasi vuota, come se fosse molto più presto. Il silenzio che veniva dalla strada formava un contrasto irreale con il disastro che vedevo svolgersi sullo schermo della televisione e con l’urgenza e il panico delle voci alla radio. È una mattina luminosa e calda, e quando esco per la strada tutto sembra quasi normale: all’angolo un uomo recita la sua cantilena quotidiana chiedendo soldi per i senzatetto, e l’indiano del chiosco parla al suo cellulare, solo che oggi tiene anche accesa una piccola radio. Discendo Broadway verso sud, e a poco a poco per strada c’è sempre più gente che cammina con il passo energico dei giorni lavorativi, e forse l’unica differenza è che si vedono molti più cellulari. Una donna, ferma a un semaforo, spegne il suo e scoppia in lacrime. Il cielo, verso sud, continua a essere sgombro: sono molto più a nord, all’incrocio di Broadway con la sessantaseiesima Strada, e quindi non posso vedere le colonne di fumo nero che salgono con densità apocalittica dalle rovine del World Trade Center.
Ancora il giorno prima camminavamo per queste vie. Siamo scesi dal metrò in una delle stazioni che si trovano, o meglio si trovavano, all’interno di una delle torri gemelle, e uscendo in strada abbiamo guardato in alto: l’altezza dell’edificio, accentuata dalle linee parallele della sua struttura esterna, ci ha dato le vertigini.
È strano pensare che quelle torri non esistono più, che le strade e i giardini nei pressi del fiume Hudson attraverso cui un paio di giorni fa passeggiavamo all’imbrunire sono lo scenario di una catastrofe inimmaginabile. Alla radio, mentre scrivo, il sindaco Giuliani dice che vi sono state “perdite atroci”. A poco a poco la strada ha cominciato a riempirsi: si sentono più sirene, delle auto della polizia e dei pompieri, ma non molte più del solito. C’è come un pellegrinaggio di massa lungo i marciapiedi, che va acquistando una direzione precisa, verso nord, un’onda d’urto esterna del gran panico che ha il suo epicentro nella parte bassa di Manhattan. Hanno chiuso la metropolitana, i pochi taxi che passano sono occupati e la gente cammina con decisione e in silenzio, molta più gente di quanto sia normale a quest’ora e in questa zona della città. Alla radio dicono che una grande folla si è raccolta a Times Square.
Ancora il giorno prima camminavamo per queste vie. Siamo scesi dal metrò in una delle stazioni che si trovano, o meglio si trovavano, all’interno di una delle torri gemelle, e uscendo in strada abbiamo guardato in alto: l’altezza dell’edificio, accentuata dalle linee parallele della sua struttura esterna, ci ha dato le vertigini.
È strano pensare che quelle torri non esistono più, che le strade e i giardini nei pressi del fiume Hudson attraverso cui un paio di giorni fa passeggiavamo all’imbrunire sono lo scenario di una catastrofe inimmaginabile. Alla radio, mentre scrivo, il sindaco Giuliani dice che vi sono state “perdite atroci”. A poco a poco la strada ha cominciato a riempirsi: si sentono più sirene, delle auto della polizia e dei pompieri, ma non molte più del solito. C’è come un pellegrinaggio di massa lungo i marciapiedi, che va acquistando una direzione precisa, verso nord, un’onda d’urto esterna del gran panico che ha il suo epicentro nella parte bassa di Manhattan. Hanno chiuso la metropolitana, i pochi taxi che passano sono occupati e la gente cammina con decisione e in silenzio, molta più gente di quanto sia normale a quest’ora e in questa zona della città. Alla radio dicono che una grande folla si è raccolta a Times Square.
La voce trema
A un incrocio un cieco cammina lentamente agitando il suo bastone bianco. Autobus gialli si allineano accanto all’ingresso di una scuola da cui i bambini continuano a uscire, senza fretta, senza dare un’impressione di paura né di urgenza. Alla radio un annunciatore dice che si è appena saputo che sono stati dirottati otto aerei, ma finora solo tre si sono schiantati: l’intero spazio aereo degli Stati Uniti è stato chiuso. All’annunciatore trema la voce, chiede quasi gridando alla giornalista che sta trasmettendo dal luogo del disastro di uscire di corsa quanto prima e mettersi al riparo: qualcuno ha calcolato che le esplosioni si succedono a distanza di quasi 15 minuti, cosicché è possibile che stia per succedere qualcosa di peggio. La gente cammina per Broadway, uomini e donne con i completi e le valigette, come all’ora dell’uscita dagli uffici, ma adesso con maggiore determinazione, anche se con una concentrazione molto simile a quella di tutti i giorni. Una donna esce da un negozio carica di sporte di roba da mangiare. Due bambine molto grasse scendono lunga la strada nella direzione opposta alla grande corrente, e chiacchierano fra loro ridendo sonoramente. C’è chi passa pattinando e chi si ferma lungo il marciapiede a fare l’autostop.
Il traffico però è scorrevole, nonostante tutto, ogni tanto le auto vanno più in fretta del solito ma al semaforo rosso si fermano. La radio snocciola scene di angoscia e di terrore, e nessuno sa calcolare il numero dei morti, ma sulla terrazza di un caffè c’è chi fa tranquillamente colazione, e il cielo verso sud continua a essere sgombro. L’emittente trasmette voci di testimoni: una folla attraversa il ponte di Brooklyn abbandonando Manhattan.
I negozi continuano a essere aperti e quando svanisce il suono dell’ultima sirena che è appena passata risalta con maggiore chiarezza il silenzio della gente per la strada. All’angolo, insieme a un tavolino portatile su cui ha installato un bidone di plastica in cui oggi nessuno si ferma a deporre monete, l’uomo che chiede un aiuto per i senzatetto si è zittito e guarda con sorpresa la folla che gli passa davanti, uomini che si sono allentati la cravatta e adesso portano la giacca sulla spalla, donne con tacchi e borsette che parlano al cellulare.
Adesso il suono delle sirene è molto lontano. Uno non sa qual è davvero la realtà: quello che sente alla radio che porta attaccata all’orecchio, oppure quello che vede con i suoi occhi in questa mattina calda e soleggiata di New York.
A un incrocio un cieco cammina lentamente agitando il suo bastone bianco. Autobus gialli si allineano accanto all’ingresso di una scuola da cui i bambini continuano a uscire, senza fretta, senza dare un’impressione di paura né di urgenza. Alla radio un annunciatore dice che si è appena saputo che sono stati dirottati otto aerei, ma finora solo tre si sono schiantati: l’intero spazio aereo degli Stati Uniti è stato chiuso. All’annunciatore trema la voce, chiede quasi gridando alla giornalista che sta trasmettendo dal luogo del disastro di uscire di corsa quanto prima e mettersi al riparo: qualcuno ha calcolato che le esplosioni si succedono a distanza di quasi 15 minuti, cosicché è possibile che stia per succedere qualcosa di peggio. La gente cammina per Broadway, uomini e donne con i completi e le valigette, come all’ora dell’uscita dagli uffici, ma adesso con maggiore determinazione, anche se con una concentrazione molto simile a quella di tutti i giorni. Una donna esce da un negozio carica di sporte di roba da mangiare. Due bambine molto grasse scendono lunga la strada nella direzione opposta alla grande corrente, e chiacchierano fra loro ridendo sonoramente. C’è chi passa pattinando e chi si ferma lungo il marciapiede a fare l’autostop.
Il traffico però è scorrevole, nonostante tutto, ogni tanto le auto vanno più in fretta del solito ma al semaforo rosso si fermano. La radio snocciola scene di angoscia e di terrore, e nessuno sa calcolare il numero dei morti, ma sulla terrazza di un caffè c’è chi fa tranquillamente colazione, e il cielo verso sud continua a essere sgombro. L’emittente trasmette voci di testimoni: una folla attraversa il ponte di Brooklyn abbandonando Manhattan.
I negozi continuano a essere aperti e quando svanisce il suono dell’ultima sirena che è appena passata risalta con maggiore chiarezza il silenzio della gente per la strada. All’angolo, insieme a un tavolino portatile su cui ha installato un bidone di plastica in cui oggi nessuno si ferma a deporre monete, l’uomo che chiede un aiuto per i senzatetto si è zittito e guarda con sorpresa la folla che gli passa davanti, uomini che si sono allentati la cravatta e adesso portano la giacca sulla spalla, donne con tacchi e borsette che parlano al cellulare.
Adesso il suono delle sirene è molto lontano. Uno non sa qual è davvero la realtà: quello che sente alla radio che porta attaccata all’orecchio, oppure quello che vede con i suoi occhi in questa mattina calda e soleggiata di New York.
El País, 12 settembre 2001
L’AUTORE
Antonio Muñoz Molina è uno scrittore spagnolo. Collabora con El País. Molti suoi libri sono stati pubblicati in Italia. L’ultimo è Beltenebros (Passigli 2001).
Antonio Muñoz Molina è uno scrittore spagnolo. Collabora con El País. Molti suoi libri sono stati pubblicati in Italia. L’ultimo è Beltenebros (Passigli 2001).
Nessun commento:
Posta un commento