Il lato oscuro di Isabelle Huppert
L'attrice francese, che torna al cinema con un horror, spiega perché la diverte fare la cattiva
Che cosa succede quando una elegante signora sulla metropolitana di New York si alza e dimentica la borsetta? Affidarsi all’immaginazione a volte è un errore: nessun furto, nessuna intrusione a casa sua dopo essersi impossessati delle chiavi, nessuna scusa per abbordarla. Il fatto è che se la signora in questione è Isabelle Huppert, una abituata nella sua carriera a far fuori la gente o comunque a vendicarsi di ogni offesa, si può anche intuire che la storia procederà per altre strade. Strade comunque inquietanti: perché Greta – film di Neil Jordan che uscirà in agosto, pronto a raggelare lo spettatore – è una discesa agli inferi del possesso, della solitudine e della violenza.
A far da contraltare a Huppert, nella parte della vittima designata dal suo aver perso di recente la madre, è Chloë Grace Moretz, giovane ma già avvezza all’horror, dallo Sguardo di Satana – Carrie al Suspiria di Guadagnino. Isabelle è a Vienna, dove si trova per un festival teatrale, e al telefono si esprime in inglese, la lingua che insegnava sua madre e nella quale si è trovata più volte a recitare, dai tempi (era il 1975) di Operazione Rosebud di Otto Preminger, passando per lo sfortunato I cancelli del cielo di Michael Cimino, e arrivando fino a Greta, girato fra New York, Toronto e Dublino.
Che cosa l’ha attratta in questa donna?
«Mi sono divertita a interpretarla. Certo, non la si può definire proprio una persona piacevole, ed è completamente folle, ma è questo che la rende un caso interessante per un’attrice. La storia è estrema, può risultare molto spaventosa e divertente allo stesso tempo. È lo scontro fra due donne: una decisamente cattiva, l’altra giovane e assolutamente buona. È la contrapposizione fra il bianco e il nero, dove non c’è alcun tentativo di legittimare la follia di Greta».
Fra il bianco e il nero lei – stando alla sua filmografia di oltre 120 film – sembra non avere dubbi: meglio interpretare il lato oscuro.
«Certo, sono una fan del nero, non del bianco. Anche perché quando scegli il lato oscuro dei personaggi, ti ritrovi il pubblico dalla tua parte».
Sta dicendo che le spettatrici non vogliono vedere rappresentate le altre donne come vittime?
«Di solito nei film le donne vengono raffigurate come soggette, devote agli uomini. Invece, il motivo per cui mi piacciono i personaggi che spesso interpreto è che sono come me: non si aspettano che altri risolvano i loro problemi. E poi in questo caso mi interessava il forte contrasto fra le cose orribili che Greta fa e il modo in cui si presenta, gentile, dolce, fragile».
In Greta, oltre al bisogno di possesso della donna, c’è anche un profondo senso di solitudine…
«Sì, è un leitmotiv del regista Neil Jordan, la terribile solitudine di questa donna che, circondata da un sacco di gente, vive isolata in una grande città».
E per questo si lega morbosamente a Frances, ossia l’attrice 22enne Chloë Grace Moretz. Le ha dato qualche consiglio, lei che ha quasi cinquant’anni di carriera?
«Assolutamente no, non ne aveva bisogno: è brava e lavora già da tempo».
Ma lei sul lavoro si definirebbe materna?
«Oh no, mai! Anche quando mi è capitato di lavorare con mia figlia (Lolita Chammah ha girato con lei diversi film, l’ultimo è Barrage, ndr) non le ho dato consigli: sul set entro in relazione con lei ma senza dirle che cosa fare».
Lei è diplomata al Conservatorio e molte volte al cinema la vediamo suonare, nella Pianista come in Greta. Nella vita normale si mette spesso al piano?
«No, non lo faccio più da tempo, quando al cinema mi chiedono di suonare allora mi esercito. Ma è divertente che Greta suoni: è una musica classica, che sembra così dolce… fino a quando ti accorgi di che cosa si nasconde dietro quel pianoforte».
Da Violette Nozière a Grazie per la cioccolata, lei è stata spesso una avvelenatrice. Si è mai chiesta se nella vita volesse uccidere qualcuno come lo farebbe?
«In effetti non ci ho mai pensato. Mi capita di uccidere quando recito, e da spettatrice assisto ad assassini. Ma la finzione è utile anche per questo: sei libero di essere una persona negativa, senza dover pensare di farlo nella realtà».
Passiamo a un aspetto più leggero? Nella serie Chiami il mio agente! lei è protagonista di una puntata molto autoironica, in cui si presenta come un’attrice workaholic.
«Il punto di partenza della serie era esagerare, e abbiamo scelto questa chiave, di una Isabelle che vuole controllare tutto, fare tutto. Io però sono tante cose, ma non workaholic. Comunque, per me lo humour è davvero importante, nelle circostanze difficili della vita può essere un grande aiuto».
Che cosa sta facendo adesso a Vienna?
«Sono qui con uno spettacolo di Bob Wilson, Mary Said What She Said, che in autunno porteremo anche a Firenze. È un monologo sulla vita di Maria Stuarda».
Questa volta quindi passa dalla parte della vittima?
«Alla fine della vita lo è stata, però era anche una ribelle, una donna che voleva vivere liberamente. La sua è stata una esistenza tragica, e io sono sempre affascinata da questi personaggi».
Il teatro quanto la affascina?
«Ne ho fatto molto di recente, negli ultimi mesi sono stata in scena con The Mother (un’altra madre “pericolosa”, ndr) di Florian Zeller. Il teatro è più esigente e fisico, ma soprattutto eccitante, perché devi raggiungere qualcosa di molto profondo. Succede anche con il cinema, però non è la stessa cosa. Non tanto perché in teatro percepisci subito la reazione del pubblico, quello si sa, ma perché ci sono autori che riescono a portarti a un livello spirituale molto alto».
Restando in tema di madri e matrigne, al cinema ne ha appena interpretata un’altra, in Biancaneve.
«In effetti, sono sempre la cattiva, la matrigna. Il film è la versione contemporanea di Biancaneve, e lei non è più la fanciulla pura della fiaba, ma una ragazza (la interpreta Lou de Laâge, ndr) alle prese con la scoperta della sessualità. Certo, io faccio di tutto per ucciderla, ma sono anche una donna molto vulnerabile, ferita. Alla fine, è solo in Frankie che divento un personaggio completamente diverso, un’attrice che sta morendo».
Frankie lo ha appena presentato a Cannes, festival che frequenta da molti anni, dove nel 1978 vinse la prima Palma come miglior attrice: è molto cambiato lo show business oggi?
«Sì e no: tutto cambia ma le cose fondamentali restano, il cinema è ancora molto potente. E poi questa è stata un’ottima annata, con film interessanti».
Nei suoi film, compresi questi ultimi, spessissimo il titolo è il nome del suo personaggio. Orgogliosa?
«Greta, Frankie, anche La Daronne, che è l’ultimo film che ho fatto… È vero, sono il fulcro, e il titolo evoca questo. Però secondo me ci sono anche ragioni musicali, sono nomi che suonano bene».
Prima di Biancaneve, nel suo curriculum c’era anche già un titolo di fiaba:Bella addormentata, ispirato alla vicenda di Eluana, dove lei aveva una figlia in coma. Adesso in Francia si dibatte molto se staccare o no la spina a Vincent Lambert, da anni in coma.
«Sì, c’è questo terribile caso ed è la stessa situazione del film di Marco Bellocchio, che tocca molto, ma la mia opinione non ha peso in questo».
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