OMAGGIO AL MAESTRO DI CENT'ANNI DI SOLITUDINE
L'arte narrativa di Gabriel García Márquez è femmina: l'aveva imparata dalla nonna
Sante, puttane, bambine e matriarche. Le donne di Márquez sono tutte mitologiche: l'emblema della femmina agli occhi del maschio. Perché la lezione del raccontare era quella che lui aveva ricevuto dalla nonna. L'articolo. Le immagini
di Camilla Baresani - 18 aprile 2014
Ora che Gabriel García Márquez è morto non è morto, perché uno scrittore così superlativo non passa di moda, non smette di essere letto, non ha imitatori all'altezza dell'originale. Se ci fosse un campionato mondiale dei migliori incipit di romanzo, lo vincerebbe lui: le sue prime pagine sono irresistibili e si studiano nelle scuole di scrittura, alla ricerca della formula che invano in tanti hanno provato a replicare. Márquez è stato un cultore delle donne e della loro figura romanzesca: che siano puttane (nella sua narrativa ce ne sono parecchie), bambine dalla sessualità precoce e dirompente, ragazzine portatrici di un inaudito e inconsapevole coefficiente di seduzione, donne eternamente innamorate, matriarche che hanno dato vita a una teoria di figli... sono tutte, sempre e comunque, figure mitologiche, l'emblema della femmina negli occhi del maschio. Scopritele nei suoi romanzi che, secondo me, ognuno di noi dovrebbe leggere: "Cent'anni di solitudine", "L'amore ai tempi del colera", "Cronaca di una morte annunciata" e, perché no, il crepuscolare "Memoria delle mie puttane tristi".
Nel 1981, un anno prima del Nobel, García Márquez concesse una lunga intervista alla celebre rivista letteraria americana "The Paris Review". Vale la pena di leggerla per intero (è molto arguta e istruttiva) e la trovate nella raccolta "The Paris Review" vol. II (Fandango, pagg. 486, euro 22), insieme a quelle di Graham Greene, William Faulkner, Harold Bloom, Toni Morrison, Alice Munro, Stephen King e altri. Nell'intervista, a proposito di donne, Márquez parla dell'importanza della lezione impartitagli da sua nonna. "Nel giornalismo basta un elemento falso a pregiudicare l’intero lavoro. Per contro, nella fiction basta un solo elemento di verità a dare legittimità a tutto il lavoro. Questa è l’unica differenza, e risiede nell’impegno di chi scrive. Un romanziere può fare ciò che vuole fintantoché la gente crede a quello che scrive". E precisa: "Cent’anni di solitudine era basato sul modo in cui mia nonna mi raccontava le storie. Raccontava cose che sembravano sovrannaturali e fantastiche, ma le diceva con completa naturalezza. Quel che era più importante era l’espressione del suo volto. Non cambiava mai quell’espressione quando raccontava le sue storie, e ognuno rimaneva sorpreso. Nei primi tentativi di scrivere Cent’anni di solitudine cercai di raccontare la storia senza crederci. Scoprii che quello che dovevo fare era credere nella mia storia e scriverla con la stessa espressione con cui mia nonna raccontava: con la faccia come un muro. È un trucco giornalistico che si può anche applicare alla letteratura. Per esempio, se dici che ci sono degli elefanti che volano in cielo, la gente non ti crederà. Ma se tu dici che ci sono quattrocentoventicinque elefanti nel cielo, forse qualcuno ti darà credito. Cent’anni di solitudine è pieno di cose del genere. È esattamente la stessa tecnica usata da mia nonna. Mi ricordo particolarmente del personaggio circondato da farfalle gialle. Quando ero molto piccolo c’era un elettricista che veniva spesso a casa nostra. Io ero curiosissimo perché portava una cintura che usava per tenersi sospeso dai pali dell’elettricità. Mia nonna diceva sempre che ogni volta che quest’uomo veniva da noi, lasciava la casa piena di farfalle".
La realtà è Gabriel García Márquez non è morto perché continua a essere con noi attraverso l'arte narrativa, squisitamente femminile, appresa dalla nonna.
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