mercoledì 15 aprile 2015

Franz Kafka / Un medico di campagna


Franz Kafka
UN MEDICO DI CAMPAGNA

Mi trovavo in grande imbarazzo: ero nell'imminenza di partire per un viaggio urgente; in una borgata distante circa dieci miglia mi aspettava un malato grave; una violenta bufera di neve riempiva l'ampio spazio tra me e lui; la carrozza ce l'avevo, leggera, alta di ruote, di quelle fatte apposta per le nostre strade campestri; chiuso nella pelliccia, la borsa dei ferri in mano, stavo pronto alla partenza in cortile; ma il cavallo mancava, il cavallo. Il mio era morto la notte prima, a causa delle eccessive fatiche di quel gelido inverno; la mia fantesca stava correndo per tutto il villaggio cercandone uno a prestito; ma era impresa disperata, lo sapevo, e rimanevo lì impotente, sempre più coperto dalla neve, sempre più incapace di muovermi. Al portone apparve la servetta, sola, agitando la lanterna; si capisce, chi presterebbe il suo cavallo per un simile viaggio? Ancora una volta attraversai tutto il cortile: non trovavo soluzione; smarrito, angosciato, diedi un calcio alla porticina tarlata del porcile, rimasto inutilizzato da anni. La porta si aprì sbattendo ripetutamente sui cardini, e fai investito da una folata calda, odorosa di cavalli. Nell'interno, un fioco lume da stalla oscillava appeso ad una fune. Un uomo se ne stava raggomitolato nel basso bugigattolo; alzò il volto scoprendo i suoi occhi azzurri. «Devo attaccare?» domandò, strisciando avanti a quattro gambe. Non seppi cosa rispondergli e mi chinai per vedere che altro c'era lì dentro. La fantesca mi stava accanto. «Uno non sa mai quante cose ha in casa,» disse, e ridemmo insieme. «Ehi fratello, ehi sorellina,» chiamò lo stalliere, e due cavalli, splendide bestie dai fianchi possenti, si spinsero avanti uno dietro l'altro, le gambe strette al corpo, le teste ben fatte inclinate alla guisa dei cammelli, e con la sola forza dei tronchi guizzanti superarono lo stretto pertugio d'ingresso, riempiendolo totalmente. Quindi si fermarono, ritti sulle lunghe zampe, i corpi fumiganti di fitto sudore «Aiutalo,» dissi, e la solerte ragazza si affrettò a porgere al servo i finimenti. Ma ecco che appena gli è vicino, il servo l'abbranca e affonda il viso in quello di lei. Essa dà un grido e si rifugia da me; nella sua guancia scorgo l'impronta rossa di due file di denti. «Bestiaccia,» grido furibondo, «vuoi una frustata?» ma subito mi viene in mente che è un estraneo, uno che non so di dove venga e che mi aiuta spontaneamente, mentre tutti si eclissano. Lui, quasi leggesse nei miei pensieri, non dà peso alla minaccia, ma si limita a gettarmi un'occhiata, sempre affaccendato dietro ai cavalli. «Salga,» mi dice poi, e in effetti tutto è pronto. Con una muta così bella, lo vedo bene non ho viaggiato mai; e salgo tutto allegro. «Lascia però che guidi io, tu non conosci la strada,» gli dico. «Certo,» risponde, «io non vengo, resto qui con Rosa.» «No,» urla Rosa e corre in casa, ben presaga dell'inevitabile suo destino; la sento tirare il catenaccio all'uscio, ne odo il tintinnio, lo scatto della serratura; vedo che essa spegne pure la luce sul pianerottolo, poi in tutte le altre stanze, sempre correndo a precipizio per non farsi trovare. «Tu vieni con me,» dico allo stalliere, «altrimenti, con tutta l'urgenza, faccio a meno di partire. Levati dalla testa che ti lasci in mano la ragazza come prezzo del viaggio.» «Via!» fa lui, e batte le mani; la carrozza sfreccia come un legno nella corrente; faccio ancora in tempo a sentire che la mia porta di casa si schianta e va in frantumi sotto la furia dello stalliere, poi negli occhi e negli orecchi non ho più che un mugghio, e tutti i miei sensi ne sono ugualmente penetrati. Ma solo per un breve istante; infatti, come se il cortile del malato si schiudesse immediatamente davanti al mio portone, eccomi, ci sono già; i cavalli si fermano quieti; non nevica più; la luna risplende; i genitori del malato escono di corsa; li segue la sorella; quasi di peso mi tolgono dalla carrozza; non riesco ad intendere i loro discorsi confusi; l'aria nella stanza del malato è pressoché irrespirabile; la stufa, non accudita, manda fumo; spalancherò la finestra; ma prima voglio vedere il malato. Magro, senza febbre, nè freddo nè caldo, gli occhi spenti, senza camicia, il giovane si tira su di sotto al piumino, mi si appende al collo, mi sussurra all'orecchio: «Dottore, lasciami morire.» Mi guardo intorno: nessuno ha udito; i genitori, curvi in avanti, attendono muti il mio responso; la sorella ha accostato una sedia per la mia borsa dei ferri. La apro e cerco tra gli strumenti; il giovane, dal letto, continua ad annaspare alla mia volta per ricordarmi la sua preghiera; afferro una pinzetta, la esamino alla luce della candela, poi la rimetto giù. «Sì,» penso imprecando, «in simili casi vengono in aiuto gli dèi, ti mandano il cavallo che manca, vista l'urgenza ne aggiungono un secondo e ti danno anche lo stalliere per soprappiù...» Di colpo mi viene in mente Rosa che fare, come salvarla, come strapparla a quello stalliere, a dieci miglia di distanza, con due cavalli indomiti legati alla carrozza? Questi cavalli che, non so come, hanno allentato le redini, sono inspiegabilmente riusciti ad aprire le finestre dall'esterno, e ora, ciascuno da una finestra, incuranti del clamore dei familiari, sporgono le teste a contemplare il malato. «Torno subito indietro,» penso, come se i cavalli mi ingiungessero di ripartire, ma invece lascio che la sorella, che mi crede stordito dal caldo, mi tolga la pelliccia. Mi versano un bicchiere di rum, il vecchio mi batte sulla spalla: l'avermi fatto parte del suo tesoro giustifica tale confidenza. Scuoto il capo: nell'angusta cerchia di pensieri del vecchio mi sentirei venir meno, e solo per questo motivo rifiuto di bere. La madre, accanto al letto, mi fa cenno di avvicinarmi; obbedisco e, mentre il mio cavallo nitrisce forte verso il soffitto, appoggio la testa sul petto del giovane, il quale al contatto della mia barba bagnata rabbrividisce. Ho la conferma di quel che già sapevo: il ragazzo è sano; un po' anemico, rimpinzato di caffè dalla trepida madre, ma sano; buttarlo giù dal letto con uno spintone sarebbe la miglior cura. Poiché il mio mestiere non è quello del riformatore, lo lascio dove sta. Sono un funzionario distrettuale e faccio il mio dovere fino all'ultimo, fino al punto in cui rischia di esorbitare. Mi pagano male, ma sono generoso e aiuto la povera gente. Anche di Rosa ho da preoccuparmi, e questo giovane può darsi che abbia ragione, e anch'io voglio morire. Che sto facendo qui, in quest'inverno infinito? Il mio cavallo è morto e in paese non c'è nessuno che voglia prestarmene un altro. Mi tocca andare a cercarmi una muta nel porcile: se per buona sorte non fossero stati cavalli, dovevo servirmi di maiali. Proprio così. E accennò col capo verso i familiari. Loro non ne sanno nulla, se lo sapessero non ci crederebbero.Scrivere ricette è facile, ma, quanto al resto, intendersi con la gente è difficile. Be', con questo la mia visita sarebbe finita, ancora una volta mi hanno disturbato senza scopo: ci sono avvezzo, tutto il distretto si serve del mio campanello notturno per tormentarmi, ma che stavolta sia stato costretto a perdere anche Rosa, quella bella figliola che da anni mi viveva in casa quasi inosservata - questo è un sacrificio troppo grave, e posso farmene una ragione solo appigliandomi ad ogni capziosità che mi passa per la testa; altrimenti mi sfogherei contro questa famiglia che, con la migliore volontà, non potrà mai rendermi Rosa. Ma quando richiudo la borsa e faccio un cenno perché mi si porti la pelliccia, e la famiglia mi sta di fronte riunita - il padre fiutando l'odore del bicchiere di rum, la madre, che probabilmente ho deluso (va' a sapere cosa s'aspetta il popolo!), mordendosi in lagrime le labbra, la sorella agitando un asciugamano zuppo di sangue - chissà perché mi sento disposto ad ammettere, in un certo senso, che il giovane forse è malato. Mi avvicino, egli mi sorride, quasi gli porgessi la più sostanziosa delle minestre... ah, ecco, i due cavalli nitriscono: è un rumore forse preordinato in alto luogo per facilitare il mio compito... e adesso, sì, me ne accorgo, il giovane è malato. Nel suo fianco destro, all'altezza dell'anca, si è aperta una ferita grande come il palmo d'una mano. Di color rosa, ricca di sfumature, più scura al centro, via via più chiara sugli orli, leggermente granulosa, con grumi di sangue irregolarmente sparsi, aperta verso l'alto come una miniera: tale appare vista di lontano. Ma più dappresso si nota un'altra complicazione; e chi può guardarla senza un lieve sibilo di stupore? La piaga pullula di vermi, lunghi e grossi come il mio dito mignolo, rosei e per di più intrisi di sangue; come fossero radicati al fondo, agitano verso la luce le testine bianche e le innumeri zampette. Povero ragazzo, sei spacciato. Ho scoperto la tua grande ferita: questo fiore che hai nel fianco significa morte. La famiglia, che mi vede in piena attività, è felice. La sorella lo dice alla madre, la madre al padre, il padre ad alcuni estranei che in punta di piedi, bilanciandosi sulle braccia divaricate, entrano dalla porta piena di luna. «Mi salverai?» sussurra il giovane in un singhiozzo, abbagliato dalla vita che palpita nella sua piaga. Così è la gente dalle mie parti: sempre chiedono al medico l'impossibile. Hanno perso l'antica fede; il parroco se ne sta a casa e disfa una ad una le sue pianete, ma il medico, con la sua mano morbida di chirurgo, deve essere capace di tutto. Sia come volete; non sono stato io ad offrirmi; se avete bisogno di me per un santo fine, non mi rifiuterò certo; che potrebbe desiderare di meglio un vecchio medico di campagna, privato della sua servetta? Ed eccoli che vengono, la famiglia e gli anziani del borgo, e mi svestono, mentre davanti alla casa un coro di scolari col maestro in testa canta una melodia semplicissima sulle parole:
Svestitelo e lui saprà guarire,
e se non sa guarire uccidetelo!
È solo un medico, solo un medico!

Sono svestito, e tranquillo, le dita immerse nella barba, li osservo col capo reclino. Mi sento perfettamente a mio agio e superiore a tutti, e tale rimango anche se non mi giova a nulla, perché ora mi pigliano per la testa e per i piedi e mi portano sul letto. Mi mettono contro il muro, dalla parte della ferita, poi tutti escono; la porta viene chiusa; il canto si spegne; nuvole celano la luna; sento le coperte calde intorno al corpo; le teste dei cavalli tentennano indistinte nei vani delle finestre. «Sai,» mi sento bisbigliare all'orecchio, «ho ben poca fiducia in te. Ti hanno buttato qui chissà di dove, non sei venuto di tua libera scelta. Invece di soccorrermi, mi togli spazio nel mio letto di morte. Avrei voglia di cavarti gli occhi.» «Hai ragione,» dico, «è una vergogna. Ma io sono un medico: che altro potrei fare? Credimi, anche per me la vita non è facile.» «E pensi che queste scuse mi bastino? Eppure devo per forza accontentarmene. Sempre devo accontentarmi. Sono venuto al mondo con una bella ferita, e questo era tutto il mio corredo.» «Mio giovane amico,» gli rispondo, «il tuo sbaglio e di non guardare alle cose nel loro insieme. Io, che di camere di malati ne ho vedute a bizzeffe, posso assicurarti che la tua ferita non è tanto brutta. Due colpi di accetta ad angolo acuto. Molti sono quelli che offrono il fianco e non fanno caso al rumore dell'accetta nel bosco; tanto meno poi s'accorgono che si sta avvicinando.» «È proprio così, o vuoi darmela a intendere perché no la febbre?» «È proprio così, e portati pure lassù la parola d'onore di un medico condotto.» Ed egli la accolse e non parlò più. Ma era ora di provvedere alla mia salvezza. I fidi cavalli erano sempre ai loro posti. Raccattai in fretta vestiti, pelliccia e borsa; non volli perdere tempo a rivestirmi; se i cavalli correvano come nel viaggio d'andata, sarei per così dire balzato da quel letto nel mio. Docile, un cavallo si ritrasse dalla finestra; gettai il fardello nella carrozza; la pelliccia, caduta troppo lontano, restò appesa a un gancio per una manica. Pazienza. Saltai sul cavallo. Redini lente ciondoloni, un cavallo malamente legato all'altro, la carrozza arrancante dietro, e la pelliccia nella neve a chiudere il corteo. «Via!» dissi, ma c'era poco da dir via; lenti, a passo di vecchiaia, avanzavano nel deserto di neve, mentre lungamente echeggiava dietro di noi il nuovo ma fallace canto dei fanciulli:

Siate lieti, o pazienti,
nel vostro letto ora c'è il medico!

Di questo passo non arriverò più a casa; la mia brillante posizione è perduta, un successore mi saccheggia, ma senza trarne vantaggio, perché non riuscirà mai a soppiantarmi; in casa mia imperversa il ripugnante stalliere, e Rosa è la sua vittima; non ci voglio neppure pensare. Nudo, esposto al gelo di quest'infausta età, con una carrozza terrena, con due cavalli non terreni, non son più che un vecchio ramingo. La mia pelliccia penzola dietro il cocchio, ma non riesco a raggiungerla, e della mutevole marmaglia dei pazienti nessuno muoverà un dito. Inganno! Inganno! Se una volta dai retta al menzognero squillo del campanello notturno, non c'è più rimedio possibile.




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