Dopo vent’anni ti ritorno
a guardare da fuori dritto nel cuore
da viaggiatore che più non cerca
da tempo alcun riferimento, madre
così lieve distratta e inadempiente,
eternamente infante, mia Ferrara
non una ruga hai sul volto soltanto
i tuoi bar sono cresciuti e i locali
aperti all’esercito fermo nel tempo
dei giovani in divisa per l’aperitivo
iscritti d’ufficio alle “compa” che a sera
si trovano al parcheggio dell’Iper a passare
metà della serata nel decidere che fare.
Torno per l’abbraccio di chilometri di mura
con le mani aperte che non ne sanno altre
e gli occhi tra gli occhi dei dissimili distanti;
per il muschio fradicio e l’alloro dei giardini
il manto di silenzio che apre i giorni festivi,
per il canto stonato dei colombi che ricorda
il ritmo sincopato del verso quando inciampa,
per la gaia ostinazione di antiche campane
che al dovere richiamano l’ultimo fedele,
per il saluto dei vecchi al davanzale,
gli screzi delle donne al mercato di quartiere,
per i negozianti che di me sanno gli orari,
tutto ciò che conta, il nome dei miei cani,
per la quiete da dopocena assonnato
quando alle otto scatta il coprifuoco,
per lo slalom nelle strade del centro tra le bici,
gli incroci di volti e i balconi fatiscenti,
i vicoli scavati come tunnel tra i palazzi,
i fregi sui portoni e le pallide iscrizioni,
per la muta sconfitta di antiche prigioni.
Torno a sentirmi raccontare dalle pietre,
dall’albero grande dove seppellivo
il vecchio pesce rosso e il fratello uccellino,
torno a sarchiare la nebbia per scoprire
il volto dei ricordi che non vogliono svanire
e restano nascosti come spettri per restare,
mentre sfumano nel buio i luoghi del calvario
trasferito a Cona l’ospedale è ormai lontano
somiglia adesso a un college americano
la scuola che ha visto la mia liberazione
dagli altri in bagno per la ricreazione
molto prima che imparassi a deglutire
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