sabato 18 aprile 2015

Franz Kafka / Nella colonia penale

Illustrazione di Triunfo Arciniegas
Franz Kafka
Nella colonia penale
Traduzione: Mauro Nervi
«E’ una macchina molto speciale», disse l’ufficiale all’esploratore, e con sguardo in un certo senso ammirato controllò la macchina che pure conosceva così bene. Il viaggiatore sembrava aver consentito solo per cortesia alla richiesta del comandante, il quale lo aveva invitato ad assistere all’esecuzione di un soldato condannato per insubordinazione e insulti a un superiore in grado. In generale, nella colonia penale, l’interesse per questa esecuzione non era molto grande. O almeno, qui nella piccola valle profonda e sabbiosa, circondata da alture spoglie, a parte l’ufficiale e il viaggiatore c’era solo il condannato, un uomo ottuso e dalla bocca larga, con capelli e viso in disordine, e un soldato che teneva in mano la pesante catena in cui confluivano le catene più piccole nelle quali il condannato era costretto al collo e alle articolazioni dei piedi e delle mani, e che erano anche collegate fra loro da altre catene. Inoltre il condannato sembrava docile come un cagnolino, si aveva l’impressione che lo si potesse lasciar libero di correre sulle alture intorno e che bastasse fare un fischio al momento dell’esecuzione per farlo ritornare.
Il viaggiatore aveva poca curiosità verso la macchina e con un disinteresse quasi visibile camminava su e giù dietro il condannato, mentre l’ufficiale si occupava degli ultimi preparativi, ora strisciando sotto la macchina, che aveva salde fondamenta nel terreno, ora salendo su una scala per controllare le parti superiori. Erano lavori che, a dire il vero, si sarebbero potuti lasciare a un operaio, ma l’ufficiale li eseguiva con grande zelo, forse per il fatto che era un devoto particolare della macchina, o forse perché, per altri motivi, quel lavoro non si poteva affidare a nessuno. «Ora è tutto pronto!» esclamò alla fine, e scese dalla scala. Era straordinariamente stanco, respirava a bocca spalancata e dietro il colletto d’ordinanza aveva infilato due delicati fazzoletti da donna. «Queste uniformi sono davvero troppo pesanti per i tropici», disse il viaggiatore anziché informarsi della macchina, come l’ufficiale si aspettava. «E’ così», disse l’ufficiale, lavandosi in un secchio lì pronto le mani sporche di olio e grasso, «ma esse rappresentano per noi la patria; e la patria non vogliamo perderla. – Ma ora guardi questa macchina», aggiunse subito, si asciugò le mani con un panno e contemporaneamente indicò la macchina. «Finora c’era ancora bisogno di un lavoro manuale, d’ora in avanti lavorerà completamente da sola». Il viaggiatore con un cenno del capo seguì l’ufficiale. Questi, per cautelarsi da ogni eventualità, disse: «Naturalmente a volte il funzionamento è difettoso: spero che questo non avvenga oggi, ma bisogna sempre aspettarselo. La macchina deve pur funzionare per dodici ore consecutive. Ma se ci sono imprevisti, sono di lieve entità e vengono rimediati subito».
«Non vuole sedersi?», chiese alla fine, estrasse da un mucchio una sedia di canne e la offrì al viaggiatore; questi non poté rifiutarla. Ora sedeva al margine di una fossa, nella quale lanciò per un momento uno sguardo. Non era molto profonda. Da una parte della fossa, la terra scavata era ammucchiata come in una parete, mentre dall’altra parte c’era la macchina. «Non so se il comandante le ha spiegato il funzionamento della macchina», disse l’ufficiale. Il viaggiatore fece un gesto vago con la mano; l’ufficiale non chiese di meglio, perché così aveva l’occasione di spiegarlo lui stesso. «Questa macchina», disse, prendendo una biella e appoggiandovisi sopra, «è un’invenzione del nostro precedente comandante. Io ho collaborato fin dai primi tentativi, e ho preso parte a tutti i lavori fino al suo perfezionamento. Ma il merito dell’invenzione appartiene tutto a lui. Ha sentito parlare del nostro precedente comandante? No? Beh, non esagero dicendo che tutta l’organizzazione della colonia penale è opera sua. Noi, i suoi amici, sapevamo già al momento della sua morte che l’organizzazione della colonia è talmente coerente in se stessa che il suo successore, per quanti nuovi progetti avesse in testa, almeno per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare niente del vecchio ordinamento. E la nostra previsione si è rivelata giusta; il nuovo comandante ha dovuto riconoscerlo. Peccato che lei non abbia conosciuto il precedente comandante! – Ma», si interruppe l’ufficiale, «io chiacchiero, e qui davanti a noi c’è la macchina. Come può vedere, consiste di tre parti. Nel corso del tempo, queste parti hanno ricevuto dei nomi per dir così popolari. La parte inferiore si chiama il letto, quella superiore il disegnatore, e la parte qui nel mezzo, sospesa, si chiama l’erpice». «L’erpice?» chiese il viaggiatore. Non aveva ascoltato con grande attenzione, il sole cominciava a splendere troppo forte nella valle priva di ombra, era difficile raccogliere i pensieri. Tanto più ammirevole gli appariva l’ufficiale, che spiegava il suo argomento in una divisa stretta, da parata, appesantita dalle spalline e ornata di cordicelle, e che inoltre mentre parlava si dava da fare ad avvitare con un cacciavite. Il soldato sembrava in uno stato d’animo simile a quello del viaggiatore. Si era avvolto a entrambi i polsi le catene del condannato, con una mano si appoggiava alla sua arma, lasciava pendere la testa sulla nuca e non si interessava a niente. Il viaggiatore non se ne meravigliò, perché l’ufficiale parlava francese e certamente il francese non lo capivano né il soldato né il condannato. Però era tanto più notevole che il condannato nonostante tutto si sforzasse di seguire le spiegazioni dell’ufficiale. Con una specie di ostinazione assonnata volgeva lo sguardo sempre là dove l’ufficiale stava indicando, e quando questi fu interrotto da una domanda del viaggiatore anch’egli, come l’ufficiale, si volse a guardarlo.
«Sì, l’erpice», disse l’ufficiale, «il nome è adeguato. Gli aghi sono ordinati come in un erpice, e anche, nel complesso, lo strumento viene guidato come un erpice, anche se in un punto solo e con molta maggiore arte. Del resto, lo comprenderà subito. Il condannato viene collocato qui sul letto. – Voglio prima descrivere la macchina e solo in seguito far eseguire di persona la procedura. Così lei potrà seguirla meglio. Inoltre, uno dei denti nell’ingranaggio del disegnatore si è eccessivamente consumato; quando è in funzione fa un gran rumore; purtroppo è difficile qui procurarsi pezzi di ricambio. – Allora, qui c’è il letto, come ho detto. E’ completamente ricoperto con uno strato di ovatta; lo scopo di ciò risulterà chiaro in seguito. Il condannato viene collocato a pancia in giù su questa ovatta, naturalmente nudo; ecco le cinghie qui per le mani, qui per i piedi, qui per il collo, per immobilizzarlo. Qui al lato della testa dove l’uomo, come ho detto, viene posto con il viso, c’è questo piccolo morso di feltro, che può essere facilmente regolato in modo che si introduca con precisione nella bocca dell’uomo. Esso ha lo scopo di impedire le urla e il morso della propria lingua. Naturalmente l’uomo deve prendere per forza in bocca il feltro, altrimenti la cinghia gli spezza il collo.» «Questa è ovatta?» chiese il viaggiatore chinandosi in avanti. «Certo», disse l’ufficiale con un sorriso, «senta lei stesso.» Afferrò la mano del viaggiatore e la fece scorrere sul letto. «E’ un’ovatta preparata in modo particolare, per questo sembra così strana; del suo scopo parlerò più tardi.» Il viaggiatore era già un po’ conquistato dalla macchina; con una mano sugli occhi per proteggersi dal sole, la guardava verso l’alto. Era una costruzione imponente. Il letto e il disegnatore erano di analoghe dimensioni e sembravano due cassapanche scure. Il disegnatore era sollevato di circa due metri sopra il letto; entrambi erano collegati agli angoli com quattroaste di ottone, che quasi lanciavano raggi alla luce del sole. Fra le cassapanche, legato a un filo d’acciaio, oscillava l’erpice.
L’ufficiale quasi non aveva notato la precedente indifferenza del viaggiatore, mentre aveva subito intuito il suo attuale, incipiente interesse; si arrestò quindi nelle sue spiegazioni, per dar tempo al viaggiatore di contemplare indisturbato. Il condannato imitava il viaggiatore; siccome non poteva mettere la mano davanti agli occhi, li stringeva con lo sguardo libero verso l’alto.
«A questo punto quindi il condannato è sdraiato», disse il viaggiatore, appoggiò la schiena sulla sedia e incrociò le gambe.
«Sì», disse l’ufficiale, spinse un po’ indietro il berretto e si passò la mano sul viso caldo, «ora ascolti! Sia il letto che il disegnatore sono forniti di batterie elettriche autonome; il letto le utilizza per se stesso, il disegnatore per l’erpice. Appena l’uomo è assicurato alle cinghie, il letto si mette in movimento. Con minuscole e velocissime oscillazioni vibra contemporaneamente sia di lato che in su e in gù. Forse lei ha visto macchine simili nelle case di cura; ma nel nostro letto tutti i movimenti sono accuratamente calcolati; devono cioè essere accordati con precisione sui movimenti dell’erpice. E a questo erpice è affidata l’esecuzione vera e propria della condanna.»
«E cosa dice la condanna?» chiese il viaggiatore. «Non lo sa?» disse stupito l’ufficiale, e si morse le labbra: «Mi perdoni se forse le mie spiegazioni sono disordinate; le chiedo scusa. In effetti, prima le spiegazioni era solito darle il comandante; ma il nuovo comandante si è sottratto a questo onorevole dovere; ma che una visita così elevata» - il viaggiatore cercò di schermirsi con entrambe le mani di fronte al complimento, ma l’ufficiale insistette sulla sua formula - «che una visita così elevata venga tenuta all’oscuro persino della forma della nostra condanna, questa è poi una novità che…». Aveva sulla labbra un’imprecazione, ma si controllò e disse soltanto: «Non sono stato informato, non è colpa mia. D’altronde è anche vero che sono io il più adatto a chiarire le nostre forme di verdetto, perché qui» - e si batté sulla tasca del petto - «io conservo i relativi disegni del precedente comandante.»
«Disegni del comandante in persona?» chiese il viaggiatore: «Faceva dunque tutto lui? Era soldato, giudice, costruttore, chimico, disegnatore?»
«Proprio così», disse l’ufficiale con un cenno del capo, e con uno sguardo fisso e pensoso. Poi si controllò le mani, che non gli parvero pulite a sufficienza per prendere i disegni; andò quindi al secchio e le lavò ancora una volta. Poi estrasse una piccola cartella di cuoio e disse: «La nostra condanna non suona severa. La regola trasgredita viene scritta con l’erpice sul corpo del condannato. A questo condannato per esempio» - l’ufficiale accennò all’uomo - «verrà scritto sul corpo: Onora il tuo superiore!»
Il viaggiatore guardò di sfuggita l’uomo; da quando l’ufficiale lo aveva indicato, teneva la testa abbassata e sembrava tendere l’udito con tutte le sue forze per venire a sapere qualcosa. Ma i movimenti delle sue labbra tumide e compresse mostravano chiaramente che non riusciva a capire nulla. Il viaggiatore avrebbe chiesto volentieri ancora qualcosa, ma alla vista dell’uomo chiese solamente: «Sa della sua condanna?» «No», rispose l’ufficiale, e voleva subito continuare con le sue spiegazioni, ma il viaggiatore lo interruppe: «Non sa della sua condanna?» «No», ripeté l’ufficiale, e si fermò un attimo, come per chiedere al viaggiatore una migliore formulazione della sua domanda, poi disse: «Sarebbe inutile comunicarglielo. Lo verrà a sapere sul suo stesso corpo.» Il viaggiatore voleva tacere, ma poi si rese conto di come il condannato dirigeva lo sguardo su di lui: sembrava chiedere se potesse approvare la procedura che gli era stata descritta. Perciò il viaggiatore, che si era già appoggiato sulla schiena, si piegò di nuovo in avanti e domandò ancora: «Ma che in generale è stato condannato, almeno questo lo sa?» «Nemmeno questo», disse l’ufficiale sorridendo al viaggiatore, come se ora si aspettasse da lui altre strane esternazioni. «No», disse il viaggiatore passandosi una mano sulla fronte, «questo significa allora che l’uomo nemmeno adesso sa come è stata accolta la sua difesa?» «Non ha avuto nessuna occasione di difendersi», disse l’ufficiale guardando di lato, come se parlasse a se stesso e non volesse confondere il viaggiatore con il racconto di cose che per lui stesso erano ovvie. «Deve per forza aver avuto la possibilità di difendersi», disse il viaggiatore alzandosi dalla sedia.
L’ufficiale si accorse che vi era il pericolo di essere interrotti a lungo nella spiegazione della macchina; si avvicinò perciò al viaggiatore, lo prese sottobraccio, mostrò con la mano il condannato, il quale, ora che l’attenzione su di lui era divenuta così esplicita, si mise energicamente sull’attenti – anche il soldato diede uno strattone alle catene – e disse: «Le cose stanno in questi termini. Io sono incaricato di fare il giudice in questa colonia penale. Nonostante la mia giovinezza. Questo perché sono stato al fianco del precedente comandante in tutte le faccende penali, e sono quello che conosce meglio la macchina. Il principio base delle mie decisioni è: la colpa è sempre indubbia. Può darsi che altri tribunali non seguano questo principio, perché sono costituiti da più persone e inoltre hanno altri tribunali, più alti, sopra di loro. Ma questo non è il mio caso, o per lo meno non lo era con il precedente comandante. Il nuovo, a dire il vero, si è già divertito a mettere il naso nel mio tribunale, ma finora mi è riuscito di tenerlo lontano, e mi riuscirà anche in futuro. – Lei vuole che le chiarisca questo caso; è un caso molto semplice, così come tutti gli altri. Un capitano stamane ha fatto rapporto che quest’uomo, destinatogli come servitore e che dorme davanti alla sua porta, ha dormito per tutto il tempo di servizio. Il servitore ha il dovere di alzarsi ogni ora e fare il saluto militare davanti alla porta del capitano. Non è certo un dovere pesante, ed è anche necessario per rimanere fresco, sia per la guardia che per il servizio. La notte scorsa il capitano voleva controllare se l’uomo faceva il suo dovere. Quando sono suonate le due, ha aperto la porta e lo ha trovato che dormiva accucciato. Allora ha preso il frustino e lo ha colpito sul volto. Invece di alzarsi e chiedere scusa, quest’uomo ha preso il suo padrone per le gambe, e scuotendolo gli gridava: ‘Butta la frusta, o ti mangio vivo.’ – Questi sono i fatti. Il capitano è venuto da me un’ora fa, io ho registrato la sua relazione e, come allegato, anche la condanna. Poi ho fatto incatenare l’uomo. E’ stato tutto molto semplice. Se avessi prima convocato e interrogato l’uomo, ne sarebbe nata una confusione. Avrebbe mentito, e se io fossi riuscito a confutare le sue menzogne, le avrebbe sostituite con altre, e così via. Invece ora lo tengo in pugno e non mi scappa più. – E’ tutto chiaro ora? Ma il tempo passa, l’esecuzione avrebbe dovuto essere già cominciata, e io non ho ancora finito di spiegare come funziona la macchina.» Costrinse il viaggiatore a sedersi di nuovo, poi si avvicinò di nuovo alla macchina e cominciò: «Come può vedere, l’erpice corrisponde alla forma dell’uomo: questo è l’erpice per il busto, questi sono gli erpici per le gambe. Alla testa è destinato solo questo piccolo puntale. Le risulta chiaro?» Si inchinò amichevole verso il viaggiatore, pronto alle più esaurienti spiegazioni.
Il viaggiatore guardò l’erpice con la fronte aggrottata. Le informazioni sulla procedura di quel tribunale non lo avevano soddisfatto. Doveva sempre ripetersi che in fin dei conti questa era una colonia penale, che dunque qui erano necessarie regole speciali e che bisognava procedere in modo marziale fino alla fine. Tuttavia riponeva speranze sul nuovo comandante, il quale evidentemente, sia pure con lentezza, intendeva introdurre una nuova procedura, che non poteva entrare nella testa limitata di questo ufficiale. Seguendo il corso di questi pensieri, domandò: «Il comandante presenzierà all’esecuzione?» «Non è sicuro», disse l’ufficiale, penosamente colpito da questa domanda diretta, e la sua aria amichevole scomparve: «Proprio per questo dobbiamo sbrigarci. Per quanto mi spiaccia, dovrò addirittura abbreviare le mie spiegazioni. Ma domani, quando la macchina sarà di nuovo pulita – il suo unico difetto è quello di sporcarsi molto – le esporrò i dettagli. Ecco dunque l’essenziale. – Quando l’uomo è sdraiato sul letto e questo comincia a scuotersi, l’erpice si abbassa sul corpo. Esso si posiziona da solo in modo da toccare il corpo solo con le punte; una volta completata la procedura, questo filo d’acciaio si tende come una sbarra. E ora il gioco comincia. Un profano non vede differenze esteriori fra punizione e punizione. L’erpice sembra lavorare con uniformità. Vibrando, affonda le sue punte nel corpo, che a sua volta sussulta per i movimenti del letto. Per rendere possibile a chiunque controllare l’esecuzione della condanna, l’erpice è stato fatto in vetro. Assicurare al vetro gli aghi ha comportato alcune difficoltà tecniche, ma dopo molti tentativi ci siamo riusciti. Non ci siamo risparmiati certo gli sforzi. E ora chiunque può vedere attraverso il vetro come si realizza la scritta sul corpo. Non vuole avvicinarsi e vedere meglio gli aghi?»
Il viaggiatore si alzò lentamente, si avvicinò e si curvò sopra l’erpice. «Vede», disse l’ufficiale, «due tipi di aghi in disposizione multipla. Ogni ago lungo ha vicino a sé uno corto. Quello lungo scrive, mentre quello corto spruzza acqua, per lavare via il sangue e mantenere sempre chiara la scritta. L’acqua insanguinata viene poi incanalata qui in piccoli condotti, i quali confluiscono in un condotto più grande il cui scarico finisce nella fossa.» L’ufficiale indicò precisamente con la mano la strada che l’acqua insanguinata doveva percorrere. Quando, per rendere il tutto più comprensibile, l’ufficiale afferrò con entrambe le mani lo sbocco del tubo di scarico, il viaggiatore alzò la testa e, tastando dietro di sé con la mano, voleva tornare alla sua sedia. Allora si accorse con spavento che anche il condannato aveva seguito come lui l’invito dell’ufficiale a vedere da vicino l’organizzazione dell’erpice. Aveva tirato un po’ per la catena il soldato addormentato, e si era piegato sul vetro. Lo si vedeva cercare con sguardi dubbiosi ciò che i due signori avevano osservato, ma, poiché gli mancava la spiegazione, non gli poteva riuscire. Si chinava di qua e di là, e sempre di nuovo faceva scorrere lo sguardo sul vetro. Il viaggiatore voleva spingerlo indietro, perché ciò che faceva sarebbe stato con ogni probabilità punito. Ma l’ufficiale trattenne il viaggiatore con una mano, con l’altra prese dal muro una zolla di terra e la lanciò sul soldato. Questi aprì d’un colpo gli occhi, vide ciò che il condannato aveva osato fare, lasciò cadere l’arma, picchiò i tacchi per terra, strattonò indietro il condannato facendolo subito cadere, e poi si mise a guardare dall’alto come quello si voltava facendo tintinnare le catene. «Tiralo su!» gridò l’ufficiale, osservando che il viaggiatore veniva eccessivamente distratto dal condannato. Il viaggiatore si curvò persino un poco oltre l’erpice senza considerarlo, preoccupato solo di stabilire cosa stesse succedendo al condannato. «Trattalo con cura!» gridò ancora l’ufficiale. Corse intorno alla macchina, afferrò di persona il condannato sotto le ascelle e con l’aiuto del soldato lo mise in piedi, benché scivolasse spesso con i piedi.
«Ora so tutto», disse il viaggiatore quando l’ufficiale tornò da lui. «Tranne l’essenziale», disse questi, prese il viaggiatore per il braccio e indicò verso l’alto: «Là nel disegnatore c’è l’ingranaggio che determina il movimento dell’erpice, e questo ingranaggio viene programmato in base al disegno che esprime la condanna. Io uso ancora i disegni del precedente comandante. Eccoli,» - estrasse alcuni fogli dalla cartella di cuoio - «ma purtroppo non posso darglieli in mano, sono la cosa più cara che possiedo. Si sieda, glieli mostrerò da questa distanza, potrà vedere tutto per bene.» Mostrò il primo foglio. Il viaggiatore avrebbe detto volentieri qualche parola di apprezzamento, ma vide solo delle linee labirintiche che si incrociavano molte volte, e che coprivano il foglio in maniera così fitta che solo con fatica si potevano riconoscere gli spazi bianchi interposti. «Legga», disse l’ufficiale. «Non ci riesco», disse il viaggiatore. «Ma è chiaro», disse l’ufficiale. «E’ molto artistico», disse evasivo il viaggiatore, «ma non riesco a decifrarlo.» «Già», disse l’ufficiale, rise e mise di nuovo via la cartella, «non è calligrafia per bambini a scuola. Bisogna leggervi a lungo. Alla fine, certamente anche lei potrebbe riconoscere tutto. Naturalmente non deve essere una scrittura semplice; non deve uccidere subito, ma solo in un tempo medio di dodici ore; il punto di svolta è calcolato per la sesta ora. Perciò, la scrittura vera e propria deve essere circondata da molti, molti ornamenti; la vera scrittura circonda il corpo solo in una cintura sottile; il resto del corpo è destinato agli ornamenti. Può apprezzare ora il lavoro dell’erpice e dell’intera macchina? – Guardi dunque!» Saltò su una scala, girò una ruota ed esclamò verso il basso: «Faccia attenzione, si faccia da parte», e tutto entrò in movimento. Non fosse stato per il cigolìo della ruota, sarebbe stato magnifico. Come sorpreso e disturbato da questa ruota, l’ufficiale la minacciò con il pugno, poi allargò le braccia in direzione del viaggiatore come per chiedere scusa, e scese giù velocemente per osservare da sotto il funzionamento della macchina. Ancora c’era qualcosa che non era in ordine, e di cui solo lui si accorgeva; di nuovo si arrampicò su, infilò entrambe le mani dentro il disegnatore, poi, per scendere più velocemente, anziché usare la scala scivolò giù lungo una sbarra e infine con la massima tensione gridò, per farsi sentire in quel rumore, dentro l’orecchio del viaggiatore: «Capisce la procedura? L’erpice comincia a scrivere; quando la prima stesura sulla schiena dell’uomo è finita, lo strato di ovatta ruota e gira il corpo lentamente su un lato, per dare nuovo spazio all’erpice. Nel frattempo i luoghi scritti con le ferite vengono a contatto con l’ovatta, la quale grazie a una speciale preparazione arresta immediatamente il sanguinamento e predispone a un nuovo approfondimento della scrittura. Qui poi i denti sull’orlo dell’erpice alla successiva rotazione del corpo strappano l’ovatta dalle ferite, la gettano nella fossa, e l’erpice ricomincia a lavorare. Così esso può scrivere per tutte le dodici ore. Durante le prime sei ore il condannato è vivo più o meno come prima, solo prova dolore. Dopo due ore il feltro viene rimosso, perché l’uomo non ha più la forza di gridare. Qui dalla parte della testa, in questa ciotola scaldata elettricamente, si mette della pappa calda di riso, dalla quale l’uomo, se ne ha voglia, può prendere quel che riesce a raggiungere con la lingua. Nessuno rinuncia a questa possibilità. Non ho mai visto nessuno rinunciarvi, e la mia esperienza è grande. Solo intorno alla sesta ora il condannato perde il gusto di mangiare. Allora di solito mi inginocchio qui e osservo il fenomeno. E’ raro che l’uomo ingoi l’ultimo boccone, di solito si limita a girarlo in bocca e poi a sputarlo nella fossa. Allora devo ritrarmi, altrimenti mi arriva in faccia. Ma come diventa silenzioso l’uomo intorno alla sesta ora! Anche il più stupido raggiunge la comprensione. E’ una cosa che comincia dagli occhi. Da lì si diffonde a tutto il resto. E’ uno spettacolo che potrebbe sedurre qualcuno a mettersi anche lui sotto l’erpice. Non succede nient’altro, semplicemente l’uomo comincia a decifrare la scrittura, appuntisce le labbra come se fosse in ascolto. Come ha visto, non è facile decifrare la scrittura con gli occhi; ma il nostro uomo la decifra con le proprie ferite. Per la verità, è un lavoro lungo: impiega sei ore per giungere a termine. Ma alla fine l’erpice lo trafigge completamente e lo getta nella fossa, sbattendolo sull’acqua insanguinata e sull’ovatta. Allora il giudizio è compiuto, e io e il soldato lo copriamo di terra.»

Il viaggiatore aveva prestato orecchio all’ufficiale, e con le mani nelle tasche della giacca guardava il lavoro della macchina. Anche il condannato lo guardava, ma senza capire. Si piegò un po’ e seguiva gli aghi oscillanti, quando il soldato, a un cenno dell’ufficiale, gli tagliò da dietro con un coltello camicia e pantaloni, così da farglieli cadere; il condannato cercò di afferrarli per coprire la sua nudità, ma il soldato lo tirò su in alto e gli scrollò di dosso gli ultimi stracci. L’ufficiale spense la macchina, e nel silenzio che era ora subentrato il condannato fu collocato sotto l’erpice. Le catene furono rimosse, e al loro posto furono allacciate le cinghie; in un primo momento, questo sembrava un alleggerimento per il condannato. E ora l’erpice si abbassò ancora di un pezzo, perché era un uomo magro. Quando le punte lo toccarono, un brivido gli corse sulla pelle; mentre il soldato era occupato sulla sua mano destra, distese la sinistra senza sapere dove; ma era la direzione in cui si trovava il viaggiatore. L’ufficiale guardava di lato ma senza interruzione il viaggiatore, come se cercasse di leggergli in viso l’impressione che risvegliava in lui l’esecuzione, sulla quale l’ufficiale gli aveva dato almeno qualche superficiale spiegazione.
La cinghia destinata al polso si spezzò; forse il soldato l’aveva stretta troppo. L’ufficiale dovette dare una mano, il soldato gli mostrò il pezzo di cinghia strappato. L’ufficiale lo oltrepassò, e con il viso rivolto al viaggiatore disse: «La macchina è molto complessa, è inevitabile che qua o là qualcosa si strappi o si rompa; ma non per questo bisogna lasciarsi fuorviare nel giudizio generale. Del resto per la cinghia abbiamo un ricambio pronto: userò una catena; anche se con questo ne risentirà la delicatezza dello slancio nel braccio destro.» E mentre disponeva la catena disse ancora: «I fondi per la manutenzione della macchina sono ora molto limitati. Sotto il precedente comandante, esisteva una cassa apposita, alla quale potevo accedere liberamente. C’era qui un magazzino dove si conservavano tutti i pezzi di ricambio. Si trattava di uno spreco, intendo in quel periodo, non ora però, come sostiene il nuovo comandante, per il quale tutte le scuse sono buone per osteggiare i vecchi ordinamenti. Ora la cassa per le macchine la gestisce da solo, e se chiedo una cinghia nuova pretende quella rotta come prova, e la nuova viene solo dopo dieci giorni, è di tipo più scadente e non serve a molto. Ma nessuno si preoccupa di come faccio io nel frattempo a mandare avanti la macchina senza cinghia.»
Il viaggiatore rifletteva: è sempre inopportuno intervenire in modo decisivo in rapporti che ci sono estranei. Lui non era cittadino né della colonia penale, né dello stato cui essa apparteneva. Se avesse voluto condannare o addirittura evitare questa esecuzione, avrebbero potuto dirgli: sei uno straniero, stai zitto. A questo lui non avrebbe potuto replicare, anzi avrebbe dovuto aggiungere di non capirsi lui stesso, dato che viaggiava solo con l’intenzione di osservare, e non certo con quella di modificare i sistemi penali stranieri. Certo, a dire il vero la situazione qui era seducente. L’ingiustizia della procedura e la disumanità dell’esecuzione erano indubbie. Nessuno poteva ipotizzare un qualche interesse del viaggiatore, perché il condannato era per lui un estraneo, non era un suo compatriota e certamente non era un uomo che ispirasse compassione. Il viaggiatore stesso aveva in suo possesso raccomandazioni di alte autorità, era stato ricevuto qui con grande cortesia, e il fatto stesso che fosse stato invitato a questa esecuzione poteva persino far pensare che si desiderava avere un suo giudizio sulla procedura. Ciò era tanto più verosimile in quanto il comandante, come aveva appreso ora in modo più che evidente, non era un entusiasta della metodica, e si comportava in modo quasi ostile nei confronti dell’ufficiale.
In quel momento, il viaggiatore udì un grido di rabbia dell’ufficiale. Non senza fatica aveva appena infilato il morso di feltro nella bocca del condannato, quando questi in un irresistibile conato chiuse gli occhi e cominciò a vomitare. L’ufficiale lo strappò velocemente sollevandolo dal morso e voleva girargli le testa verso la fossa; ma era troppo tardi, il materiale disgustoso colava ormai giù dalla macchina. «Tutta colpa del comandante!» gridò l’ufficiale, e fuori di sé si mise ad agitare le sbarre di ottone. «La macchina mi si sporca come una stalla.» Con mani tremanti indicò al viaggiatore cosa era successo. «Per ore e ore ho cercato di far capire al comandante che non bisogna più dare da mangiare al condannato per un giorno prima dell’esecuzione. Ma questa nuova direzione è molle, e la pensa diversamente. Prima che venga condotto via, le signore che stanno intorno al comandante riempiono la gola al condannato di dolciumi. Per tutta la vita si è nutrito di pesci puzzolenti e ora deve mangiare dolciumi! Ma sarebbe anche possibile, non avrei niente da obiettare, ma allora che mi si dia un feltro nuovo, sono tre mesi che lo chiedo. Come è possibile mettere in bocca senza nausea questo feltro che più di cento uomini hanno succhiato e morso prima di morire?»
Il condannato aveva gettato indietro la testa e sembrava in pace, mentre con la sua camicia il soldato era occupato a pulire la macchina. L’ufficiale si avvicinò al viaggiatore, il quale come per un presentimento fece un passo indietro; ma l’ufficiale lo prese per mano e lo tirò da parte. «Voglio dirle alcune parole in confidenza», disse, «posso?» «Ma certo», rispose il viaggiatore, e si dispose con gli occhi abbassati ad ascoltare.
«Questa procedura e questo tipo di esecuzione, che lei ha oggi l’occasione di ammirare, attualmente non hanno più nella nostra colonia nemmeno un aperto sostenitore. Io ne sono l’unico rappresentante, e nel contempo anche l’unico rappresentante dell’eredità del vecchio comandante. Non posso neppure pensare che la procedura venga ulteriormente smantellata, e uso tutte le mie forze per conservare ciò che ancora esiste. Quando era vivo il vecchio comandante, la colonia era piena di suoi sostenitori; io possiedo almeno in parte la capacità di convinzione del vecchio comandante, ma mi manca completamente il suo potere; di conseguenza, i sostenitori se la sono svignata, ce ne sono ancora molti, ma nessuno lo confessa apertamente. Se lei oggi, giorno di esecuzioni, va nella sala da tè a sentire cosa si dice in giro, sentirà forse solo delle frasi ambigue. Questi sono veri sostenitori della causa, ma per me del tutto inutilizzabili, dato il nuovo comandante e le sue attuali opinioni. E ora le chiedo: è forse giusto che per colpa di questo comandante e delle donne che lo influenzano, questa, che è l’opera di una vita» - e indicò la macchina - «debba andare in rovina? Lo si può permettere? Anche se, da straniero, si passano solo un paio di giorni nella nostra isola? Ma non c’è tempo da perdere, stanno preparando qualcosa contro il mio diritto al giudizio; negli uffici del comandante si fanno già riunioni alle quali io non sono invitato; anche la sua visita odierna mi sembra significativa per l’intera situazione; sono dei vigliacchi, e mandano avanti lei, uno straniero. – Com’era diversa l’esecuzione in altri tempi! Già il giorno prima del supplizio tutta la valle era piena di gente; tutti venivano solo per vedere; la mattina presto appariva il comandante con le sue dame; delle fanfare svegliavano l’intero accampamento; io comunicavo ufficialmente che tutto era pronto; la società – nessun alto funzionario poteva mancare – si disponeva intorno alla macchina; questo mucchio di sedie di canna è un misero resto di quell’epoca. La macchina splendeva, appena lucidata, quasi per ogni esecuzione mi procuravo nuovi pezzi di ricambio. Davanti a centinaia di occhi – fin lassù sulle alture, tutti gli spettatori stavano in punta di piedi – il condannato veniva posto sotto l’erpice dal comandante in persona. Ciò che ora può essere fatto da un comune soldato, era a quei tempi compito mio, del presidente del tribunale, e lo calcolavo a mio onore. E allora cominciava l’esecuzione! Non c’erano stonature a disturbare il lavoro della macchina. Qualcuno non guardava nemmeno più, ma rimaneva nella sabbia ad occhi chiusi; tutti sapevano: ora si compie la giustizia. Nel silenzio si sentiva solo il lamento del condannato, attutito dal feltro. Oggi la macchina non è più in grado di strappare al condannato un lamento più forte di quanto il feltro riesca a soffocare; a quei tempi invece gli aghi per la scrittura spruzzavano un liquido caustico che oggi non può più essere utilizzato. Ecco, e poi veniva la sesta ora! Era impossibile venire incontro a tutte le richieste di contemplare lo spettacolo da vicino. Nella sua lungimiranza, il comandante aveva ordinato che prima di tutto dovessero essere privilegiati i bambini; per via del mio incarico io dovevo sempre essere in piedi vicino; spesso me ne stavo lì con due bimbi piccoli in braccio, uno a destra e uno a sinistra. Ah, come si accoglieva l’espressione trasfigurata dal volto martoriato, come spingevamo le guance nello splendore di questa giustizia, finalmente raggiunta e già declinante! Che tempi, amico mio!» Evidentemente l’ufficiale aveva dimenticato chi gli stava davanti; aveva abbracciato il viaggiatore, poggiandogli il capo sulla spalla. Il viaggiatore era in grande imbarazzo, e guardava al di là dell’ufficiale con impazienza. Il soldato aveva finito il suo lavoro di pulizia, e ora da un barattolo aveva versato della pappa di riso nella ciotola. Appena il condannato, che sembrava essersi completamente ripreso, se ne accorse, cominciò a leccare la pappa con la lingua. Il soldato lo spingeva continuamente indietro, perché naturalmente la pappa era destinata a un momento successivo, ma era in ogni caso già indecente il fatto che il soldato allungasse le mani sporche e ne mangiasse lui stesso davanti al condannato affamato.
L’ufficiale tornò rapidamente in se stesso. «Non volevo commuoverla», disse, «so bene che è impossibile oggi far capire la grandezza di quei tempi. Del resto, la macchina lavora ancora, ed è efficace per se stessa. Lo è anche se c’è solo lei in questa valle. E il cadavere ancor oggi alla fine cade nella fossa con un volo incomprensibilmente morbido, anche se non ci sono più, come allora, centinaia di persone raccolte come mosche intorno alla fossa. A quesi tempi abbiamo dovuto erigere intorno alla fossa una solida ringhiera, che è stata strappata da tempo.»
Il viaggiatore voleva sottrarre il suo viso all’ufficiale, e si guardò intorno senza meta. L’ufficiale pensò che contemplasse la desolazione della valle; perciò gli afferrò le mani, gli girò intorno per coglierne lo sguardo e domandò: «Lo vede, che scandalo?»
Ma il viaggiatore tacque. Per un poco l’ufficiale lo lasciò; a gambe larghe, le mani sui fianchi, tacque e guardò il terreno. Poi sorrise incoraggiante al viaggiatore e disse: «Ieri le stavo vicino quando il comandante l’ha invitata. Ho sentito l’invito. Io conosco il comandante. Ho capito subito a cosa mirava con questo invito. Anche se il suo potere sarebbe sufficiente a procedere contro di me, tuttavia non osa, ma vuole espormi al suo giudizio, al giudizio di un illustre straniero. Un calcolo accurato, il suo; lei è sull’isola da due giorni, non conosce il vecchio comandante e il suo modo di pensare. Lei è impregnato di concetti europei, forse è un avversario accanito della pena di morte in generale e di una simile esecuzione meccanica in particolare, e oltre a ciò lei vede come il supplizio si svolga senza partecipazione pubblica, in modo triste, su una macchina già un po’ danneggiata – non è forse molto probabile (così ragiona il comandante) che considerando tutto ciò lei consideri non giusta la mia procedura? E se lei non la considera giusta (parlo sempre secondo il pensiero del comandante), lei non lo passerà sotto silenzio, perché si fida certamente delle sue provate convinzioni. Certamente lei ha visto e ha imparato ad apprezzare molte stranezze di molti popoli, e dunque forse è probabile che lei non si esprima contro la procedura con tutta l’energia di cui farebbe uso nella sua patria. Ma non è di questo che ha bisogno il comandante. Basta una parola fuggente, semplicemente una parola poco meditata. Non è neppure necessario che corrisponda alla sua convinzione, se solo viene incontro, almeno in apparenza, al desiderio del comandante. Di questo sono sicuro, che la interrogherà con molta astuzia. E le sue dame gli staranno sedute intorno, con le orecchie tese; lei dirà, per esempio: ‘Da noi la procedura penale è diversa’, oppure ‘Da noi il condannato viene interrogato prima del verdetto’, oppure ‘Da noi il condannato è informato del verdetto’, oppure ‘Da noi ci sono anche altre pene oltre alla pena di morte’, oppure ‘Da noi la tortura si è praticata solo nel medioevo’. Tutte queste sono osservazioni persino giuste, e le sembreranno ovvie e innocenti, tali da non comportare nulla per la mia procedura. Ma come le prenderà il comandante? Già lo vedo, il bravo comandante, che allontana subito da sé la sedia e si affretta al balcone, vedo le sue dame che gli corrono dietro in frotta, sento la sua voce – che le sue dame chiamano una voce di tuono – ecco, e dice: ‘Un grande ricercatore dell’occidente, destinato a valutare le procedure penali in tutti i paesi, ha appena dichiarato che la nostra vecchia procedura è disumana. Dopo il giudizio di una simile personalità non mi è naturalmente più possibile tollerare questa procedura. A partire da oggi perciò ordino che – eccetera. Lei vorrebbe intervenire, dato che non ha detto ciò che lui annuncia, lei non ha definito disumana la mia procedura, al contrario, secondo la sua profonda opinione lei la ritiene la più umana e la più dignitosa. Inoltre prova anche ammirazione per la macchina – ma è troppo tardi; non riesce nemmeno ad arrivare al balcone, che è pieno di dame; vuole farsi prestare attenzione; vuole gridare; ma una mano femminile le chiude la bocca – e io e l’opera del vecchio comandante siamo perduti.»
Il viaggiatore dovette reprimere un sorriso; così semplice era dunque il compito che aveva creduto tanto difficile. Disse, evasivo: «Lei sopravvaluta il mio influsso; il comandante ha letto le mie credenziali, sa che non sono un conoscitore di procedure penali. Se dovessi esprimere un parere, sarebbe il parere di un privato, niente affatto più significativo del parere di chiunque altro, e in ogni caso molto meno significativo del parere del comandante, il quale, come mi sembra, ha i più ampi diritti su questa colonia penale. Se la sua opinione su questa procedura è, come lei dice, così definita, allora temo che sia giunta comunque la sua ultima ora, anche senza il mio modesto contributo».
Aveva capito ora, l’ufficiale? No, non aveva ancora capito. Scosse vivacemente il capo, lanciò dietro di sé uno sguardo al condannato e al soldato, che trasalirono e smisero di mangiare il riso, si avvicinò stretto al viaggiatore, lo osservò non in viso, ma da qualche parte sulla giacca e disse, più a bassa voce di prima: «Lei non conosce il comandante; lei è in un certo senso innocuo – mi perdoni l’espressione – nei confronti suoi e di noi tutti; il suo influsso, mi creda, non potrebbe essere stimato di più. Sono stato ben felice quando ho sentito che solo lei avrebbe assistito all’esecuzione. Questa disposizione del comandante era rivolta contro di me, ma ora io saprò volgerla a mio favore. Al riparo da false insinuazione e sguardi sprezzanti – che non si sarebbero potuti evitare se la partecipazione al supplizio fosse stata maggiore – lei ha ascoltato le mie spiegazioni, ha visto la macchina e ora è sul punto di assistere all’esecuzione. Certamente il suo giudizio è ormai saldo; ma se ci fossero ancora delle incertezze, sarabbo fugate dalla vista dell’esecuzione. E ora, questa è la richiesta che le faccio: mi dia una mano nei confronti del comandante!»
Il viaggiatore non lo lasciò parlare oltre. «Come potrei farlo», esclamò, «è del tutto impossibile. Posso venirle in aiuto tanto poco quanto posso farle danno.»
«Invece lei può», disse l’ufficiale. Il viaggiatore vide con un certo spavento che l’ufficiale stringeva i pugni. «Invece lei può», ripeté l’ufficiale in modo ancor più pressante. «Io ho un piano, che deve riuscire per forza. So per certo che basterà. Ma anche ammesso che lei avesse ragione, non è forse necessario, per preservare questa procedura, tentare tutto, anche ciò che forse non sarà sufficiente? Ascolti dunque il mio piano. Affinché riesca, è necessario prima di tutto che lei oggi nella colonia sia il più possibile riservato nei suoi giudizi sulla procedura. Se non le fanno domande esplicite, lei non deve in alcun modo esprimersi; e le sue affermazioni devono essere brevi e indefinite; bisogna che si noti che le torna difficile parlare sull’argomento, che lei è amareggiato, e che, se dovesse parlare apertamente, dovrebbe uscirsene in imprecazioni. Io non pretendo che lei menta; in nessun modo; lei deve solo rispondere brevemente, qualcosa del tipo: ‘Sì, ho visto l’esecuzione’, oppure ‘Sì, ho udito tutte le spiegazioni’. Solo questo e nient’altro. Per l’amarezza che le si dovrà leggere in volto, ci sono motivi di sicuro sufficienti, anche se non nel senso del comandante. Lui naturalmente equivocherà il tutto, e lo interpreterà a modo suo. Proprio su questo si fonda il mio piano. Domani, nella sede del comando, avrà luogo una grande riunione di tutti gli alti funzionari dell’amministrazione, sotto la direzione del comandante. Questi naturalmente ha saputo trasformare tali sedute in uno spettacolo. Si è costruita una galleria, sempre piena di osservatori. Io sono obbligato a partecipare ai consigli, ma tremo per la ripugnanza. Ora, lei certamente sarà invitato in ogni caso alla riunione; se lei oggi vorrà comportarsi in conformità al mio piano, l’invito diventerà una richiesta implorante. Ma se per una causa imperscrutabile lei non dovesse essere invitato, allora dovrebbe richiedere l’invito; nel qual caso non vi è dubbio che lo otterrebbe. Quindi, lei domani siederà insieme con le dame nella loggia del comandante. Lui spesso, guardando in su, si assicurerà che lei ci sia. Dopo diversi argomenti di discussione, indifferenti, ridicoli, pensati solo per l’uditorio – per lo più questioni di edilizia portuale, sempre questa edilizia portuale! – verrà in discussione anche la procedura penale. Se l’argomento non viene proposto dal comandante, o non viene proposto abbastanza presto, mi occuperò io che ciò accada. Mi alzerò in piedi e darò l’annuncio dell’esecuzione odierna. Molto brevemente, solo l’annuncio. Un tale annuncio non è cosa usuale in quella sede, ma io lo farò lo stesso. Il comandante mi ringrazierà con un sorriso amichevole, come sempre, e non potrà trattenersi dallo sfruttare l’occasione. ‘L’esecuzione’, così dirà all’incirca, ‘è stata appena annunciata. A questo annuncio vorrei solo aggiungere che proprio a questa esecuzione ha assistito il grande studioso che, come tutti sapete, ci fa lo straordinario onore di visitare la nostra colonia. Anche la nostra riunione odierna acquista maggior significato grazie alla sua presenza. Non vogliamo dunque chiedere a questo grande studioso come giudica l’esecuzione secondo la vecchia usanza, e la procedura che la precede?’ Naturalmente ci saranno ovunque applausi di approvazione, un generale consenso, e io sarò il più entusiasta. Il comandante si inchinerà davanti a lei dicendo: ‘Allora, a nome di tutti, le pongo io questa domanda’. Allora lei si avvicinerà alla ringhiera. Faccia attenzione che le mani siano visibili a tutti, altrimenti le signore gliele prenderanno per giocare con le sue dita. – E ora, finalmente, lei prenderà la parola. Non so come potrò sopportare la tensione delle ore che mi separano da quel momento. Lei non deve porsi alcun limite nel suo discorso, renda rumorosa la verità, si pieghi sulla ringhiera, ruggisca, sì, ruggisca la sua opinione, la sua incrollabile opinione al comandante. Ma forse lei non vuole farlo, non corrisponde al suo carattere, forse nella sua patria in queste situazioni ci si comporta in modo diverso, ma anche questo è giusto, anche questo basterà perfettamente, non si alzi neppure, dica solo un paio di parole, le sussurri, perché le sentano i funzionari sotto di lei, questo basterà. Non c’è nemmeno bisogno che lei parli della scarsa partecipazione al supplizio, della ruota cigolante, della cinghia strappata, del feltro ripugnante, no, di tutto questo mi occupo io, e mi creda, se il mio discorso non lo caccerà dalla stanza, almeno lo costringerà in ginocchio, a dire: vecchio comandante, io mi inchino davanti a te. – Questo è il mio piano: vuole aiutarmi a portarlo a compimento? Ma è naturale che lei voglia, anzi di più, lei deve.» E l’ufficiale afferrò il viaggiatore per entrambe le braccia e respirando pesante lo osservò in viso. Le ultime frasi le aveva urlate talmente forte, che persino il soldato e il condannato gli avevano rivolto la loro attenzione; anche se non potevano capire nulla, smisero di mangiare e masticando passarono a guardare il viaggiatore.
Fin dall’inizio, non c’era dubbio per il viaggiatore su quale risposta dovesse dare; aveva visto troppe cose nella sua vita per esitare in questo caso; era sostanzialmente sincero e non aveva alcun timore. Tuttavia ora, sotto gli occhi del soldato e del condannato, esitò per un attimo. Infine però disse, come doveva: «No.» L’ufficiale strizzò gli occhi diverse volte, ma non smise di guardarlo. «Vuole una spiegazione?» chiese il viaggiatore. L’ufficiale, in silenzio, accennò di sì. «Sono un avversario di questa procedura», disse allora il viaggiatore, «ancora prima che lei mi facesse parte della sua confidenza – una confidenza che naturalmente non tradirò in nessun caso – mi ero già chiesto se avessi il diritto di intervenire contro la procedura, e se questo intervento avesse anche una minima speranza di successo. A chi per primo mi dovessi rivolgere, mi era chiaro: naturalmente al comandante. Lei me lo ha reso ancora più chiaro, senza beninteso rafforzare ancor più la mia opinione, anzi, la sua sincera convinzione mi commuove, senza che naturalmente possa anche distogliermi da quel che penso».
L’ufficiale rimase silenzioso, si girò verso la macchina, afferrò una delle sbarre di ottone e poi, un po’ chinato, guardò in su verso il disegnatore, come per controllare che tutto fosse a posto. Il soldato e il condannato sembravano aver fatto amicizia; il condannato, per quanto gli fosse difficile saldamente incatenato com’era, faceva dei segni al soldato; il soldato si chinava verso di lui; il condannato gli sussurrava qualcosa, e il soldato faceva cenno con il capo.
Il viaggiatore si avvicinò all’ufficiale e disse: «Lei ancora non sa cosa farò. Dirò la mia opinione sulla procedura al comandante, non però in una riunione, ma a quattr’occhi; inoltre, non rimarrò qui così a lungo da essere trascinato in una qualche riunione; già domattina presto partirò, o perlomeno salirò sulla nave.»
Non sembrava che l’ufficiale fosse stato a sentire. «Dunque la procedura non l’ha convinta», disse fra sé e sé e sorrise, come un vecchio sorride dell’insensatezza di un bambino, trattenendo dietro il sorriso il suo vero pensiero.
«Allora è giunto il momento», disse infine, e improvvisamente guardò il viaggiatore con uno sguardo schiarito, come per metterlo a parte di un invito, di un appello.
«Il momento per cosa?» chiese inquieto il viaggiatore, ma non ricevette risposta.
«Tu sei libero», disse l’ufficiale al condannato nella sua lingua. Questi dapprima non gli credette. «Forza, sei libero», disse l’ufficiale. Per la prima volta il viso del condannato si riempì di vita. Era vero? O era solo un capriccio dell’ufficiale, un capriccio che poteva cambiare di nuovo? Il viaggiatore straniero gli aveva procurato la grazia? Cos’era? Questo sembrava chiedere con il viso. Ma non a lungo. Fosse come fosse, se poteva voleva essere libero veramente, e cominciò a scuotersi, per quanto glielo consentiva l’erpice.
«Mi strappi le cinghie», gridò l’ufficiale, «stai fermo! Te le apro subito.» E con il soldato, cui aveva fatto cenno, si mise al lavoro. Senza parlare, il condannato rideva piano davanti a sé, e girava la testa ora a sinistra verso l’ufficiale, ora a destra verso il soldato, senza dimenticare nemmeno il viaggiatore.
«Tiralo fuori», ordinò l’ufficiale al soldato. A causa dell’erpice, bisognava ora usare una certa prudenza. Per la sua impazienza il condannato aveva già dei piccoli graffi sul dorso.
Ma da quel momento in poi l’ufficale quasi non si occupò più di lui. Si avvicinò al viaggiatore, estrasse di nuovo la piccola cartella di cuoio, la sfogliò, trovò infine il foglio che cercava e lo mostrò al viaggiatore. «Legga», disse. «Non posso», disse il viaggiatore, «come le ho già detto, non riesco a leggere questi fogli.» «Lo guardi bene», disse l’ufficiale, e si mise accanto al viaggiatore per leggere insieme con lui. Dato che nemmeno così si otteneva qualcosa, alzò molto in alto sulla carta il mignolo, come se per nessun motivo fosse lecito toccare il foglio, in modo da facilitare così la lettura al viaggiatore. Questi si sforzò anche, per essere almeno in questo gentile con l’ufficiale, ma gli risultò impossibile. Allora l’ufficiale cominciò a sillabare la scritta, e poi a leggerla ancora una volta tutta insieme. «C’è scritto: ‘Sii giusto!’», disse, «ora dovrebbe riuscire a leggerlo.» Il viaggiatore si piegò sulla carta così in basso, che l’ufficiale gliela allontanò, per timore che la toccasse; ora il viaggiatore tacque, ma era chiaro che ancora non aveva potuto leggere nulla. «C’è scritto: ‘Sii giusto!’» ripeté l’ufficiale. «Può essere», disse il viaggiatore, «ritengo che ci sia scritto così». «Bene», disse l’ufficiale, almeno in parte soddisfatto, e con il foglio salì sulla scala; con grande cautela collocò il foglio nel disegnatore, e a quanto sembrava cambiò completamente il programma degli ingranaggi; era un lavoro arduo, doveva trattarsi di ruote molto piccole, talvolta la testa dell’ufficiale, per la necessità di controllare con la massima precisione ogni ingranaggio, scompariva completamente nel disegnatore.

Il viaggiatore da sotto seguiva senza interruzione questo lavoro, il collo gli si irrigidì, gli occhi gli dolevano per il cielo inondato di luce solare. Il soldato e il condannato erano ora impegnati l’uno con l’altro. La camicia e i pantaloni del condannato, che stavano già nella fossa, furono tirati fuori dal soldato con la punta della baionetta. La camicia era orribilmente sporca, e il condannato la lavò nel secchio dell’acqua. Quando poi indossò camicia e pantaloni, sia lui che il soldato dovettero scoppiare a ridere, perché i vestiti erano tagliati in due nella parte posteriore. Forse il condannato si sentiva in dovere di divertire il soldato, si mise a fare un giro in tondo nei suoi vestiti strappati davanti al soldato, il quale intanto si piegò in terra e si batteva ridendo le ginocchia. Ciononostante, cercavano di trattenersi per riguardo alla presenza dei due signori.
Quando l’ufficiale ebbe finalmente concluso il suo lavoro nella parte superiore, sorridendo contemplò ancora una volta il tutto in ogni sua parte, stavolta chiuse il coperchio del disegnatore che era rimasto fino ad allora aperto, scese giù, guardò dentro la fossa e poi il condannato, osservò soddisfatto che questi aveva recuperato il suo vestito, poi andò al secchio d’acqua per lavarsi le mani, si accorse troppo tardi dello sporco ripugnante, si dispiacque di non potersele lavare, infine le immerse nella sabbia – sostituto insufficiente, ma doveva accontentarsi – quindi si alzò in piedi e cominciò a sbottonarsi l’uniforme. Così facendo per prima cosa gli caddero in mano i due fazzoletti da donna che aveva infilato nel colletto. «Eccoti i tuoi fazzoletti» disse, gettandoli al condannato. E al viaggiatore disse, a mo’ di spiegazione: «Regali delle signore».
Nonostante l’evidente fretta con cui l’ufficiale si tolse la giacca d’ordinanza e poi si spogliò completamente, trattava ogni vestito con grande cura; sfiorò addirittura, proprio con le dita, gli alamari d’argento dell’uniforme e rimise a posto con un colpetto una nappa. D’altra parte non si accordava con questa premura il fatto che, appena sistemato un capo di vestiario, l’ufficiale lo gettasse subito, con un gesto indignato, nella fossa. L’ultima cosa che gli rimase fu il corto spadino con la cinghia di sostegno. Estrasse lo spadino dalla guaina, lo spezzò, quindi raccolse il tutto, i frammenti dello spadino, la guaina e la cinghia, e lo scaraventò via con tanta violenza, che tintinnarono l’uno sull’altro in fondo alla fossa.
Ora stava lì nudo. Il viaggiatore si morse le labbra e non disse nulla. Sapeva bene cosa stava per accadere, ma non aveva alcun diritto di ostacolare in qualsiasi cosa l’ufficiale. Se la procedura penale che stava a cuore all’ufficiale era così vicina ad essere soppressa – e forse in seguito all’intervento del viaggiatore, cosa cui questi da parte sua si sentiva obbligato – allora l’ufficiale si stava comportando ora nel modo più giusto; il viaggiatore, al posto suo, non si sarebbe comportato diversamente.
In un primo tempo il soldato e il condannato non capirono nulla, all’inizio non guardavano neppure. Il condannato era molto contento di riavere i suoi fazzoletti, ma non poté rallegrarsene a lungo, perché il soldato con un gesto rapido e imprevedibile glieli prese. Ora il condannato provava a ristrappare i fazzoletti da sotto la cintura del soldato, dove questi li aveva infilati, ma il soldato stava all’erta. In questo modo litigavano, quasi per scherzo. Solo quando l’ufficiale fu completamente nudo divennero attenti. Soprattutto il condannato sembrava avere il presentimento di qualche grande rivolgimento. Quel che era successo a lui, succedeva ora all’ufficiale. Forse si sarebbe arrivati fino in fondo. Probabilmente era stato il viaggiatore straniero a dare l’ordine. Questa era dunque la vendetta. Senza avere sofferto fino in fondo, fino in fondo sarebbe stato vendicato. Una risata larga e silenziosa apparve sulla sua faccia, e non scomparve più.
Ma l’ufficiale si era rivolto alla macchina. Se già da prima era stato chiaro che capiva bene la macchina, adesso c’era da rimanere stupefatti di come la trattasse, e di come quella gli ubbidisse. Aveva appena avvicinato la mano all’erpice, quando questo si alzò e si abbassò diverse volte, fino a raggiungere la posizione giusta per accoglierlo; l’ufficiale afferrò il letto solo al bordo, e questo cominciò a scuotersi; il morso di feltro si avvicinò alla sua bocca, si vedeva che l’ufficiale avrebbe preferito evitarlo, ma l’esitazione durò solo un istante, subito si adattò e lo prese in bocca. Tutto era pronto, solo le cinghie pendevano ancora dai lati, ma la loro inutilità era evidente, non c’era bisogno che l’ufficiale fosse legato. In quel momento il condannato si accorse delle cinghie sciolte, a suo giudizio l’esecuzione non sarebbe stata completa se le cinghie non fossero state allacciate, fece un cenno zelante al soldato ed entrambi corsero a legare l’ufficiale. Questi aveva già allungato un piede per spingere la manovella che metteva in azione il disegnatore, quando si accorse che erano arrivati quei due; allora tirò indietro il piede e si lasciò legare. Ora però non poteva più raggiungere la manovella; né il condannato né il soldato sarebbero stati in grado di trovarla, e il viaggiatore era deciso a non muoversi. Non fu necessario; appena allacciate le cinghie, la macchina cominciò subito a lavorare; il letto vibrava, gli aghi danzavano sulla pelle, l’erpice fluttuava su e giù. Già da un po’ il viaggiatore osservava a occhi sbarrati, quando si ricordò che una ruota degli ingranaggi avrebbe dovuto cigolare; ma tutto era silenzioso, non si sentiva il minimo ronzio.
Grazie a questo lavoro silenzioso, la macchina si sottraeva completamente all’attenzione. Il viaggiatore volse lo sguardo al soldato e al condannato. Quest’ultimo era il più vivace, nella macchina tutto lo interessava, ora si piegava, ora si allungava, aveva sempre l’indice teso a indicare qualcosa al soldato. Tutto ciò risultava penoso al viaggiatore. Era deciso a rimanere qui fino alla fine, ma non avrebbe sopportato a lungo la vista dei due. «Andatevene a casa», disse. Il soldato forse sarebbe stato disposto ad andarsene, ma il condannato considerava l’ordine come una punizione vera e propria. Con tono lagnoso cominciò a chiedere di lasciarlo qui, e quando il viaggiatore scuotendo il capo mostrò di non acconsentire, arrivò a mettersi in ginocchio. Il viaggiatore si rese conto che gli ordini servivano a poco, e si avvicinò per cacciare i due. In quel momento udì un rumore lassù nel disegnatore. C’era dunque alla fine il difetto dell’ingranaggio? Ma era un’altra cosa. Lentamente il coperchio del disegnatore si alzò e si spalancò completamente. I denti di un ingranaggio si mostrarono alzandosi, presto apparve l’intera ruota, era come se una grande forza schiacciasse il disegnatore, per cui non c’era più posto per questa ruota, la quale si rotolò fino ai bordi del disegnatore, cadde giù, rotolò per un po’ nella sabbia e poi si fermò. Ma già lassù ne saliva un’altra, e ne seguirono ancora molte, grandi, piccole e altre che quasi non si distinguevano, con tutte succedeva lo stesso, sempre si aveva l’impressione che il disegnatore stavolta fosse vuoto, e appariva un gruppo nuovo e particolarmente numeroso, saliva, cadeva giù, rotolava nella sabbia e si fermava. A questo spettacolo, il condannato dimenticò del tutto l’ordine del viaggiatore, le ruote dentate lo affascinavano completamente, ogni volta voleva afferrarne una, nel contempo spingeva il soldato ad aiutarlo, ma tirava indietro spaventato la mano, perché subito seguiva un’altra ruota che, almeno all’inizio del rotolìo, lo spaventava.
Il viaggiatore al contrario era molto inquieto; evidentemente la macchina stava andando in pezzi; il suo funzionamento tranquillo era un inganno; aveva l’impressione che ora avrebbe dovuto prendersi cura dell’ufficiale, dato che questi non poteva più badare a se stesso. Ma mentre la caduta delle ruote dentate aveva attirato tutta la sua attenzione, aveva trascurato di controllare il resto della macchina; e ora, quando l’ultima ruota ebbe lasciato il disegnatore e lui stava chinato sull’erpice, ebbe una nuova, ancor più spiacevole sorpresa. L’erpice non scriveva, ma trafiggeva soltanto, e il letto non spostava il corpo, ma si limitava, vibrando, ad alzarlo sugli aghi. Il viaggiatore voleva intervenire e possibilmente arrestare il tutto, questo non era più il supplizio cui mirava l’ufficiale, era un assassinio e basta. Allargò le mani. Ma già l’erpice si alzava di lato con il corpo trafitto, come di norma avrebbe dovuto fare alla dodicesima ora. Il sangue scorreva in cento fiumi, non mescolato con l’acqua, anche le cannucce si erano rifiutate stavolta di fare il loro dovere. E anche l’atto finale non riuscì, il corpo non si staccò dai lunghi aghi, il sangue scorreva ma il corpo rimaneva sospeso sulla fossa senza cadere. L’erpice voleva ritornare nella sua prima posizione, ma come se si rendesse conto che non era ancora liberato del suo peso, rimase lì sopra la fossa. «Date una mano!» gridò il viaggiatore al soldato e al condannato, e afferrò lui stesso i piedi dell’ufficiale. Voleva spingere contro i piedi da questa parte, gli altri dovevano prendere la testa dell’ufficiale dall’altra parte, e così, lentamente, lo avrebbero sollevato dagli aghi. Ma ora i due non volevano decidersi a venire; il condannato si voltò dall’altra parte; il viaggiatore dovette andare da loro e costringerli con la forza ad avvicinarsi alla testa dell’ufficiale. A questo punto, quasi contro la sua volontà, vide il viso del cadavere. Era tale e quale com’era stato in vita; della promessa redenzione, nessuna traccia; ciò che tutti gli altri avevano trovato nella macchina, lui non lo aveva trovato; le labbra erano saldamente serrate, gli occhi erano aperti, avevano l’espressione della vita, lo sguardo era calmo e convinto, attraverso la fronte passava la punta del grosso puntale d’acciaio.

* * *
Quando il viaggiatore, seguito dal soldato e dal condannato, giunse in vista delle prime case della colonia, il soldato gliene indicò una e disse «Questa è la sala da tè».
Al pian terreno di una casa c’era un locale profondo, basso, a volta, con pareti e soffitto anneriti dal fumo. Sul lato della strada era completamente aperto. Benché la sala da tè non fosse molto diversa dalle altre case della colonia, che erano tutte, incluso il palazzo del comandante, molto malandate, essa risvegliò tuttavia nel viaggiatore l’impressione di una memoria storica, ed egli percepì la forza dei tempi andati. Si avvicinò, seguito dai suoi accompagnatori, in mezzo ai tavoli deserti che stavano sulla strada davanti alla sala, e respirò l’aria fresca e umida che veniva dall’interno. «Il vecchio è sepolto qui», disse il soldato, «il prete gli ha rifiutato un posto al cimitero. Per un po’ c’è stata incertezza su dove seppellirlo, alla fine si è scelto questo posto. L’ufficiale di tutto ciò non le ha detto niente di sicuro, perché naturalmente era il primo a vergognarsene. Qualche volta di notte ha anche tentato di disseppellire il vecchio, ma è sempre stato scacciato via.» «Dov’è la tomba?» chiese il viaggiatore, che non riusciva a credere al soldato. Entrambi, il soldato e il condannato, gli corsero davanti e con le mani distese gli indicarono il punto in cui doveva trovarsi la tomba. Portarono il viaggiatore fino alla parete posteriore, dove sedevano alcuni clienti, seduti ai tavoli. Probabilmente erano lavoratori del porto, uomini forti, con barbe corte, di un nero splendente. Erano tutti senza giacca, le loro camicie erano lacere, era gente povera e umiliata. Quando il viaggiatore si avvicinò, si appoggiarono alla parete ricambiando il suo sguardo. «E’ uno straniero», si sentì sussurare intorno il viaggiatore, «vuole vedere la tomba». Spostarono di lato uno dei tavoli, sotto il quale si trovava veramente una pietra tombale. Era una semplice pietra, abbastanza bassa da poter essere nascosta sotto un tavolo. Su di essa c’era una scritta a caratteri molto piccoli, per poter leggere i quali il viaggiatore dovette mettersi in ginocchio. Diceva: «Qui riposa il vecchio comandante. I suoi seguaci, che oggi non possono avere alcun nome, gli hanno scavato la tomba e collocato la pietra. Secondo una profezia, dopo un determinato numero di anni il comandante risorgerà e da questa sala condurrà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Credete e aspettate!» Quando il viaggiatore ebbe letto si alzò, e vide intorno a sé gli uomini in piedi che sorridevano, come se avessero letto la scritta insieme a lui, l’avessero trovata ridicola e lo invitassero ad aderire alla loro opinione. Il viaggiatore finse di non accorgersi di nulla, distribuì fra loro alcune monete, aspettò ancora finché il tavolo non fosse spinto sulla tomba, lasciò la sala da tè e si avviò al porto.
Il soldato e il condannato avevano trovato nella sala da tè dei conoscenti che li avevano trattenuti. Ma dovevano essersene liberati presto, perché il viaggiatore era appena a metà della lunga scala che conduceva alle barche e loro erano già al suo inseguimento. Probabilmente volevano costringerlo all’ultimo minuto a prenderli con sé. Mentre il viaggiatore di sotto contrattava con un barcaiolo il passaggio alla nave a vapore, i due si precipitavano giù per la scala, in silenzio, perché urlare non osavano. Ma quando arrivarono in basso, il viaggiatore era già sulla barca, e il barcaiolo aveva appena sciolto gli ormeggi. Avrebbero ancora potuto fare un salto nella barca, ma il viaggiatore sollevò dal fondo una pesante fune annodata, con la quale li minacciò, trattenendoli così dal salto.

Frammenti per «Nella colonia penale»
(Da Diari, 7-9 agosto 1917)

«Come?» disse il viaggiatore

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Il viaggiatore ora si sentiva stanco per ordinare o addirittura fare qualcosa. Si limitò a estrarre un fazzoletto dalla tasca, fece un movimento come per immergerlo nel secchio lontano, lo premette sulla fronte e si mise vicino alla fossa. Così lo trovarono i due signori che il comandante aveva mandato per prenderlo. Quando gli rivolsero la parola, si alzò subito in piedi come rinfrancato. Con la mano sul cuore, disse: «Dovrei essere un cane bastardo a permettere questo.» Ma poi sembrò prendere l’espressione alla lettera, perché incominciò a girare intorno a quattro zampe. Solo ogni tanto balzava in piedi, quasi si strappava, si appoggiava al collo di uno dei signori e in lacrime esclamava: «Perché a me tutto questo», e tornava di corsa al suo posto.

8. (agosto 1917) E anche se tutto il resto fosse rimasto uguale, c’era pur sempre il puntale, che spuntava storto dalla fronte lacerata.

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Come se tutto ciò avesse portato il viaggiatore alla consapevolezza che ciò che sarebbe seguito era solo affare suo e del morto, mandò via con un gesto della mano il soldato e il condannato, quelli esitarono, gli lanciò contro una pietra, quelli ancora confabulavano, allora corse da loro e li colpì con i pugni della mano.

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«Come?» disse improvvisamente il viaggiatore. Era stato dimenticato qualcosa? Una parola decisiva? Un colpo? Una stretta di mano? Chi può addentrarsi nella confusione? Maledetta aria tropicale, cosa fai di me? Non so cosa succede. La mia capacità di giudizio è rimasta a casa nel nord.

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«Come?» disse improvvisamente il viaggiatore. Era stato dimenticato qualcosa? Una parola decisiva? Un colpo? Una stretta di mano? Assai possibile. Molto probabile. Un grossolano errore di calcolo, una concezione profondamente perversa, una linea stridula e che schizza inchiostro attraversa il tutto. Ma chi rimetterà a posto le cose? Dov’è l’uomo che potrebbe farlo. Dov’è il buon vecchio mugnaio di campagna del nord, che infili fra le sue macine questi due gaglioffi ghignanti?

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[ …]

9 Ag. (1917)
Il viaggiatore fece con la mano un gesto indefinito, lasciò cadere i suoi sforzi, spinse di nuovo i due via dal cadavere e indicò loro la colonia, dove dovevano tornare immediatamente. Con una risata gorgogliante diedero mostra di avere pian piano compreso l’ordine, il condannato premette sulla mano del viaggiatore il suo viso, che era stato insozzato più di una volta, il soldato con la destra – dato che con la sinistra dondolava l’arma – diede una pacca sulla spalla al viaggiatore, tutti e tre ora formavano un gruppo.

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Il viaggiatore dovette scacciare con forza la sensazione che lo stava invadendo, che in questo caso fosse stato fatto ordine in maniera perfetta. Stava diventando stanco, e rinunciò all’idea di seppellire ora il cadavere. La calura, che era continuamente salita – il viaggiatore non intendeva alzare la testa verso il sole per non essere colto da vertigini – l’improvviso definitivo ammutolire dell’ufficiale, la vista di quei due laggiù, che lo guardavano come due estranei e con i quali, data la morte dell’ufficiale, aveva perso ogni legame, infine questa liscia e meccanica confutazione che l’opinione dell’ufficiale aveva ricevuto, - per tutto questo insieme – il viaggiatore non ce la fece più a rimanere in piedi e si sedette sulla sedia di canna. La cosa migliore sarebbe stata, se per venirlo a prendere avessero spinto ora la sua nave fin attraverso questa sabbia senza strade. Ci sarebbe salito sopra, rivolgendo, solo dalla scala, un rimprovero all’ufficiale per il modo crudele in cui il condannato era stato giustiziato. Lo racconterò quando sarò a casa, avrebbe detto a voce alta, perché udissero anche il capitano e i marinai che lassù si piegavano curiosi sulla ringhiera di bordo. «Giustiziato?» avrebbe giustamente replicato l’ufficiale. «Eccolo lì», avrebbe detto, additando l’uomo che portava i bagagli del viaggiatore. E in effetti costui era il condannato, come il viaggiatore dovette convincersi osservando con attenzione ed esaminando con cura i tratti del viso. «Devo ammetterlo», era allora obbligato a dire, e lo diceva volentieri. «Un trucco da prestigiatore?» domandò ancora. «No», disse l’ufficiale, «è lei che si sbaglia. Sono io quello che è stato giustiziato, secondo il suo ordine.» Il capitano e i marinai ascoltavano ora con attenzione ancor maggiore. E tutti insieme videro come l’ufficiale si passava la mano sulla fronte, svelando così un puntale che spuntava curvo dalla fronte lacerata.



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